DORIA, Giuseppe Maria
Nacque a Genova il 12 luglio 1730 dalla bolognese Eleonora Tanari e da Giovan Francesco, duca di Massanova, fondatore della Accademia ligustica di belle arti ed autore dell'anonima e semiufficiale Storia di Genova dal trattato di Worms fino alla pace di Aquisgrana (1750). Nel 1745 entrò con il fratello Giovanni Nicolò nel collegio modenese "S. Carlo", dove rimase sino all'estate del 1749, e a Modena ebbe occasione di incontrare il Muratori, con il quale suo padre intratteneva rapporti epistolari.
Ascritto al Libro d'oro della nobiltà genovese il 21 maggio 1751, il D. iniziò a ricoprire cariche di un certo rilievo nel 1760, quando divenne membro della deputazione per gli affari del Marchesato di Finale. Il 18 ott. 1762 il D., che aveva ereditato nel 1752 il titolo di duca di Massanova, nel proprio palazzo di Carignano, sposò Teresa Isabella De Mari, che gli dette un figlio. Nel 1767 fu nella giunta di Giurisdizione, l'anno dopo divenne procuratore e successivamente sedette nel magistrato delle Fortificazioni. Il 14 maggio 1770 fu nominato ministro plenipotenziario presso la corte imperiale e l'8 luglio raggiunse con la famiglia Vienna, dove rimase sino alla fine del 1773 e dove, il 10 maggio 1771, morì sua moglie.
In un periodo nel quale i motivi di attrito fra gli Asburgo e Genova seguitavano ad essere molteplici e gravi, le istruzioni del D. raccomandavano una cordiale intesa con i rappresentanti di Francia e Spagna, potenze interessate alla "tranquillità" del Genovesato, e prospettavano un riavvicinamento all'Austria sulla base della comune ostilità per il Piemonte, contrapponendo all'aggressività e alla doppiezza sabaude la franca neutralità di una Repubblica interessata all'equilibrio e aperta al libero commercio di tutti gli Stati. Il riavvicinamento, però, era reso problematico dalle pretese imperiali di superiorità e dominio eminente sulle terre liguri, tanto più pericolose in quanto il giovane e ambizioso Giuseppe II "prevenuto dall'adulazione e dalla lettura de libri stampati in Germania per provare la dipendenza della Liguria dall'Impero", aveva "pur troppo dimostrato sin'ora la sua inclinazione diretta a fomentare e a sostenere queste idee" (Arch. di Stato di Genova, Arch. segreto, 2716). Toccava al D. schivare simili pericoli, rivendicare la piena indipendenza della Repubblica, riallacciare rapporti di amicìzia. In particolare doveva sollecitare la reinvestitura dei feudi imperiali spettanti a Genova (la relativa domanda era stata regolarmente presentata "dentro il termine di un anno e un giorno dalla morte dell'ultimo imperador concedente", ma dal Consiglio aulico tardava a giungere risposta), rifiutando però qualunque atto di sottomissione, come la richiesta di "rinnovazione dei privilegi" che la Repubblica aveva avanzata fino a metà del sec. XVI I, ma che ora pareva un'intollerabile diminuzione di sovranità "inutile formalità, che non può dare all'Impero ciò che non ha di fatto, e che con falso raziocinio vuol riferirsi a qualche nostra dipendenza dall'Impero medesimo" (ibid.).
Erano dissidi formali, resi tuttavia ben concretì dal ricordo del trattato di Worms e della successiva guerra, ma ancor più dalla questione di Sanremo, apertasi con la rivolta del 1753 e niente affatto conclusa al tempo della legazione del Doria. Sanremo era anzi un tema centrale nelle sue istruzioni e il serenissimo governo gli raccomandava di insistere per "Pesclusione di qualunque diritto dell'Impero sopra questa parte del nostro Dominio", di far notare "la moderazione con la quale abbiamo sempre trattata e trattiamo questa nostra città", di indagare sull'attività degli agenti sanremaschi a Vienna o a Torino e di procurarsi "le notizie dei mezzi coi quali sossistono, e coi quali da tanto tempo vanno alimentando i loro ricorsi presso tutti i tribunali cesarei" (ibid.).
Il negoziato di Sanremo si trascinò stancamente per tre anni, durante i quali il D. ebbe modo di saggiare a proprie spese tutta la debolezza del piccolo Stato genovese di fronte a una grande potenza. Nei suoi dispacci sono descritte la gran fatica spesa per tenere in vita "da trattativa quasi dimenticata" e le difficoltà incontrate per ottenere udienza da Kaunitz o da Maria Teresa; e si riconosce, nel giugno 1772, che se glì affari van prendendo una buona piega per Genova ciò non dipende affatto dalla considerazione in cui è tenuta la Repubblica, "ma perché conviene a questa corte la quiete d'Italia per gli due arciduchi e due arciduchesse che vi sono stabilite, e perché non potendo l'imperatore secondo le leggi dell'Impero farsi esecutore delle proprie deliberazioni, non può nelle circostanze presenti trovare in Italia alcun potente vassallo, che per gli interessi propri possa incaricarsi di eseguirle colla forza" (Arch. segreto, 2602). L'11 nov. 1770 il D. aveva ottenuto una prima e incoraggiante udienza da Maria Teresa, che si era mostrata benevola e interessata ad una composizione della controversia. Ma tutto dipendeva dalla volontà dell'ìmperatore, o meglio del Kaunitz, poco propenso a dare ascolto al D.: ci vollero quasi due anni perché, nel giugno 1772, si degnasse finalmente di ricevere il rappresentante genovese, ingiungendogli di chiedere al suo governo proposte chiare e definitive. Fu in seguito a tale colloquio che vennero approvate dai Collegi, nel luglio di quell'anno, alcune "proposizioni da offerire per mezzo del signor principe di Kaunitz a S. M. l'Imperadrice Regina, per ottenere col di lei mezzo il sopimento di ogni ingerenza d'imperialità nell'affare di San Remo", che il D. presentò al Kaunitz in un nuovo colloquio del 6 agosto. Ma le trattative continuarono a rilento, tra la diffidenza francese e le perplessità di molti commentatori politici che giudicavano Genova fin troppo arrendevole alla volontà imperiale. E quando nell'ottobre 1773, prima di rientrare in patria, il D. si recò ad ossequiare i sovrani, l'imperatore gli comunicò seccamente di aver visto le proposte genovesi, ma di non averle prese in considerazione perché occupato in affari più seri.
Nell'aprile del 1773 il D. aveva ottenuto dal suo governo una licenza che gli servì per recarsi, tra il 7 maggio ed il 15 giugno, in Germania: particolarmente a Dresda e a Berlino, dove visitò la corte di Federico II. Terminata la sua missione diplomatica, fece ritorno a Genova il 31 genn. 1774 e di lì a poco, mentre era in viaggio a Parma e Bologna, fu estratto per il Senato; ma non volle accettare la carica, preferendo sborsare la penale di 300 scudi prevista dalla legge. Il 7 apr. 1775 presentò ai Collegi una relazione sugli Stati imperiali frutto della sua precedente ambasceria, buona descrizione politico-diplomatica nella quale risaltavano le preoccupazioni destate in lui da Giuseppe II, "ambizioso di farsi un nome memorabile colla dilatazione del dominio e con far sentire qualche colpo di autorità imperiale" (Arch. segreto, 2719).
Si risposò il 12 giugno 1775 con Barbara Fieschi, dalla quale ebbe due figli e una figlia. Tra il 1775 ed il 1780 fu membro della giunta di Marina e di quella Giurisdizione. Nel 1782 entrò in una giunta designata dai Collegi per stabifire le nuove leggi dell'arte della seta, approvate nel 1785. Fu procuratore dal 15 dic. 1777 e poi di nuovo dal 18 dic. 1786, sindacatore supremo nel 1787, ancora nella giunta di Giurisdizione nel 1788, revisore delle stampe nel 1790, di nuovo supremo sindacatore nel 1791, protettore dell'ospedale di Pammatone nel 1792. Il 16 sett. 1793, a 160 anni di distanza dall'elezione di un Doria alla massima dignità della Repubblica, egli divenne doge, in un momento in cui nessuna carica era meno appetita dai patrizi genovesi che facevano a gara nel defilarsi e schivare la nomina.
Il D. non faceva eccezione alla regola generale: appena estratto nel novero dei tre candidati tra i quali doveva avvenire l'elezione, si rimpiattò in una sua villa di Sampierdarena. Eletto, non fu facile persuaderlo ad accettare e smuoverlo dalla villeggiatura. Dopo molte preghiere, utilizzando anche i buoni uffici della moglie che era donna energica, si riuscì a farlo partire il 29 settembre, "quando la detta sera incognitamente se ne venne in Genova nel suo palazzo ed il giorno 30 alla mattina verso le ore 11 v'andò [sic] li Serenissimi Collegi che l'accompagnarono al Palazzo [ducale], ove prese il giuramento" (Genova, Biblioteca universitaria, B.VI.9, c. 90). Infine fu incoronato il 27 apr. 1794, tra festeggiamenti fin troppo sontuosi ed appelli a "salvar la patria" forse inadatti al personaggio. Di cercare salvezza c'era davvero bisogno, come avrebbero dimostrato di lì a tre anni la caduta della vecchia Repubblica e l'avvento, sotto l'etichetta della democrazia, di uno Stato satellite alla Francia; e tuttavia, negli uomini come nelle istituzioni, le coeur n'y était plus.
Doge contro voglia e dotato di modesta tempra politica, il D. si trovò coinvolto in un gioco che egli in nessun modo poteva dominare. La Repubblica era presa in una morsa, la Francia e i coalizzati facevano a gara per trarla fuori dalla sua neutralità, mentre all'interno i "novatori" ed i "genialisti francesi" confusamente lavoravano ad abbattere il regime aristocratico. In tali condizioni il dogato si chiuse con un bilancio fin troppo positivo: fu sconfitta la cosiddetta cospirazione antioligarchica del 1794; si resistette alle pressioni e alle prepotenze dell'incaricato d'affari francese J. de Tilly, nemico personale del D., come pure a quelle del rappresentante inglese F. Drake; si rivendicò con dignità il diritto della Repubblica all'autodeterminazione, rafforzandone anche le modeste difese militari. Ma certo il D. vide con piacere la fine del proprio mandato, anche se gli toccò ancora sedere nel magistrato di Guerra, del quale divenne presidente.
All'avvento del governo provvisorio (giugno 1797) prima e della Repubblica ligure democratica poi il D., che coerentemente non aveva mai civettato con la Rivoluzione, si trovò preso di mira dal nuovo regime. Compreso nella lista degli ex nobili tra i quali fu ripartito il 25 ag. 1797 un prestito forzoso di 4 milioni, fatto segno a manifestazioni di ostilità da parte di alcuni popolani, verso la metà di settembre del 1797 preferì lasciare Genova per rifugiarsi a Bologna con la moglie (i tre figli maschi gli erano ormai tutti morti, uno proprio durante il suo dogato, e la figlia era maritata con Giacomo Cattaneo). Come emigrato fu colpito dalla confisca di metà dei beni prevista dalla legge 4 giugno 1799, ma il suo patrimonio non dovette risentime troppo, visto che si componeva prevalentemente di titoli e che l'anno seguente il competente ufficio non era ancora riuscito a procurarsi "i principali libri di scrittura dell'azienda del sudetto ex-nobile" (Arch. di Stato di Genova, Rep. Ligure, 255). Ad ogni buon conto, nel clima più moderato seguito a Marengo, il D. poté sanare la propria posizione il 30 genn. 1801 mediante un modesto esborso all'apposita commissione di liquidazione.
Da Bologna, intanto, si era stabilito definitivamente a Roma dove morì il 9 marzo 1816 e dove fu sepolto nella chiesa del Gesù. Nel testamento legò i propri gioielli al santuario della S. Casa di Loreto, lasciò 240.000 lire all'ospedale di Pammatone e 200.000 lire al conservatorio delle figlie di S. Giuseppe.
Fonti e Bibl.: Archivio di Stato di Genova Antica finanza, 536 (Registro di tutti i cittadini colpiti dalla legge de 4 giugno 1799); Ibid., Archivio segreto, 2602-2603 (Lettere ministri, Vienna 1770-1773); 2716 (Istruzioni a ministri, 1725 ss.); 2719 (Relazioni di ministri all'estero); 2852/79 (Nobilitatis); Ibid., Repubblica Ligure, 252 (Transazioni con vari ex nobili); 254 (Processo verbale della Commissione di liquidazione); 255 (Comitato di liquidazione); Genova, Bibl. univer s., ms. B.VI.9: Famiglie e notizie di Genova, cc. 89 s., 199, 210, 706; Registro delle sessioni del governo provvisorio della Repubblica Ligure..., Genova 1797, III, pp. 220-225; G. Gaggiero, Compendio delle storie di Genova dall'anno 1777 al 1797, Genova 1851, p. 88; M. Staglieno, Lo storico G. F. Doria e le sue relazioni con L. A. Muratori, in Giornale ligustico, XI (1884), pp. 405, 414 s.; L. Levati, I dogi di Genova dal 1771al 1797, Genova 1916, pp. 62-76; V. Vitale, Onofrio Scassi e la vita genovese del suotempo (1768-1836), in Atti della Soc. ligure di storia patria, LIX (1932), p. 21; Id., Diplomatici econsoli della Repubblica di Genova, ibid., LXIII (1934), p. 127; Id., La diplomazia genovese, Milano 1941, pp. 332-342; Cassiano da Langasco, Pammatone. Cinque secoli di vita ospedaliera, Genova 1953, pp. 223, 258; N. Calvini, La rivoluzione del 1753 a Sanremo, Bordighera 1953, II, pp. 119-129, 142-150, 174 ss.; V. Vitale, Breviario della storia di Genova, Genova 1955, I, pp. 363, 396 s., 431, 460 (fornisce qui notizie errate, confondendo il D. con un omonimo che fu commissario generale a Sanremo nel 1753 e commissario in Corsica nel 1754); R. Boudard, Gênes et la Francedans la deuxièw moitié du XVIIIe siècle (1748-1797), Paris- La Haye 1962, p. 485; G. Felloni, Gli investimenti finanziari genovesi in Europa tra il Seicento e la Restaurazione, Milano 1971, p. 62; C. Fusero, IDoria, Milano 1973, pp. 506-509; I manoscritti della raccolta Durazzo, a cura di D. Puncuh, Genova 1979, pp. 334 s.; P. Massa, La Repubblica di Genova e la crisi dell'ordinamento corporativo, in Atti della Soc. ligure di storia patria, XCVI (1982), p. 263; V. Spreti, Enc. storico-nobiliare ital., App., II, p. 38.