Giuseppe Maranini
Giuseppe Maranini è stato uno tra i maggiori giuristi costituzionali e politologi italiani del 20° sec. e ha svolto un ruolo rilevante anche nel dibattito sulla politica e le istituzioni nell’Italia del secondo dopoguerra. Dal punto di vista scientifico, egli si segnala soprattutto per l’approfondimento del concetto di regime politico, fondato sull’analisi realistica degli assetti di potere, ma con particolare attenzione all’importanza dei meccanismi istituzionali. A partire dal 1949, proiettò la sua riflessione nel dibattito politico italiano, definendo il sistema politico-istituzionale della rifondata democrazia una partitocrazia, ossia un sistema in cui la sovranità del popolo e i diritti dei cittadini erano espropriati dalle oligarchie partitiche.
Giuseppe Maranini nacque a Genova il 16 aprile 1902 da Paolo, giornalista e militante socialista, e da Rina Melli, nata in una tra le maggiori famiglie della borghesia ebraica ferrarese, convertitasi al socialismo e alla causa dell’emancipazione femminile. Passò l’infanzia a Trento, al seguito del padre giornalista presso il locale giornale socialista «Il Popolo»: fu questo un periodo da lui successivamente idealizzato come l’epoca più felice della sua vita. Nella Trento di Cesare Battisti, che ebbe modo di conoscere, avvenne la sua prima formazione fortemente influenzata dal tema dell’irredentismo. I suoi sentimenti nazionalistici si rafforzarono durante l’adolescenza vissuta a Bologna negli anni della Grande guerra e dei conflitti scoppiati in Italia tra fautori e oppositori dell’intervento, proseguiti dopo l’armistizio con i violenti scontri tra nazionalisti e socialisti.
Sull’onda di tali sentimenti, a 17 anni, nel 1919, seguì Gabriele D’Annunzio nell’impresa di Fiume. Successivamente, vide con favore la nascita del fascismo (Benito Mussolini era stato amico e compagno di lotta di suo padre), ma non aderì al movimento.
Dopo un breve periodo di attività come giornalista, si dedicò completamente agli studi di giurisprudenza presso l’Università di Pavia, dove si laureò nel 1924 sotto la guida di Arrigo Solmi con una tesi di storia del diritto italiano dedicata allo Statuto albertino. L’empirismo metodologico di Solmi nello studio delle istituzioni e la lezione di Gaetano Mosca sui rapporti tra élites politiche, democrazia e parlamentarismo esercitarono in quel periodo le maggiori influenze sulla sua formazione scientifica, e contribuirono in misura determinante alla maturazione di una sua personale visione del rapporto tra politica, istituzioni e costituzioni nella storia occidentale, europea e italiana. Dopo la laurea, cominciò a insegnare nelle scuole secondarie a Venezia e qui, nel 1926, fondò, insieme alla moglie Elda Bossi, la casa editrice La Nuova Italia.
Nel 1928 ebbe il primo incarico di insegnamento di storia delle costituzioni presso l’Università di Perugia, e per l’occasione prese la tessera del Partito nazionale fascista (PNF). Nel 1933 divenne professore ordinario della stessa disciplina. Nel 1938, in seguito all’emanazione delle leggi antisemite, rischiò di perdere la cattedra in quanto figlio di madre ebrea. Nel 1940 ottenne il trasferimento nella facoltà di Scienze politiche Cesare Alfieri dell’Università di Firenze, dove ricoprì la cattedra di diritto internazionale.
Dopo la caduta del fascismo fu sottoposto a procedimento di epurazione, dal quale venne definitivamente assolto nel 1946. Nello stesso anno si presentò alle elezioni per l’Assemblea costituente nella lista dei Cristiano-sociali, ma non venne eletto. Alle elezioni politiche del 1948 partecipò alla campagna elettorale appoggiando il Partito socialista dei lavoratori italiani (PSLI) di Giuseppe Saragat. Dal 1947 aveva intanto ottenuto presso l’Università di Firenze la cattedra di diritto costituzionale italiano e comparato. Nel 1949 venne eletto preside della facoltà di Scienze politiche, carica che ricoprì fino alla morte.
A partire dal 1952 svolse un’intensa e costante attività di editorialista per i quotidiani «La Nazione» e «Il Resto del Carlino». Dal 1962 comincò a collaborare al «Corriere della Sera». Nel 1965 fondò l’associazione Alleanza costituzionale, per la piena attuazione della Carta del 1948 e per la riforma delle istituzioni in Italia. Morì a Firenze il 23 giugno 1969.
La prima monografia pubblicata da Maranini – Le origini dello Statuto albertino, pubblicata nel 1926 – proponeva la tesi secondo cui la Costituzione del Regno di Sardegna, poi estesa allo Stato nazionale unitario, era stata il frutto autoctono di una maturazione storica della cultura politica e giuridica italiana, e manteneva intatta la sua attualità in quanto prevedeva un assetto dei poteri fondato sull’equilibrio tra l’esecutivo monocratico regio e il parlamento, che rappresentava anche un equilibrio tra le diverse componenti della società nazionale. Maranini riteneva che l’ascesa al potere di Mussolini andasse considerata come conforme all’essenza autentica dello Statuto, in quanto il suo ruolo di capo del governo si configurava come un adeguato rafforzamento del potere esecutivo.
Nel successivo scritto La divisione dei poteri e la riforma costituzionale (1928), alla luce del consolidamento dittatoriale del potere di Mussolini, egli specificava meglio tale tesi affermando che lo Statuto, fin dai primi tempi dopo la sua promulgazione, era stato equivocamente interpretato nella prassi politica del nostro Paese come un regime parlamentare puro, con un’indebita preponderanza di quello legislativo sugli altri poteri: un equivoco derivato da una malintesa imitazione delle istituzioni costituzionali britanniche, in realtà mediata dall’influenza del modello costituzionale francese postrivoluzionario, in cui appunto si era manifestata la tendenza alla prevalenza pressoché illimitata del potere legislativo.
Nel frattempo, dalla fine del 1927, proprio grazie all’intercessione del padre presso il duce, Maranini aveva ricevuto il suo primo incarico universitario nella facoltà di Scienze politiche di Perugia, e aveva aderito al PNF.
Negli anni Trenta egli sviluppò la sua concezione dell’equilibrio tra i poteri in una prospettiva storica di più lungo periodo, attraverso la ricostruzione dell’evoluzione politico-istituzionale della Repubblica di Venezia (La costituzione di Venezia, 2 voll., 1927-1931) e poi della Rivoluzione francese (Classe e Stato nella rivoluzione francese, 1935). Le istituzioni veneziane, a suo avviso, erano state l’unico ordinamento italiano di origine comunale a non cadere nell’anarchia e, successivamente, nella sottomissione a un signore assoluto perché nella Serenissima il regime rappresentativo non si era risolto in assemblearismo, ma era stato controbilanciato dalla permanenza al governo di un’élite sociale e politica stabile. E, nella sua analisi del regime politico nella Francia dopo il 1789, Maranini evidenziava come la tendenza alla dissoluzione delle istituzioni rappresentative in un caos di interessi particolaristici fosse stata in quegli anni impedita, per breve tempo, soltanto dal rafforzamento del potere di governo ottenuto da Maximilien de Robespierre attraverso la formazione del Comité de salut public. Infine, nel saggio del 1938, Dallo Statuto di Carlo Alberto alle leggi costituzionali del fascismo, Maranini per la prima volta collegava organicamente la decadenza particolaristica del regime politico dello Stato italiano unitario non soltanto alla preminenza incontrastata del potere legislativo, ma anche all’effetto destabilizzante provocato successivamente dall’ingresso nelle istituzioni dei partiti di massa, e al passaggio dal sistema elettorale maggioritario uninominale a doppio turno a quello proporzionale con scrutinio di lista nel 1919.
Dal punto di vista metodologico, negli anni Trenta Maranini si contrappose alla ‘scuola nazionale’ di diritto pubblico, contestandone radicalmente l’approccio formalistico allo studio degli ordinamenti e proponendo come alternativa a esso un’analisi rigorosamente realistica di questi ultimi, fondata sulla comprensione dinamica dei rapporti di forza a livello politico e sociale.
Verso la fine del decennio, a causa dell’evoluzione totalitaria, filonazista e antisemita del fascismo, si andò sempre più allontanando dal regime. Nel corso della guerra, riprese a Firenze i rapporti con un circolo di amici socialisti e, dopo la caduta di Mussolini, insieme a loro fondò una nuova formazione politica, il Partito socialista del lavoro, che ebbe però vita effimera. Di questo periodo sono anche due suoi opuscoli politici di stile utopico, Utopia dopo la rivoluzione e Organizzare la libertà (entrambi del 1945). In essi egli tratteggiava un ideale di regime politico e costituzionale in cui residui di corporativismo si combinavano con elementi tipici delle democrazie liberali anglosassoni.
Negli anni del dopoguerra in Maranini si andò consolidando sempre più l’idea che la degenerazione parlamentaristica/assembleare e la destabilizzazione provocata dai partiti di massa nell’ordinamento liberale italiano fossero state il frutto di una mancata comprensione, e cattiva traduzione, dell’originario modello britannico di regime costituzionale, di cui egli individuava ora lo sviluppo più coerente nella Costituzione degli Stati Uniti.
Sulla base di questa convinzione, egli riprese il termine partitocrazia – coniato nella polemica politica di quegli anni da oppositori liberalmoderati dei governi del CLN (Comitato di Liberazione Nazionale; in particolare Roberto Lucifero e Arturo Labriola) – usandolo per criticare radicalmente il modello di democrazia parlamentare diffuso nei Paesi dell’Europa continentale, a cui, a suo dire, si era adeguata anche la Costituzione italiana del 1948.
A partire dalla sua prolusione del 1949 Governo parlamentare e partitocrazia (edita nel 1950) e dal corso universitario su La costituzione degli Stati Uniti d’America, tenuto nell’anno accademico 1949-50, Maranini sostenne che i sistemi costituzionali come quello repubblicano italiano, o quello della Quarta Repubblica francese, non si potevano definire propriamente delle democrazie ma erano, appunto, partitocrazie, regimi a tendenza assemblearistica in cui i partiti si erano insediati come oligarchie dominanti, vanificando qualsiasi controllo o bilanciamento tra i poteri, e dunque tanto la sovranità popolare quanto le libertà individuali.
Per riportare l’assetto politico-istituzionale italiano verso il modello originale del costituzionalismo liberaldemocratico occidentale sarebbe stato necessario, ad avviso di Maranini, sottoporre i partiti (ma anche i sindacati e le associazioni facenti capo in generale a interessi economici) a norme e controlli rigorosi, che ne assicurassero la consonanza con i principi liberaldemocratici. E, al contempo, si sarebbe dovuto assicurare un adeguato grado di autonomia al potere esecutivo rispetto al parlamento, attraverso la stabilizzazione indotta da un sistema elettorale maggioritario uninominale (al riguardo, era nettamente preferibile per Maranini quello a turno unico tipico delle democrazie anglosassoni) e un efficace sistema di checks and balances.
Nelle argomentazioni proposte da Maranini nella sua campagna – scientifica e civile – contro la partitocrazia si ritrovava, al di là dell’evoluzione dei suoi modelli politico-istituzionali di riferimento dallo ‘Stato integrale’ fascista al costituzionalismo anglosassone, una profonda continuità con la sua riflessione giovanile: soprattutto nel rifiuto, derivato in linea diretta dall’elitismo moschiano, di una «democrazia aritmetica», e nella corrispondente preoccupazione di assicurare al regime democratico la salda guida di un’élite di governo, in grado di conservare l’integrità dello Stato contro le pulsioni disgregative degli interessi di parte (Miti e realtà della democrazia, 1958).
Nel corso degli anni Cinquanta e Sessanta, Maranini avrebbe continuato a sostenere con insistenza la necessità di misure che riportassero l’assetto politico-istituzionale del Paese dalla partitocrazia alla democrazia di tipo occidentale, sia attraverso saggi scientifici, sia mediante una costante attività di editorialista prima sulla «Nazione» e sul «Resto del Carlino», poi sul «Corriere della Sera».
Nel corso del tempo, però, e in particolare a partire dal 1955, si può percepire con sempre maggiore chiarezza un cambiamento di tono nel suo atteggiamento verso la Carta repubblicana italiana. Se fino a quella data egli aveva sottolineato soprattutto le «antinomie» e la contraddittorietà dell’assetto di poteri previsto dalla Legge fondamentale (Crisi del costituzionalismo e antinomie della costituzione, 1953), a partire da allora egli cominciò a sostenere la tesi secondo cui quell’ambivalenza era in realtà il frutto della sovrapposizione, nell’opera dei costituenti, di due modelli diversi: da un lato, più in evidenza, un paradigma ‘continentale’ di parlamentarismo ‘puro’; dall’altro, in sottofondo, meno appariscente ma più coerente, il rimando al modello ‘americano’ di ordinamento costituzionale «federale-presidenziale».
In questa prospettiva rinnovata della sua campagna scientifico-ideologica, il cui esempio più compiuto si trova nel saggio Le istituzioni costituzionali del 1957, per Maranini il rafforzamento delle istituzioni liberaldemocratiche contro le oligarchie non richiedeva l’abolizione della Carta del 1948, ma semmai la piena attuazione o la corretta interpretazione di alcuni suoi dispositivi che, se in vigore e rettamente applicati, avrebbero fatto prevalere, nella vita concreta degli ordinamenti italiani, l’originaria ispirazione anglosassone. In particolare, egli insisteva per un’interpretazione più ‘interventista’ dei poteri del capo dello Stato, per un rafforzamento dell’esecutivo attraverso un’applicazione più rigorosa della disciplina della fiducia parlamentare al governo, per una piena realizzazione dell’autonomia del potere giudiziario attraverso l’azione indipendente della Corte costituzionale e del Consiglio superiore della magistratura.
La seconda metà degli anni Cinquanta fu anche il periodo in cui le idee di Maranini – pur generalmente guardate con diffidenza e fastidio dal mondo politico italiano – cominciarono a ottenere una certa attenzione negli ambienti politico-intellettuali dell’area liberaldemocratica ‘terzaforzista’ (in particolare le riviste «Tempo presente» e «Nord e Sud») e in alcune frange del mondo cattolico-democristiano (in particolare, si verificò all’epoca un’oggettiva convergenza tra le sue tesi e quelle di Luigi Sturzo, e la categoria di partitocrazia fu ripresa dai settori moderati cattolici contrari al centrosinistra che facevano capo alla rivista «L’Ordine civile» di Gianni Baget Bozzo). I temi dell’inquadramento costituzionale della democrazia italiana e del rapporto tra democrazia e ‘apparati’ di partito, del resto, in quegli anni avevano guadagnato un posto di rilievo nella dialettica politica a partire dal dibattito sull’attuazione costituzionale iniziato con l’intervento in tal senso del presidente della Repubblica Giovanni Gronchi subito dopo la sua elezione, e durante il processo di costruzione delle maggioranze di centrosinistra, con le contraddizioni che esso faceva emergere tra le procedure istituzionali e la dialettica, non sempre trasparente, all’interno di partiti e correnti.
Dopo la crisi dell’estate 1960, la caduta del governo Tambroni e l’avvio delle maggioranze di centrosinistra, le argomentazioni antipartitocratiche di Maranini e di altri intellettuali – come Ignazio Silone, Panfilo Gentile, Mario Vinciguerra – si trovarono a essere di nuovo bruscamente emarginate dal dibattito politico italiano, e spesso condannate tout court come posizioni antidemocratiche e velleità di restaurazione autoritaria.
In quegli anni, sfiduciato dalla sordità della classe politica ai suoi richiami, per un breve periodo (tra il 1964 e il 1965) Maranini tornò a prendere in considerazione l’idea di una riforma della Costituzione in senso presidenzialista, accostandosi all’Unione democratica per una nuova Repubblica fondata dall’ex leader del Partito repubblicano Randolfo Pacciardi. Tuttavia, dopo pochi mesi, sia per persistenti divergenze programmatiche da quest’ultimo (in particolare in merito al controllo giurisdizionale e al sistema elettorale), sia anche probabilmente in seguito al totale isolamento politico in cui immediatamente si venne a trovare il progetto pacciardiano, egli ritirò il suo appoggio al movimento, e scelse invece di promuovere una propria iniziativa sul tema del dibattito sulle istituzioni con la fondazione nel 1965 dell’associazione Alleanza costituzionale.
Quest’ultima, formata da intellettuali di varie discipline (soprattutto giuristi, ma anche storici e letterati) nasceva con l’intento di formulare proposte per la piena attuazione e valorizzazione della Carta, ma anche per l’ammodernamento dell’assetto costituzionale italiano. Essa si collocava, cioè, nella linea delle posizioni prese da Maranini dopo il 1955, ma i suoi promotori non rifiutavano a priori l’ipotesi di modifiche, almeno integrative, alla lettera della Costituzione.
Anche questa timida apertura, tuttavia, venne aspramente criticata dagli ambienti intellettuali vicini alla sinistra e in generale ai partiti dell’arco costituzionale dell’epoca, e l’associazione – nonostante l’organizzazione di alcuni convegni che suscitarono non poco interesse – non riuscì nel suo intento di coagulare uno schieramento politico-culturale ampio e ‘trasversale’ intorno all’obiettivo di realizzare in Italia un modello coerente di democrazia liberale occidentale.
Parallelamente, negli interventi pubblici degli ultimi anni di Maranini assunse una sempre maggiore centralità il tema dell’indipendenza della magistratura. Egli era giunto, infatti, alla conclusione che soltanto un ‘terzo potere’ agguerrito e inflessibile potesse esercitare un’efficace funzione di salvaguardia dei principi liberaldemocratici contro l’inevitabile tendenza della classe politica partitica alla difesa di interessi particolaristici e alla corruzione.
Egli espresse attivamente, perciò, il suo sostegno alle prime manifestazioni dall’impronta esplicitamente politica dei magistrati italiani. In particolare, oltre a molti interventi giornalistici e alla partecipazione a convegni sul tema dei rapporti tra politica e giurisdizione, quell’appoggio si manifestò attraverso la sua partecipazione al congresso dell’Associazione magistrati tenutosi a Gardone Riviera nel 1965, in cui per la prima volta venne formulata la tesi dell’‘indirizzo politico’ dell’attività dei giudici.
Negli ultimi anni di vita Maranini si dedicò anche a un intenso lavoro di sintesi storiografica in cui la sua interpretazione dell’evoluzione costituzionale italiana trovò una forma più distesa e approfondita. In particolare, questa attività produsse i due volumi La Repubblica (1965) e Storia del potere in Italia, 1848-1967 (1967). In essi, la vicenda dello Stato nazionale veniva inserita nel più ampio affresco dell’affermazione parallela dell’organizzazione razionale del potere segnata dallo Stato moderno e delle libertà individuali attraverso il costituzionalismo.
Le origini dello Statuto albertino, Firenze 1926.
La costituzione di Venezia, 2 voll., Venezia 1927-1931 (rist. anast. Firenze 1974).
La divisione dei poteri e la riforma costituzionale, Venezia 1928.
Dallo Statuto di Carlo Alberto alle leggi costituzionali del fascismo, in La costituzione degli Stati nell’età moderna. Saggi storico-giuridici, 2° vol., t. 1, Firenze 1938.
Qualche osservazione di metodo sugli studi di diritto costituzionale, «Stato e diritto», 1940, 1, pp. 47-50.
Governo parlamentare e partitocrazia (Lezione inaugurale dell’anno accademico ’49-’50), Firenze 1950.
La costituzione degli Stati Uniti d’America. Appunti dalle lezioni del prof. G. Maranini, a cura di A.M. Mazzoli, Firenze 1950, poi a cura di E. Capozzi, Soveria Mannelli 2003.
Le istituzioni costituzionali, in Aspetti di vita italiana contemporanea, Bologna 1957, pp. 3-51, poi pubbl. in volume con il titolo Il mito della costituzione, a cura di T.E. Frosini, Roma 1996.
Miti e realtà della democrazia, Milano 1958.
Magistrati o funzionari? Atti del Symposium ‘Ordinamento giudiziario e indipendenza della magistratura’, a cura di G. Maranini, Milano 1962.
Il tiranno senza volto, Milano 1963.
Giustizia in catene, Milano 1964.
La repubblica, Firenze 1966, poi, con introduzione di S. Ortino, 1973.
Storia del potere in Italia 1848-1967, Firenze 1967, poi, con introduzione di A. Panebianco, Milano 1995.
E. Bossi, Un uomo libero. Giuseppe Maranini, Cuneo 1977.
A. Campi, Modelli di storia costituzionale in Giuseppe Maranini, Roma 1995.
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T.E. Frosini, Maranini e il progetto di Alleanza costituzionale, «Nuova Antologia», 1996, 2199, pp. 290-309.
T.E. Frosini, Forma di governo e “partitocrazia” negli anni dell’inattuazione costituzionale, in L’apprendimento della Costituzione (1947-1957), a cura di A. Barbera, M. Cammelli, P. Pombeni, Milano 1999, pp. 84-90.
L. Borsi, Classe politica e costituzionalismo. Mosca, Arcoleo, Maranini, Milano 2000.
D. Palano, Il giovane Maranini. Appunti per una storia della scienza politica in Italia tra le due guerre, «Teoria politica», 2001, 3, pp. 131-57.
F. Lanchester, Regime, partiti e sistema elettorale in Giuseppe Maranini, in Id., Pensare lo Stato. I giuspubblicisti nell’Italia unitaria, Roma-Bari 2004, pp. 115-39.
Istituzioni e poteri nell’Italia contemporanea, Atti del Convegno di studi in memoria di Giuseppe Maranini a cento anni dalla nascita, Firenze (29-30 novembre 2002), a cura di S. Rogari, Firenze 2004.
Studi in onore di Mario Stoppino (1935-2001), a cura di G. Fedel, Milano 2005.
M. Griffo, Sull’origine della parola ‘partitocrazia’, «L’Acropoli», 2007, 4, pp. 396-409.
L. Mannori, Maranini Giuseppe, in Dizionario biografico degli Italiani, Istituto della Enciclopedia Italiana, 69° vol., Roma 2007, ad vocem.
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E. Capozzi, Partitocrazia. Il “regime” italiano e i suoi critici, Napoli 2009.
Su Camillo Pellizzi:
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Tra gli intellettuali italiani del Novecento che si sono mossi in un ambito di pensiero per alcuni versi affine a quello di Maranini, occorre citare Camillo Pellizzi e Mario Stoppino. Entrambi, in particolare, sono accomunabili al costituzionalista e politologo fiorentino per la costante attenzione al tema delle élites e per la connessione, nella loro riflessione, tra politica, istituzioni e poteri sociali.
Pellizzi (Collegno 1896-Firenze 1979), volontario nella Prima guerra mondiale, al termine del conflitto, attraverso il nazionalismo si avvicinò al fascismo e aderì all’attualismo di Giovanni Gentile. La sua visione dell’ideologia fascista era tutta imperniata su una concezione profondamente aristocratica, che assegnava al partito il ruolo di un’élite in grado di guidare ed educare le masse attraverso l’uso dei miti politici.
Trasferitosi a Londra nel 1920 come lettore di italiano presso l’University College, dal 1934 occupò presso quell’ateneo la cattedra di Italian studies. Rimase in Gran Bretagna fino al 1939, quando ottenne la cattedra di storia e dottrina del fascismo presso l’Istituto Cesare Alfieri di Firenze. Dopo la fine del fascismo fu sospeso dall’insegnamento in seguito a procedimento di epurazione. Collaborò a varie riviste, come «Il Borghese» di Leo Longanesi, e a quotidiani come «Il Giornale d’Italia» e «Il Corriere della Sera». Nel 1950 riottenne finalmente la cattedra. Fu il primo professore ordinario di sociologia in Italia.
Nella sua riflessione teorica, Pellizzi pose la sua attenzione soprattutto al tema delle relazioni umane nella formazione della classe dirigente economica e pubblica, segnando in ciò una continuità con il tema delle élites e delle aristocrazie che era stato al centro dei suoi interessi nei decenni precedenti la Seconda guerra mondiale. Nel 1960 fondò la rivista «Rassegna italiana di sociologia», da lui diretta fino alla morte. Tra le sue opere, si ricordano Il partito educatore (1941), Una rivoluzione mancata (1949) e La democrazia e la politica di massa (1952).
Mario Stoppino (1935-2001) fu allievo di Bruno Leoni presso l’Università di Pavia e successivamente docente di scienza politica nello stesso ateneo. Egli concentrò la sua riflessione teorica soprattutto sull’analisi del potere come fondamento della scienza politica. Nelle sue opere – in particolare in Potere e teoria politica (1982) e in Potere ed élites politiche (2000) – delineò una mappa ad ampio raggio sulla fenomenologia del potere, a partire dalle relazioni individuali fino alla dimensione collettiva e istituzionale, nelle sue implicazioni tanto razionali quanto irrazionali. Nel 1994 fondò la rivista «Quaderni di scienza politica».