GIUSEPPE MARIA Tomasi, santo
Nacque a Licata, presso Agrigento, il 12 sett. 1649, primo figlio maschio di Giulio Tomasi-Caro e La Restia, duca di Palma di Montechiaro e signore di Lampedusa, e Rosalia Traina Drago, baronessa di Torretta e Falconeri. Nell'educazione e nella precoce vocazione religiosa di G. ebbe grande peso la figura dello zio Carlo (che, primogenito, aveva ceduto i propri diritti feudali al fratello Giulio per farsi teatino), propostogli come modello dalla profonda fede cristiana della famiglia e dal rigido codice d'onore che, anche a causa della recente ascesa sociale dei Tomasi, li induceva a dimostrare di meritare la nobiltà attraverso un comportamento assolutamente esemplare, verso il re e verso la Chiesa.
Portato a Palma pochi mesi dopo la nascita dai genitori, G. fu spettatore del voto di castità pronunciato dal padre e dalla madre nel 1655, dell'ingresso di quest'ultima (con due figlie) come oblata nel monastero di Palma e delle opere di carità del genitore, anch'egli aspirante a una vita contemplativa. In tale atmosfera religiosa, sfumato l'iniziale progetto paterno di mandarlo come paggio alla corte di Madrid, lo zio Carlo e il missionario e liturgista Francesco Maggio convinsero G. a seguire la loro strada, nonostante questa contrastasse con le aspirazioni religiose del padre e la stessa sensibilità spirituale del giovane, incline piuttosto a un'esperienza monastica; G. entrò dunque nella casa teatina di S. Giuseppe a Palermo l'11 nov. 1664, iniziando il noviziato il 24 marzo 1665 sotto la guida del Maggio, che lo avviò allo studio organico della liturgia. Un anno dopo fece la professione religiosa, preceduta dalla rinuncia irrevocabile ai suoi diritti ereditari in favore del fratello minore Ferdinando.
Sotto lo stretto controllo epistolare dello zio Carlo, nel 1667 G. studiò filosofia nel collegio di Messina, dal marzo 1668 in quello di Ferrara e, nel 1669, a Bologna e a Modena, dedicandosi anche alle lingue classiche e all'ebraico. A questo primo periodo risalgono alcune perdute proposte che, nonostante i continui scrupoli di indegnità da cui fu assillato per tutta la vita, avrebbe voluto sottoporre all'attenzione del capitolo generale teatino del 1668; esse furono però bloccate dallo zio, perché troppo innovatrici. Mentre, nel 1669, la morte del padre, principe di Lampedusa dal 1667, costringeva la madre a uscire dal monastero per occuparsi della famiglia (sempre nel rispetto delle direttive dello zio), G. si trasferì a Roma a studiare teologia nel collegio di S. Andrea della Valle. Partecipò così, il 12 apr. 1671, ai festeggiamenti per la canonizzazione di Gaetano da Thiene, finanziati dalla famiglia.
Ma la prematura morte prima della moglie del fratello Ferdinando, poi quella dello stesso Ferdinando, obbligarono G. a tornare in Sicilia (1° gennaio - 5 maggio 1672), proseguendo temporaneamente gli studi a Palermo, per occuparsi delle sorti della famiglia e dell'erede ancora in fasce, Giulio. Tornato a Roma, nell'anno successivo ottenne la qualifica di lettore e predicatore e, il 23 dic. 1673, fu ordinato sacerdote con un ritardo dovuto alle contingenze familiari e agli scrupoli alimentati in lui dalle visioni di una sorella mistica, suor Maria Crocifissa, con la quale fu sempre in fraterno rapporto attraverso una regolare corrispondenza. Il 1° genn. 1675 morì anche lo zio Carlo. Il lutto lo addolorò profondamente, ma lo liberò pure dalle pressioni dello zio, tese a spingerlo verso una cattedra prestigiosa mentre egli amava la ricerca e non l'insegnamento, e meno che mai la carriera nell'Ordine (per non essere eletto a cariche nella provincia romana dei teatini ottenne la residenza nella casa teatina di Madrid, sebbene vivesse in S. Silvestro al Quirinale).
A partire dal 1679 G. cominciò a pubblicare edizioni di testi patristici, liturgici e biblici, spesso firmate con il cognome Caro in onore della bisnonna paterna, artefice della fortuna della famiglia. La qualità di queste opere gli attirò l'attenzione dei maggiori eruditi ecclesiastici del tempo, che divennero suoi corrispondenti e amici: i cardinali José Saenz de Aguirre, Michelangelo Ricci, Francesco Barberini senior, Giovanni Bona (che aveva conosciuto ancor prima di pubblicare), Leandro Colloredo, Girolamo Casanate (con questo però diradò i rapporti quando, a causa del riacutizzarsi della questione della "monarchia sicula", preferì nominare vicebibliotecario della Chiesa Lorenzo Zaccagni, anziché un siciliano come G.), Jean Mabillon e i suoi collaboratori, Giovanni Giusto Ciampini, Giusto Fontanini (poi suo primo biografo), Benedetto Bacchini, il giovane Domenico Passionei (che si formò alla sua scuola e fece poi tradurre in tedesco il secondo Psalterium di G.), Ludovico Antonio Muratori, Hermann Shenk, Erasmo Gattola e altri.
Sebbene personalmente distaccato dalle controversie politiche, dopo l'incontro, nel 1681, con alcuni sacerdoti francesi esuli per essersi opposti ai diritti di regalia pretesi da Luigi XIV, ricercò documenti utili a confermare le tesi della S. Sede, in collaborazione con il Fontanini. Tuttavia, in questo e in altri casi, si attenne sempre a moderazione, convinto che la moltiplicazione di censure e divieti ecclesiastici nuocesse fatalmente alla loro autorità. Così, per esempio, dovendo giudicare il libro di Gaspar Audoul sull'origine delle regalie ne chiese la condanna perché discordante dal magistero, ma non la proibizione o la censura del contenuto.
Tra il 1692 e il 1698 perse la madre, la sorella suor Maria Crocifissa e il giovane nipote principe Giulio (II). Le sorti della casata e le spese per la stampa dei suoi libri furono comunque sostenute dal pronipote Ferdinando (II), della cui educazione e matrimonio G. si occupò in maniera molto meno rigida di quanto avesse fatto con lui lo zio. Nel 1695 convertì al cattolicesimo il proprio insegnante di ebraico, il rabbino Mosè Cave (che prese più tardi il nome di Filippo Antonio Francesco Tomasi, in ricordo dell'allievo).
La fama di G. come studioso è legata alle edizioni di antichi libri liturgici, parte di un più ampio disegno di ritorno alle sorgenti della fede cristiana, comprendente anche la riscoperta e la divulgazione della teologia dei Padri della Chiesa e la revisione di alcuni testi biblici. Del resto, la prima opera che pubblicò (a Roma, come tutte) fu il Divi Aurelii Augustini… speculum (1679), raccolta di precetti biblici per una retta vita cristiana. Fecero seguito, in parallelo, dal 1680 al 1710, volumi di argomento biblico e liturgico. Tra i primi l'edizione del Salterio romano e gallicano (Psalterium iuxta duplicem editionem… Romanam et Gallicanam, 1683), con le prefazioni ai Salmi dei Padri della Chiesa e la sistemazione dei loro titoli, argomenti e segni critici; quella degli antichi titoli della Bibbia (Sacrorum Bibliorum… veteres tituli, I-II, 1688) e la nuova edizione del Salterio corredata dall'antica distinzione dei versi "per cola et commata", con parafrasi, i loro argomenti e una raccolta di orazioni proprie della liturgia romana dopo la recita dei salmi (Psalterium cum Canticis versibus prisco more distinctum, 1697), riedita in Svizzera (Einsielden 1727 e 1728), in Austria (Vienna 1735) e più volte a Roma.
Tra le edizioni liturgiche (pubblicate sempre a Roma), che G. considerava basi di una riforma dei riti improntata ai modelli della Chiesa primitiva, hanno ancor oggi rilievo: quella del Sacramentario gelasiano (del quale mise in dubbio la paternità) e dei messali Gothicum, Francorum e Gallicanum vetus (Codices Sacramentorum…, 1680), tratti da manoscritti della biblioteca di Cristina di Svezia e della Vaticana; la serie degli antifonari e responsoriali della Chiesa romana (Responsorialia et antiphonaria… a s. Gregorio Magno disposita, 1686) e gli Antiqui libri missarum Romanae Ecclesiae (1691), contenenti pregevoli testimonianze della tradizione gregoriana quali il codice Blandiniensis di Bruxelles, il Lezionario di Alcuino di Parigi e altri codici antichi collazionati. Va aggiunto un folto gruppo di opere minori e opuscoli storici su vari argomenti di carattere liturgico: l'uso del pane azzimo nella Chiesa antica, l'applicazione della messa per i vivi e i defunti, l'istituzione del mercoledì delle ceneri, la traduzione in latino dell'ufficio greco del venerdì santo, una messa per la buona morte (richiestagli da Clemente XI nel 1706 e rimasta nel Messale romano fino al 1970), e molte altre (per un catalogo completo vedi Andreu, 1987, pp. 481-529 e Pavone, 1987, pp. 61-72). La salvezza dell'insieme dell'opera di G. si deve al teatino Antonio Francesco Vezzosi, incaricato nel 1745 di rivederla e prepararne l'edizione critica (già tentata precedentemente, senza successo, da Gian Girolamo Gradenigo, Giuseppe Bianchini e Gian Agostino Tolotta) in vista del termine della causa di beatificazione dell'autore. Il Vezzosi riuscì a recuperare gran parte delle carte di G., portate dopo la sua morte nella biblioteca privata di Clemente XI. Esse contenevano appunti, citazioni, integrazioni e note preparate da lui stesso in vista di una revisione delle sue opere. Questo materiale, con alcuni manoscritti a suo tempo non accessibili a G., confluì negli 11 volumi delle Opera omnia (Romae 1747-69), rendendo disponibile agli studiosi il vasto apparato critico che non sempre aveva avuto il tempo di accompagnare alle proprie edizioni. Il medesimo curatore pubblicò anche due sue biografie, in latino e in italiano.
Oggi l'opera tomasiana appare per molti versi anticipatrice di risultati della recente scienza liturgica, biblica e patristica: per il rigoroso approccio alle fonti, basato su un'accurata esegesi del testo, la prudenza nell'enfatizzare gli aspetti simbolici della liturgia, cui preferiva lo studio del suo senso storico, il coinvolgimento dei laici nella liturgia. Sono significativi per questo aspetto il suo originale progetto per la disposizione degli arredi sacri nel duomo di Palma, del 1675, e i tanti opuscoli che divulgavano in italiano preghiere, salmi, parti della messa ecc. (dalla Vera norma di glorificare Dio, del 1687, al Breve ristretto dei Salmi del 1699, alla Breve instruzione del modo di assistere fruttuosamente al santo sacrifizio della messa del 1710 e al piccolo compendio di Bibbia, patristica e liturgia che è l'Esercizio cotidiano per la famiglia, del 1712), anche se non giunse ad auspicare l'adozione delle lingue volgari nella liturgia. Vengono infine le proposte di recite laicali dei salmi, nelle domeniche, nelle parrocchie rurali prive di parroci e le indicazioni per la riforma del Breviario romano (accolte in parte da Benedetto XIII 15 anni dopo la sua morte). Si potrebbe dire che alcune scoperte tomasiane sono state accolte dalla Chiesa cattolica, non sempre consapevolmente, solo con la riforma liturgica del concilio Vaticano II. Di rilievo anche il suo piano per un corso di teologia basato sulle opere dei Padri della Chiesa (Indiculus institutionum theologicarum veterum Patrum, 1701), che avrebbe voluto vedere attuato dal Mabillon accostando trattati dogmatici dei Padri ad altri di sfondo storico. Il Mabillon morì però troppo presto e G. pubblicò solo tre volumi di questa Biblioteca patristica, portata tuttavia a termine, secondo le sue indicazioni, dal Vezzosi.
Nocquero a una maggiore popolarità di G. da una parte la controversia teologica postuma causata da certe sue amicizie, dall'altra la stessa qualità del suo lavoro, apprezzato da una cerchia di dotti ma troppo avanzato per pastori e fedeli assuefatti alle forme tradizionali della liturgia e incapaci di comprendere le ragioni scientifiche e l'intento pastorale che lo muovevano. Fu soprattutto questo intento a spingerlo in certi casi ad affrettare l'edizione di suoi lavori, sacrificando le note poi aggiunte dal Vezzosi, per essere utile ai sacerdoti prima che ai liturgisti. Paradossalmente, proprio questo intento pastorale fu giudicato apologetico da una buona parte della critica protestante, alla quale, invece, avrebbero potuto avvicinarlo la sua spiritualità e il suo modo di pregare, che davano valore assoluto alla Scrittura e importanza relativa alle devozioni popolari, al misticismo e alle eccessive preoccupazioni morali. Ulteriore paradosso fu il fatto che il suo opuscolo sulla messa apparve nelle Opera omnia, curate dal Vezzosi, successivamente alla pubblicazione del Della regolata devozione dei cristiani del Muratori, sembrando così superato mentre, invece, ne aveva anticipato diversi temi. Si potrebbe concludere con Scicolone (1981, p. 224) che G., non essendo riuscito a compendiare le sue tesi avanzate in un'unica opera sistematica, resta un grande "liturgista teologo" più che un vero "teologo della liturgia".
A Roma, accanto alla sua fama di studioso, crebbe rapidamente anche quella di santità, derivante dalla vita austera e dal comportamento estremamente umile. Stimato da Innocenzo XII, che nel 1697 lo ricevette in udienza per complimentarsi della sua edizione del Salterio (l'udienza gli costò la rinuncia allo pseudonimo), G. fu apprezzato ancor più da Clemente XI Albani, già suo amico da cardinale. Allorché l'Albani venne eletto al pontificato, infatti, accettò la nomina solo dopo aver ricevuto l'assenso di un ristretto gruppo di teologi, tra cui G., la cui influenza di liturgista trasparì nel ritorno del pontefice a certi usi antichi, come quello di tenere personalmente l'omelia nel corso delle celebrazioni in S. Pietro; tuttavia progetti più ampi di riforma liturgica da lui proposti al papa non vennero intrapresi. In compenso, se G. durante il pontificato di Innocenzo XII era riuscito a rifiutare la nomina a consultore della congregazione dei Riti ed esaminatore del clero, ora dovette accettarle insieme con quelle a consultore delle congregazioni dell'Indice, dei Riti e dei Regolari, qualificatore del S. Uffizio e consigliere del preposto generale dei teatini, Tommaso Carafa.
Il 18 maggio 1712, quando la sua salute era già molto indebolita, ebbe il cardinalato, che accettò solo "per obbedienza" dopo aver destinato l'intero suo piatto ai poveri e affrontato le spese solo con un donativo di 3000 scudi da parte del papa e 5000 mandatigli dal pronipote. Senza badare a scherni, scelse la servitù tra bisognosi e storpi, e i collaboratori tra sacerdoti non legati da obblighi di residenza, proibendo a tutti parrucche, abiti di seta e ogni sorta di lusso. Ispirandosi ai propri progetti di riforma liturgica intervenne alle funzioni sacre nella chiesa di cui era titolare, S. Martino ai Monti, tenendo il catechismo domenicale, proibendo l'uso di strumenti musicali eccetto l'organo, rinnovando arredi e introducendo un grande divisorio ligneo per separare gli uomini dalle donne (novità che gli valse l'epiteto di "bacchettone" e un sonetto - perduto - di Pasquino). Tuttavia, in soli sette mesi, spese 5000 scudi a beneficio dei poveri e 2000 per la chiesa di S. Martino.
Il 21 dicembre ebbe i primi sintomi di una polmonite, che trascurò per non mancare alle celebrazioni natalizie. Il 1° genn. 1713, dopo un'agonia confortata dalle visite di amici e alti prelati, morì nel proprio appartamento di palazzo Passarini, in via Panisperna. L'indomani fu sepolto molto poveramente nei sotterranei di S. Martino ai Monti.
Nello stesso anno del decesso iniziò una causa di beatificazione, turbata però da accuse circa un suo presunto filogiansenismo, dovute sostanzialmente a sospetti su corrispondenti o allievi della cerchia dei maurini, a equivoci sulla sua presa di distanza dalla contemporanea teologia scolastica, alla rivalutazione della Chiesa antica, al suo spirito tollerante e a critiche mossegli dopo la morte da Giacomo Laderchi (Osservazioni su due libri del card. T., Roma 1720). Queste imputazioni, però, furono facilmente confutate da Giuseppe Maria Pezzo (La difesa de' libri liturgici della Chiesa romana e della sacra persona del ven. card. G.M. T.…, Palermo [in realtà Roma] 1723). L'unico pronunciamento di G. sul quale i difensori della sua causa dovettero veramente adoperarsi fu un parere del 1694 alle integrazioni dei vescovi belgi al formulario antigiansenista di Alessandro VII. Egli le aveva ritenute non necessarie, distinguendo chi contestava le censure ecclesiastiche alle proprie opere, ma non i punti di fede (gli scismatici), dagli eretici veri e propri; questo non piacque agli intransigenti, che tentarono senza successo di attribuirgli anche un altro scritto anonimo sulla materia. La beatificazione di G. avvenne quindi solo il 29 sett. 1803; la canonizzazione, da parte di Giovanni Paolo II, è del 12 ott. 1986. Dal 1971 le spoglie, composte in un'urna trasparente, sono esposte alla pubblica venerazione a Roma nella chiesa teatina di S. Andrea della Valle, eccettuato il braccio destro, custodito dal 1948 nella parrocchiale di Torretta (Palermo).
Fonti e Bibl.: A.F. Vezzosi, De vita et scriptis ven. viri Iosephi Mariae card. Thomasii commentarius, Romae 1769; Id., Scrittori dei chierici regolari…, II, Roma 1780, pp. 360-432; Opuscoli inediti del beato card. G.M. T., a cura di G. Mercati, Roma 1905; A.C. Jemolo, Il giansenismo in Italia prima della rivoluzione, Bari 1928, pp. 102, 394, 402; E. Dammig, Il movimento giansenista a Roma nella seconda metà del secolo XVIII, Città del Vaticano 1945, pp. 51 s., 163; Regnum Dei, V (1949), 19-20, fascicolo monografico per il 300° anniversario della nascita di G., a cura di B.F. Pottino - M. Tucci - F. Andreu; A. Oliver, El beato José M. T. y el jansenismo. Documentos inéditos, in Regnum Dei, IX (1953), 33-34, pp. 27-52; É. Appolis, Entre jansénistes et zelanti. Le "tiers parti" catholique au XVIIIe siècle, Paris 1960, ad ind.; A. Vitello, I Gattopardi di Donnafugata, Palermo 1963, pp. 112-117 e passim; G.L. Masetti-Zannini, Meditazioni e impressioni romane del beato G.M. T., in Regnum Dei, XXV (1969), pp. 1-31; P. Datodi, G.G. Ciampini e il beato G.M. T., ibid., XXX (1974), pp. 207-220; I. Scicolone, Il cardinale G.M. T. e gli inizi della scienza liturgica, Roma 1981; A. Oliver, José M. T., el hombre, el sabio, el santo, Madrid 1986; G.L. Masetti-Zannini, G.M. T. cardinale, santo e liturgista principe, Roma 1986; M. Pavone, I Tomasi di Lampedusa nei secoli XVII e XVIII, Ragusa 1987, pp. 40-48, 61-72, 99-106; F. Andreu, Pellegrino alle sorgenti. S. G.M. T.: la vita - il pensiero - le opere, Roma 1987; S. Cabibbo - M. Modica, La santa dei Tomasi. Storia di suor Maria Crocifissa (1645-1699), Torino 1989, pp. 176-186 e passim; Dict. de spiritualité, VIII, coll. 1414-1416.