MAZZINI, Giuseppe
Apostolo dell'unità italiana, nato a Genova il 22 giugno 1805, morto a Pisa il 10 marzo 1872. Era figlio di Giacomo (1767-1848), medico di reputata fama, membro del governo della repubblica ligure (1797) divenuta in seguito dipartimento francese, poi membro del consiglio municipale di Genova, aggregato (1824) al collegio medico-chirurgico di quell'università, quindi scelto alla cattedra di patologia e d'igiene, infine a quella d'anatomia e di fisiologia (1830). Durante l'epidemia colerica del 1835, Giacomo M. si segnalò per coraggiosa condotta, meritandosi una medaglia d'oro da re Carlo Alberto e "testimonianza di stima e di riconoscenza". Quantunque avesse ripudiato le sue idee politiche in fatto di libere istituzioni, era in fondo fiero dell'atteggiamento assunto dal figlio, che a un avvocato il quale in Francia aveva difeso l'esule in un turpe processo di diffamazione, definiva "... un ange de bonté, de douceur et de toutes les vertus sociales". Per la madre, Maria Drago, v. mazzini, maria.
Dalla nascita al primo esilio (1805-1831). - Durante l'infanzia il M. destò sempre grandi apprensioni per la salute assai gracile. Fino dai primi anni ebbe grande smania di sapere, e la madre, che fu sua prima educatrice, ebbe assai per tempo a preoccuparsi di questa inclinazione del figlio, anche quando, affidato giovinetto a maestri, fra i quali l'abate Luca Agostino De Scalzi e poi l'abate Giacomo De Gregori, entrambi severi giansenisti, ascoltò i consigli del Breganze, l'amico del Foscolo, onestissimo uomo e fiero amatore di libere istituzioni e letterato di buona fama, intorno ai modi più opportuni per guidare le straordinarie tendenze del figlio, sul quale i precedenti del padre e le opinioni politiche di quanti assiduamente visitavano la famiglia M. avevano influito a indirizzare già d'allora lo sviluppo e la formazione del suo spirito. "Io era già inconsciamente educato" - scrisse infatti nelle preziose Note autobiografiche da lui disseminate nei primi otto volumi degli Scritti editi ed inediti - "al culto dell'eguaglianza dalle abitudini democratiche dei due miei parenti e dai modi identici ch'essi usavano col patrizio e col popolano: nell'individuo essi non cercavano evidentemente se non l'uomo e l'onesto. E le aspirazioni alla libertà, ingenite nell'animo mio, s'erano alimentate dei ricordi di un periodo recente, quello delle guerre repubblicane francesi, che suonavano spesso sulle labbra di mio padre" e di Andrea Gambini, il più intimo amico di casa Mazzini, che aveva avuto anch'egli parte nel governo della repubblica ligure. Privatamente, sotto la guida dei due giansenisti, il M. compì i sei corsi di latinità, cioè quattro di grammatica e il biennio di umanità e retorica; e nel novembre del 1819 fu ammesso al corso di filosofia e belle lettere dell'università genovese, che precedeva di due anni i corsi di legge e di medicina. Avviatosi prima agli studî di medicina, ne depose assai per tempo il pensiero, poiché tra l'aprile e il luglio del 1820 smise di frequentare le lezioni delle relative materie. Ben presto cominciò a esercitare un certo ascendente sui condiscepoli. In un tumulto occorso nella chiesa dell'università durante la festa di San Luigi (21 giugno 1820) fu arrestato insieme con un suo compagno, ma rilasciato dopo pochi giorni per intercessione della Deputazione degli studî; e ancora più valse a metterlo in vista la decisione presa da lui e da altri condiscepoli di presentarsi armati di bastoni al governatore Des Geneys in uno dei giorni del marzo 1821, intimando la proclamazione della costituzione, e la partecipazione a quella dimostrazione a Sotto Ripa in favore della rivoluzione piemontese, che fu facilmente repressa dalla cavalleria. Il M. narrò poi nelle sue Note autobiografiche la grande impressione ricevuta nell'aprile successivo, quando, passeggiando con la madre e con A. Gambini per la Strada Nuova, s'era incontrato con gruppi d'insorti riparati a Genova, dove s'imbarcavano per la Spagna, paese nel quale la rivoluzione era tuttavia trionfante. E dichiarò: "quel giorno fu il primo in cui s'affacciasse confusamente all'anima mia, non dirò un pensiero di Patria e di Libertà, ma un pensiero che si poteva e quindi si doveva lottare per la libertà della Patria"; visione cotesta che non era senza precedenti, ché nel giovinetto "le aspirazioni alla libertà" insieme ai ricordi paterni, s'erano alimentate oltre che "delle Storie di Livio e di Tacito che il suo maestro di latino gli faceva tradurre", della lettura "di alcuni vecchi giornali" e di opuscoli del tempo della repubblica ligure scovati nella biblioteca medica di suo padre. A ogni modo, l'immagine di quei proscritti lo assillò per più tempo. Sui banchi dell'università era "cupo, assorto, come invecchiato anzi tratto", e si diede "fanciullescamente a vestir sempre di nero, parendogli di portare il lutto della patria". Fra le sue copiose letture fece quella dell'Ortis che lo "infanatichì"; e la cosa andò tant' oltre che la madre temette di un suicidio. L'amicizia che contrasse allora con i Ruffini e con altri compagni d'università (G. Elia Benza, G.B. Noceti, col quale s'accompagnò in un viaggio in Toscana nei primi mesi del 1822, F. Campanella, ecc.) parve riconciliarlo con la vita. Quella compagnia G. Ruffini illustrò nel Lorenzo Benoni, in cui il M. [Fantasio] è uno dei principali protagonisti.
Il M. iniziò i suoi studî di legge il 25 novembre 1822, ottenendo il diploma di laurea il 6 aprile 1827; ma non interruppe mai gli studî letterarî, che anzi di quegli anni sono certi suoi Zibaldoni, in cui raccolse abbozzi e tracce di poemetti ispirati a puro romanticismo, d'un trattato politico Delle rivoluzioni, e d'altri argomenti. E nel 1826 scrisse le prime sue pagine letterarie: Dell'amor patrio di Dante, che inviò all'Antologia del Vieusseux, che però non le accolse nel suo periodico, ma che furono assai più tardi (1837) rinvenute dal Tommaseo e date a luce nel Subalpino di Torino: scritto giovanile, che recava testimonianza del grande amore che il M., affacciatosi appena alla vita degli studî, ebbe sempre per il poeta da lui chiamato "padre della nazione". L'anno dopo, presentato alla setta da un suo condiscepolo, Pietro Torre, il M. si ínscrisse alla carboneria, e nella vendita genovese fu ben presto uno dei più validi propagandisti, poiché gli fu concesso "non molto dopo l'iniziazione al secondo grado e facoltà d'affigliare"; e di più ebbe richiesta "di stendere in francese una specie di memorandum, indirizzato a non so chi, in favore della libertà di Spagna e a provare l'illegalità e le tristi conseguenze dell'intervento borbonico del 1823". L'autografo del suo indirizzo a Carlo X, trovato e pubblicato da A. Luzio nel 1929, prova quanto in quegli anni il M. si dimostrasse ossequente ai voleri della carboneria.
Perseverò ardentemente negli studi letterarî, specialmente attorno al Foscolo (per cui si mise in relazione col Pickering, rude libraio inglese, detentore dell'autografo del Commento alla Divina Commedia, volendo fin d'allora togliere dall'inedito l'erudita e grande fatica dell'autore dei Sepolcri) e al Byron, per cui ebbe sempre grande ammirazione.
Nel gruppo d'amici da lui frequentati, "romantici tutti", ferveva aspra la lotta contro i classicisti; se non che, il M. non era romantico nel senso che non si dovesse dare "alla nuova letteratura" altra base fuorché la fantasia individuale, che il poeta romantico si dovesse limitare a comporre "leggende dei tempi di mezzo, inni menzogneri alla Vergine, disperazioni metriche non sentite"; e già da quegli anni non amò il Manzoni, che pure, secondo lui, "poteva essere il Lutero della letteratura italiana" e invece preferì "tacere e gettarsi negli studi interamente cattolici". Per lui l'arte - e come la letteratura, così la musica, la pittura, la scultura - non doveva essere individuale e fine a sé stessa. "L'arte" - scriveva stupendamente nelle Note autobiografiche, riferendosi alle lotte imprese contro le tendenze letterarie del tempo della sua giovinezza - "non è il capriccio d'uno o d'altro individuo, ma una solenne pagina storica o una profezia; e se armonizza in sé la doppia missione, tocca, come sempre in Dante e talora in Byron, il sommo della potenza. Or, tra noi, l'arte non poteva essere se non profetica. Gli Italiani non avevano da tre secoli vita propria spontanea ma esistenza di schiavi immemori che accattavano ogni cosa dallo straniero. L'arte non poteva dunque rivivere se non ponendo una lapide di maledizione a quei tre secoli e intonando il cantico dell'avvenire. E a riuscirvi bisognava interrogare la vita latente, addormentata, inconscia del popolo, posar la mano sul core pressoché agghiacciato della nazione e spiarne i rari interrotti palpiti e desumerne riverenti intenti e norme agli ingegni. L'ispirazione individuale doveva sorgere con indole propria dalle condizioni della vita collettiva italiana, come belli di tinte varie e d'infiorescenza propria sorgono, da un suolo comune a tutti, i fiori, poesia della terra. Ma la vita collettiva d'Italia era incerta, indefinita, senza centro, senza unità d'ideale, senza manifestazione regolare, ordinata. L'arte poteva dunque prorompere a gesti isolati, vulcanici; non rivelarsi progressiva, continua, come la vita vegetale del Nuovo Mondo, dove gli alberi intrecciando ramo a ramo formano l'unità gigantesca della foresta. Senza patria e libertà noi potremo avere profeti d'arte, non arte. Meglio era dunque consacrare la vita intorno al problema: avremo noi patria? e tentare direttamente la questione politica. L'arte italiana fiorirebbe, se per noi si riuscisse, sulle nostre tombe". E fin d'allora s'infiammò nella "vocazione di rinunziare alla via delle lettere", e fu questo "il primo grande suo sacrificio, per tentare l'altra più diretta dell'azione. politica". Poiché gli s'affacciavano in quel tempo alla mente visioni di drammi e di romanzi storici, dei quali sono forse scarse testimonianze negli Zibaldoni sopra accennati; e con i suoi giovani amici, già condiscepoli all'università, o che per comunanza di studî s'erano a lui affratellati, amava intrattenersi a discutere intorno a quegli argomenti, infiammandoli a quella specie di apostolato per il rinnovamento della vita nazionale italiana.
Nel maggio del 1828 il M. persuase il libraio Ponthenier, editore d'un Indicatore genovese, specie di "foglio commerciale, d' avvisi d'industria e di varietà", di aprire una rubrica di critica letteraria; e sia pure con grandi cautele in un primo tempo, per non incorrere nei rigori della censura sarda, egli v'iniziò pubblicamente la lotta contro i classicisti, specialmente in un articolo in cui rintuzzava certi strani e duri giudizî dello storico Botta sul romanticismo. Nell'Indicatore genovese il M., firmando con sigla G. M., o mantenendo l'anonimo inserì buon numero d'articoli che toccano ogni campo delle letterature italiana e straniera: dal Romanzo in generale ed anche dei "Promessi Sposi" di A. Manzoni alla traduzione di The fair maid of Perth di W. Scott e agli Essays dello stesso, dalla recensione sulla Battaglia di Benevento del Guerrazzi, alla Storia della letteratura antica e moderna dello Schlegel, tradotta dall'Ambrosoli. A mano a mano che procedeva nella stesura dei suoi articoli, la critica mazziniana si faceva sempre più ardita, sempre più aggressiva, né valse a rimuoverlo da questo suo proposito l'ammonimento dei "revisori", ché anzi il M. e i suoi amici, alla fine del 1828, volendo dare maggiore sviluppo all'Indicatore genovese, chiesero alle autorità il permesso di darlo alla luce a cominciare dall'anno successivo con carattere esclusivamente critico-letterario. N'ebbero per risposta un decreto di soppressione del periodico (20 dicembre 1828).
Invitato a collaborare nell'Indicatore livornese del Guerrazzi (del quale il programma apparve pochi giomi dopo la soppressione del suo confratello di Genova, 12 gennaio 1829), il M. vi scrisse sulla traduzione francese del Faust di Goethe, sulle Fantasie del Berchet, sull'Orazione a Bonaparte del Foscolo, sull'Esule, poema del Giannone, e specialmente il Saggio sopra alcune tendenze della letteratura europea nel sec. XIX, politicamente arditissimo. Se non che, pure l'Indicatore livornese dovette seguire le sorti dell'altro. "Osammo tanto che l'intormentito governo toscano, compìto l'anno, c'intimò di cessare"; ma quei due giornali "avevano toccato efficacemente nell'anime corde che fin allora giacevano mute; avevano - e questo era il più - provato ai giovani che i governi erano deliberatamente avversi a ogni progresso e che libertà d'intelletto non era possibile se non cadevano".
Nel settembre del 1830 il M. accettò l'incarico affidatogli dalla carboneria genovese di compiere un viaggio in Toscana, allo scopo di procurare affiliati alla setta, in vista di possibili eventi politici in seguito alle "giornate di luglio". A Livorno strinse relazione personale con Carlo Bini (v.), del quale più tardi (1843) il M. doveva raccogliere con amore e pubblicare scarsi componimenti in prosa e in verso; e a Montepulciano s'incontrò col Guerrazzi. Ma per la sua missione ben poco concluse: affiliò alla setta "parecchi Toscani e d'altre provincie": ma non più di questo. Tornò a Genova, quando un losco avventuriero d'origine spagnola, Raimondo Doria, egli pure affiliato alla setta, datosi a intrighi e a delazioni con la polizia e col governatore Venanson, aveva denunciato, a scopo di lucro, tutte le fila della carboneria genovese e lombarda. Arrestato il 13 novembre 1830, il M., sette giorni dopo, sostenne con dignità e accortezza un primo e unico costituto. Del resto, per lui e per gli altri giovani catturati, tanto la polizia genovese quanto i magistrati e lo stesso governo centrale procedettero con mitezza, che parve soverchia, rigorosamente invece giudicando dell'osceno delatore. Il M. rimase internato nel forte di Savona fino al 28 gennaio 1831, quando il governo piemontese, accolta la relazione del Lascarena, decise che "si fissasse una settimana pel M., sia che si recasse all'estero o nell'interno, al luogo da lui scelto, fuori Genova, Savona ed altre città e luoghi del littorale". Il M. scelse l'esilio e partì il 10 febbraio per Ginevra.
Dal primo esilio al triumvirato (1831-1849). - Avviandosi per l'esilio, il M. aveva fissato saldamente nell'animo suo i principî politici che fino alla morte doveva seguire con fede incrollabile, col proposito di rendere la sua patria "una, libera, forte, indipendente da ogni supremazia straniera e morale e degna della propria missione" disposto fin da allora a fare sacrificio dei suoi ideali repubblicani, purché quei principî trionfassero. A Savona, per sua confessione, aveva già concepito il disegno della Giovine Italia (v.). A Ginevra, dove prima si recò, s'incontrò col Sismondi, che gli fece buona accoglienza e lo presentò a Pellegrino Rossi; ma non s'intesero né allora né poi. Si disponeva a partire per Parigi, quando Giacomo Ciani, esule lombardo del 1821, conosciuto presso il Sismondi, gli diede notizia che a Lione s'apprestavano i preparativi per un'invasione in Savoia da parte di esuli del 1821, favorita dal governo di Luigi Filippo. Vi accorse col proposito di parteciparvi, ma s'avvide ben presto com'erano fallaci le speranze riposte sul governo francese, che stroncò quel tentativo sul nascere; e allora, ascoltato il consiglio di Borso di Carminati, s'accompagnò con lui e con altri che partivano per la Corsica col proposito di penetrare nell'Italia centrale, dove la rivoluzione del febbraio 1831 non era stata ancora repressa. Svanita anche questa speranza d'azione, il M. si trasferì a Marsiglia, dove ripigliò il disegno di Savona, la fondazione della Giovine Italia. A Marsiglia giungevano gli esuli che avevano preso parte alla rivoluzione dell'Italia centrale, ancora frementi per le debolezze mostrate da chi l'aveva capeggiata e per l'ingiusta detenzione nelle prigioni di Venezia. Nel frattempo era morto Carlo Felice (aprile 1831) e Carlo Alberto gli succedeva al trono; e a lui, nel giugno successivo, indirizzò la lettera famosa.
Fu affacciata l'ipotesi, che può sembrare arrischiata, che il M. l'avesse scritta più per "concessione al suo passato carbonico", più per indirizzare al successore di Carlo Felice "un appello eloquente, che frugasse le fibre più riposte di quell'anima amletica, "accarezzandone" le ambizioni segrete, per tentare di volgerle a beneficio d'Italia, "che a suo intimo convincimento". Scagionandosi, e non ve n'era bisogno, dall'accusa "di diserzione alla sua bandiera", nelle Note autobiograficne il M. dichiarava che "intendeva scrivere all'Italia"; e del resto tutto il contenuto della lettera non accenna a concessione alcuna nei riguardi dell'unità della patria; le lodi a Carlo Alberto, principe non "volgare", date dall'uomo libero", rispecchiavano una pura dignità di coscienza; e il motto aragonese se no, no, dato come epigrafe, additava chiaramente quale sarebbe stata la via che il cospiratore repubblicano avrebbe percorsa, se il principe non avesse ascoltato - come fece, anzi ordinando che all'ardito scrittore fosse inibito di rientrare nei suoi dominî - quella franca e audace parola. Al quale proposito è significativa la confessione del M. che lo scritto era stato accolto con favore dai suoi amici di Genova, "indizio ch'egli parlando dichiaratamente d'unità di patria trovava un'eco nell'anima inerte, inconscia fino allora delle loro tendenze".
Poco dopo, il M. dettò lo statuto o meglio le Istruzioni generali per gli affratellati nella Giovine Italia (rielaborazione definitiva di quel Piano della grande associazione nazionale ad oggetto di liberare l'Italia, quasi subito caduto nelle mani delle polizie - una copia ne fu sequestrata a Raffele Caterbi il 4 agosto 1832, a Loreto - e che rappresenta certamente, come appare dalla lettera al Giglioli del 21 luglio 1831 e come ha notato il Luzio, la prima stesura dello statuto della Giovine Italia), presto diramate in Liguria e in Piemonte, e quasi a un tempo fondò a Marsiglia il periodico omonimo che in mezzo a grandi difficoltà e a pericoli anche per quelli che lo ricevevano, riusci a far penetrare in Italia. S'è già detto (v. giovine italia) su quali norme fu regolata l'associazione. Essa ebbe un comitato centrale le cui funzioni si sommarono quasi tutte nel M., e congreghe nelle varie città italiane. Quella di Genova fu la più attiva nell'opera di propaganda,c vi si prestarono volonterosi i suoi annci, da Iacopo Ruffini (v.) a Elia Benza, dal Castagnino all'Orsini, che si cimentarono in arditi viaggi per la Toscana, il Piemonte, spingendosi nell'Italia centrale, e si addentrarono fra i militari, per fare affiliati alla Giovine Italia. Una rissa, avvenuta nell'aprile del 1833 tra due sottufficiali del reggimento granatieri della guardia di stanza a Genova, sorta per gelosia di donne, portò alle prime scoperte dell'associazione, della quale il governo sardo aveva vaghi indizî, senza essere riuscito fino allora a sorprenderne le fila, poiché uno dei contendenti, per vendicarsi dell'altro, che sapeva affiliato alla Giovine Italia, lo denunziò ai superiori. Ai primi arresti seguirono confessioni che portarono a nuove iatture e ad altre rivelazioni. Seguirono fughe tra i maggiori indiziati, alle quali non si volle adattare Iacopo Ruffini che fu arrestato e si suicidò in carcere. In breve, il governo ebbe in mano le fila della Giovine Italia e le prove che si preparava un moto rivoluzionario, e agì con la massima energia, facendo fucilare a Genova, a Chambéry, ad Alessandria dodici tra militari e borghesi. Al grave colpo il M. non s'accasciò, se pure terribilmente angosciato per il suicidio del suo più caro amico. E parve rinsaldarsi ancora più nei suoi propositi, quando, scampati a sicura morte, s'aggiunsero a lui i fratelli Ruffini e la madre loro. Sfrattato da Marsiglia, si rifugiò a Ginevra, dove continuò nei preparativi per un'invasione in Savoia e un'insurrezione nel Napoletano; e vi attese con la cupa disperazione, che traspare da alcuni passi d'una lettera al Melegari del 18 luglio 1933. Accnlsc quindi la proposta fattagli da un giovine esule del 1831, Antonio Gallenga, che poi fu suo acerrimo avversario, e che s'era offerto di attentare alla vita di Carlo Alberto; e poiché nel settembre del 1833 Francesco IV di Modena si disponeva a visitare il re sabaudo a Torino, vagheggiò che i due sovrani si potessero spegnere a un tempo, e dispose che un esule modenese, Antonio Allegrini, si recasse in Piemonte insieme con il Gallenga, cui fornì d'un pugnale a lui caro. Per la fortunata insipienza o la paura dei due congiurati, quei tentativi andarono a vuoto; e per il tradimento del Ramorino che doveva comandare la spedizione, per il dissidio sempre più stridente con la carboneria e con la setta dei Veri Italiani, simpatizzanti più con l'antica che con la nuova associazione, fallì la spedizione in Savoia, alla quale, oltre a buon numero di esuli italiani avrebbe dovuto partecipare una colonna di Polacchi, rifugiati in Svizzera dopo la rivoluzione del 1830. Il M. narrò l'episodio nelle Note autobiografiche e il tradimento del Ramorino nell'ultimo fascicolo della Giovine Italia. Rifugiatosi a Berna, il 15 aprile 1834 dettò il patto della Giovine Europa.
In Savoia il primo periodo della Giovine Italia, per sua stessa confessione "era conchiuso e conchiuso con una disfatta"; dall'Italia giungevano al M. "voci di sconforto, nuove di fughe, diserzioni, imprigionamenti e dissolvimento"; a tutto ciò s'aggiungeva che il materiale di guerra che doveva servire al moto insurrezionale era stato sequestrato, che i mezzi finanziarî erano quasi esauriti di fronte alla tristissima condizione degli esuli, sprovveduti i più d'ogni cosa. E nondimeno, il M. decise di "continuar nella via", allargando il suo programma con la fondazione della Giovine Europa, affratellamento di tutti i popoli nel concetto della nazionalità, partendo da un punto umanitario, che era quello non solo dell'eguaglianza e della fratellanza degli uomini, ma dell'eguaglianza e della fratellanza dei popoli. Intenso fu il lavoro a questo fine tra gli anni dal 1834 al 1836, che il M. compì fra incredibili difficoltà, nascosto, chiuso sempre in una stanza per sfuggire alle persecuzioni del governo federale, trasferendosi a Losanna, a Bienne, a Grenchen, insieme con alcuni dei suoi amici genovesi, tra i quali i due fratelli Ruffini. E tuttavia, nel giugno del 1835, poté fondare un periodico, La Jeune Suisse, destinato a estendere l'associazione e le sue idee nella Svizzera, e in esso inserì, quasi a ogni numero, articoli che sono tra i migliori da lui dati in luce, specialmente una parte dell'opuscolo Foi et avenir (Bienne 1835), nel quale con forma smagliante, gettando qua e là bagliori profetici, continuò quell'apostolato repubblicano europeo che tentava di far sottentrare all'apostolato francese. Poiché egli riteneva fermamente che con la rivoluzione del 1789 la Francia aveva chiuso la sua missione d'iniziativa rivoluzionaria e di progresso in Europa - concetto che il M. negli anni successivi sempre più ribadi - e che un altro popolo dovesse sottentrarle in quella missione; e già in alcuni articoli della Giovine Italia e nel 1834 in uno destinato alla Revue républicaine col titolo: De l'initiative révolutionnaire en Europe, aveva vagheggiato che la stessa dovesse spettare all'Italia. Nel maggio del 1836 le persecuzioni contro il M. crebbero d'intensità, e furono posti in opera i mezzi più vili per catturarlo, segnalandosi in tutto ciò l'ambasciatore francese, duca di Montebello; tuttavia, nonostante un conclusum della dieta che nel luglio del 1836 gl'intimava l'esilio perpetuo dalla Svizzera, egli non si m0sse per allora; e solamente nel dicembre, veduto che "il modo di vita che gli era comandato dalle circostanze" minacciava "seriamente la salute" dei due Ruffini che dividevano con lui le persecuzioni e le ansie di quella vita d'inferno, decise di lasciare la Svizzera. Ma lo fece come da potenza a potenza, per le vie diplomatiche tra lui e il rappresentante della Francia presso il governo elvetico, col beneplacito di questo. Giunse così a Londra il 13 gennaio 1837, traversando la Francia senza inconvenienti.
Cominciò allora per il M. una vita di grandi sacrifici morali e materiali: un giorno, dopo avere venduto l'anello donatogli dalla madre, fu persino in procinto di essere arrestato per debiti. Già sul punto di abbandonare la Svizzera, "la tempesta del dubbio" lo angosciò talmente che per "poco che quella condizione di mente si fosse protratta", egli insaniva davvero o moriva travolto dall'egoismo del suicidio. E narrò in pagine commoventi per quali vie, quelle del dovere soprattutto, poiché la vita per lui era missione, poté rinsavire "da per sé, senza aiuto altrui, mercé un'idea religiosa". Ad aggravare la sua miseria s'aggiungeva il fatto che i fratelli Ruffini, impoveriti da domestiche sciagure, continuavano a essere quasi a tutto suo carico, lasciando scorgere le loro amarezze, fino a quando, uno dopo l'altro si dipartirono da lui, Agostino recandosi nel 1839 a Edimburgo per insegnarvi lettere italiane, Giovanni, raggiunta la madre in Francia, trasferendosi tre anni dopo a Parigi. E per il M. l'abbandono dei suoi più intimi amici, trasformatosi a poco a poco in indifferenza, infine in avversione non solamente a lui, ma a quell'ideale per cui avevano tanto sofferto, fu acerbo dolore, che tenne in sé racchiuso, giustificando anzi con la madre quel loro comportamento.
Fin dai primi mesi del suo soggiorno londinese il M., seguendo l'esempio di un altro grande esule, il Foscolo, si pose in relazione con i direttori delle riviste e dei magazines inglesi, proponendo la sua collaborazione; e forse gli fu di grande ausilio la conoscenza del Carlyle (v.), fatta nel novembre del 1837. Sia pure in mezzo a mille ostacoli, a inadempienze di traduttori, tra il 1838 e il 1845 il M. avviò a quei periodici buon numero di articoli su argomenti letterarî, storici e politici, dei quali sono qui da ricordare: Moto letterario in Italia (London a. Westminster Review, 1838); Studi sulle libere istituzioni del Sismondi (Tait's Edinburgh Magazine, 1838); Les voix intérieures de V. Hugo (British a. Foreign Review, 1838); Fra Paolo Sarpi (London a. Westminster Review, 1838), importante perché rivendicava all'Italia la scoperta della teoria sulla circolazione del sangue; Il principe Napoleone-Luigi Bonaparte (ibid.); Stato presente della letteratura francese (Monthly Chronicle, 1839); Lamennais (ibid.); Lettere sulle condizioni e sull'avvenire d'Italia (ibid.); Thiers (ibid.); La chute d'un ange, de Lamartine (British a. Foreign Review, 1839); George Sand (Monthly Chronicle, 1839), giudicato dalla scrittrice francese, che gli divenne subito amica, la migliore critica fatta all'opera sua; Sulla storia della rivoluzione francese di Th. Carlyle (ibid.); È rivolta o rivoluzione? (Tait's Edinburgh Review, 1840); La pittura moderna in Italia (London a. Westminster Review, 1841); Genio e tendenze di Th. Carlyle (British a. Foreign Review, 1843) Opere minori di Dante (Foreign Quarterly Review, 1844); The Papal States (Westminster Review, 1845). Già dall'ultimo anno della sua dimora in Svizzera egli, oltre a collaborare al periodico parigino L'Italiano, cui aveva contribuito a fondare (notevoli i suoi articoli: Saggio sulla musica; Della fatalità considerata come elemento drammatico; i Cenni sul Werner, sull'Hugo, ecc.), aveva concepito vasti lavori per un'edizione delle opere del Foscolo (per la quale aveva avuto anche intese con E. Mayer; v.) e in seguito aveva intavolato trattative con Felice Le Monnier; ma successivi eventi politici frustrarono quel suo disegno, e del materiale foscoliano raccolto diede in luce il Commento alla Divina Commedia (voll. 3, Londra 1842-43) e una scelta di Scritti politici (Lugano 1844).
Nel 1839, con "proposito incrollabile, quasi feroce", decise di riprendere il lavoro della Giovine Italia. Diramò quindi nuove "istruzioni generali" che tuttavia, salvo lievi varianti, erano quelle dell'antica associazione, e ripigliò la poderosa corrispondenza, ponendosi in relazione con gli esuli italiani sparsi nei varî depositi di Francia, e incaricando Giuseppe Lamberti, che per otto anni gli fu diligente coadiutore, di riordinare a Parigi il vasto lavoro di quella cospirazione politica, della quale è eloquente documentazione il Protocollo della Giovine Italia, di recente pubblicato (Imola 1916-1922, in 6 voll.). Contemporaneamente, il M. a Londra si poneva in rapporto con gli operai italiani e per essi, ragazzi e adulti, oltre a fondare una scuola italiana che fu un vero nido di conforto per i primi, trattati come schiavi da inumani padroni, diede in luce due modesti periodici, l'Apostolato popolare e il Pellegrino, trasformato poi nell'Educatore. Penetrato anche in Italia, il primo di quei periodici ebbe una relativa diffusione, e pervenne pure nelle mani dei fratelli Bandiera, uno dei quali, Attilio, da Smirne, nel 1842, si pose in relazione epistolare con l'esule di Londra, iniziando così una corrispondenza, nella quale si ribadiva sempre più il proposito di dedicarsi alla redenzione d'Italia. Dopo la tragica fine dei Bandiera, poiché si credette che sull'esule di Londra dovesse ricadere la responsabilità dell'eccidio, M. poté invece dimostrare la parte avuta in quel tragico episodio dal governo inglese che invano tentò scagionarsene alla Camera dei comuni e a quella dei lord; e nel volumetto edito col titolo: Italy, Austria and ihe Pope (Londra 1845), bollò a sangue la deplorevole inziativa del ministro sir James Graham; poi fece pubblicare a Parigi, nello stesso anno, i Ricordi dei fratelli Bandiera, dedicati a Jacopo Ruffini, commovente documentazione del sacrifizio di quegli eroici martiri e terribile requisitoria contro il governo borbonico.
L'elezione al pontificato di Pio IX, le parziali riforme concesse da alcuni governi italiani, e financo gli scritti del Balbo e del Gioberti, non fecero colpo sul M., che anzi mostrò diffidenza per quei tentativi liberali, che spostavano il perno dell'azione rivoluzionaria com' egli la concepiva. E se nel settembre del 1847 scrisse e diede in luce la lettera A Pio IX, lo fece "in un momento d' espansione e d'illusione giovanile", per indicare al nuovo papa ciò che avrebbe potuto e dovuto fare. Del resto, sul nuovo papa e sui primi atti del suo pontificato egli si era espresso chiaramente l'anno innanzi nell'articolo: The Pope and the Italian Question, inserito nel People's Journal, additando arditamente a Pio IX la via da tenere per essere il vero papa riformatore, poiché tutto ciò che aveva fino allora concesso costituiva per lui un serio pericolo, invece che un titolo di gloria. Invece esultò di gioia alla notizia che Palermo era insorta a furia di popolo il 12 gennaio 1848 e ai Siciliani indirizzò il 20 del mese successivo una lettera nella quale, preoccupato di un probabile moto separatista, dichiarava quali dovevano essere i loro doveri di fronte all'Italia; poi, quando la monarchia orleanese fu sbalzata di seggio durante le giomate di febbraio e in Francia si formò un governo provvisorio, egli lasciò Londra e a Parigi il 5 marzo fondò l'Associazione nazionale italiana, che sostituì alla Giovine Italia. Era ancora a Parigi quand'ebbe notizia che Milano era insorta e dopo cinque giorni di lotta aveva cacciato l'Austriaco dalla Lombardia; e di là, a nome dell'Associazione nazionale italiana, stese il 31 marzo un indirizzo ai Lombardi, quindi, il 7 aprile, traversato il Gottardo, giunse a Milano, accolto con grandi feste anche dal governo provvisorio, di cui erano membri il GuerrieriGonzaga e il Correnti che condividevano le sue idee politiche e al quale propose che per fronteggiare la guerra contro l'Austria si invitassero quegli esuli che si erano segnalati nelle guerre di Spagna (Fanti, Cucchiari, Cialdini, Ardoino, D'Apice, ecc.) a raggiungere la Lombardia. Pochissimi giorni dopo, per iniziativa del conte di Castagnetto, segretario particolare di Carlo Alberto, ebbe offerta di "un'alleanza del partito repubblicano" col re sardo, ma le trattative, alle quali intervenne, mandato dal M., il Campanella, sfumarono quando il M. ripeté il se no, no, qualora non fossero accettate dall'"Amleto della monarchia" le proposte, che erano quelle stesse formulate già nella lettera del 1831. Contrario alla fusione della Lombardia col Piemonte, protestò pubblicamente quando fu emanato il decreto del 12 maggio, e con lui firmarono la protesta i maggiori rappresentanti del partito repubblicano, fra i quali erano Visconti-Venosta, Griffini, Brioschi, ecc., divenuti poi ferventi monarchici. D'allora in poi il M. fu in aperto dissidio col governo provvisorio della Lombardia, e di quel dissidio fu organo il periodico L'Italia del popolo da lui fondato il 20 maggio, e quando, alla fine di luglio, si accentuarono i disastri della guerra e il governo lasciò Milano, formò un comitato di pubblica difesa che non poté impedire il ritorno degli Austriaci in Milano. Di là uscì il 3 agosto, per arruolarsi semplice milite nella colonna Medici che si unì al corpo di volontarî formato a Bergamo da Garibaldi allo scopo di tentare le ultime resistenze; quindi esulò a Lugano, dove attorno a lui si aggrupparono gli esuli frementi per la cattiva condotta della guerra. Con essi il M. tentò d'iniziare una "guerra di popolo", ma l'insurrezione di Val d'Intelvi (ottobre 1848) fu presto domata. Rimase nel Canton Ticino fino ai primi di novembre, quando ebbe ordine di sfratto; ma restò nascosto in Svizzera per tutto ii dicembre, e, dopo una breve dimora a Marsiglia, visto che il partito democratico pareva trionfare in Italia, scese a Livorno, dove giunse l'8 febbraio 1849 nello stesso giorno in cui il granduca lasciava la Toscana; e di là proseguì per Firenze; ma il governo assommato nel Guerrazzi lo trattò freddamente, avversando la proposta da lui fatta dell'unione della Toscana con Roma, dal 9 febbraio repubblica.
Giunse a Roma la sera del 5 marzo, e poiché nelle elezioni del 21 gennaio era stato eletto rappresentante del popolo all'assemblea costituente, quindi, il 12 febbraio, proclamato cittadino romano, il 6 marzo entrò all'assemblea, che lo accolse con acclamazioni di giubilo. In quella seduta e nelle successive parlò più volte ascoltatissimo. Notevole il suo discorso pronunziato alla vigilia di Novara, quando propose che l'esercito di Roma repubblicana dovesse combattere in Lombardia a fianco di quello regio piemontese. Sciolto il comitato esecutivo, il 29 marzo fu eletto triumviro con Saffi e Armellini, ma può dirsi che unicamente su lui gravasse il governo della repubblica, ch'egli cercò d'informare ai principî della sua dottrina. Formò un comitato di guerra, chiamando a farne parte Carlo Pisacane, e durante l'intervento francese, essendo stata votata ad acclamazione la sua proposta di resistere a ogni costo, fu infaticabile nel fare apprestare i mezzi di difesa. Trattò col Lesseps, inviato a Roma dal governo francese con la missione d'intavolare trattative, in seguito alla sconfitta dell'esercito dell'Oudinot nella giornata del 30 aprile, mentre era evidente l'intenzione del governo francese di guadagnare tempo per mviare nuovi rinforzi, e fu acuto negoziatore, di che il Lesseps gli rese poi pubblica testimonianza. Animatore dell'eroica difesa, caduta Roma uscì dalla città il 12 luglio, solo, poiché quasi tutti i difensori e i membri dell'assemblea costituente erano da più giorni andati in esilio, ma prima protestò contro il voto dell'assemblea di cessare da ogni resistenza, poiché egli avrebbe voluto che essa fosse uscita da Roma e che alcuni rappresentanti insieme con i triumviri e con i ministri avessero portato la "croce di fuoco" nelle provincie.
Dal secondo esilio alla morte (1849-1872). - Prima di uscire da Roma, col concorso di pochi a lui devoti che erano rimasti nella città, il M. fondò la seconda Associazione nazionale italiana, nella quale, per esservi ammessi, occorreva giurare "fede alla Repubblica romana e all'Italia che doveva congiungersi tutta in essa". Da Civitavecchia giunse a Marsiglia e di là a Ginevra, per riprendere il suo apostolato. Trasferitosi a Losanna nell'ottobre, provvide alla pubblicazione dell'Italia del popolo, non più, come quella di Milano e di Roma, in foglio giornaliero, ma a fascicoli quindicinali, e v'inserì la risposta Ai signori Tocqueville e Falloux contro i discorsi da essi pronunziati alla camera francese sulla questione romana, Cenni e documenti intorno all'insurrezione lombarda e alla guerra regia nel 1848, uno scritto sulla Santa Alleanza di popoli, ecc. Nel maggio del 1850 fece una breve e clandestina visita a Parigi per intendersi con i democratici francesi e proseguì per Londra, dove nel luglio successivo fondò il Comitato democratico europeo, firmandone il manifesto insieme con LedruRollin per la Francia, A. Ruge per la Germania e A. Darasz per la Polonia: vasta concezione in quanto il M. si proponeva di affratellare "a seconda della tendenza e della capacità individuale tutti i credenti nella nuova era e nei principî già conquistati", formando un consiglio supremo di "pochi uomini venerabili per dottrina e virtù", e consigli nazionali, con "uomini più intimamente affratellati per comunanza d'origine col pensiero e colle tendenze di ciascun popolo". A tale scopo si mise in relazione epistolare con L. Kossuth, relegato a Kutahia, e con altri rappresentanti delle varie nazionalità europee. Ma il comitato democratico europeo non ebbe quel fervore di opere che il M. si riprometteva, specialmente per gli ostacoli che trovò nei democratici francesi; e la stessa sorte ebbe il Comitato nazionale italiano, che il M. aveva fondato a un tempo con quello europeo, per i dissensi nati con G. Sirtori e con A. Saliceti che ne facevano parte. E per colmo di sciagura, un prestito bandito a nome del comitato stesso, di cui le cartelle furono ampiamente diffuse in Italia, fu la cagione per la quale E. Tazzoli, T. Speri e altri patrioti sostennero il martirio a Belfiore (v.). L' 8 agosto 1852 gli moriva la madre, alla quale, fino dal suo primo esilio, aveva scritto settimanalmente e ininterrottamente e che aveva riveduta a Milano nel 1848. Atroce dolore che parve spingerlo ancora più all'azione. Nel 1852 si era formata a Milano "una fratellanza segreta di popolani, repubblicani di fede e con animo di preparare l'insurrezione e compirla". Quando essa si sentì "forte e vogliosa di fare", cercò contatto col M., offrendo "azione immediata" e chiedendo "istruzioni, direzione, aiuti in armi e danaro". Il M. accettò, poiché era suo fermo convincimento che unica via all'educazione politica del paese fosse l'azione. Inviò danaro, e per essere ardua impresa l'introduzione di armi in Lombardia, poté far penetrare in Milano un certo numero di proiettili di nuova invenzione, e mandò colà un suo fidato, Eugenio Brizi, già valoroso combattente alla difesa di Roma, che avrebbe dovuto capeggiare l'insurrezione. Per cause molteplici il moto, scoppiato a Milano il 6 febbraio 1853, fu spento sul nascere, e il governo austriaco della Lombardia fece numerosi arresti, condannando al capestro sedici popolani. Fu un colpo terribile per il prestigio del M., che si era recato alla frontiera svizzera, pronto ad accorrere in Lombardia, se si fosse rinnovato il miracolo delle Cinque Giornate; e a rendere più dolorosa la disfatta, sorse il dissidio tra il M. e il Kossuth, per un proclama che recava le firme di entrambi, indirizzato ai soldati ungheresi stanziati in Italia per spronarli a fare causa comune con gli insorti, che l'ex governatore dell'Ungheria deplorò fosse divulgato in quei giorni. Altri tentativi rivoluzionarî preparati tra il 1854 e il 1855 dal M., che sciolto il comitato nazionale creò il partito d'azione, e ne dettò le direttive nell'opuscolo Del dovere d'agire, ebbero pure esito infelice. Ma quei conati generosi non furono inutili, se il Cavour poté per essi dimostrare al Congresso di Parigi quanto fossero tristi le condizioni della penisola tra la ferrea dominazione austriaca in Lombardia e nel Veneto, e la tirannide dei varî governi, a eccezione di quello del Piemonte che era rifugio degli esuli di tutte le terre d'Italia. Né valse a renderne meno efficace l'azione morale la polemica a cui diede origine una lettera di D. Manin (che fornì argomento a quattro mirabili articoli inseriti nell'Italia del popolo di Genova) che cioè il M. avesse instaurata la "teoria del pugnale".
Già nel 1852 il M., che l'anno innanzi si era posto in contatto con un comitato rivoluzionario siciliano, aveva vagheggiato una spedizione di volontarî in Sicilia e pensato di affidarne il comando al Garibaldi, ma poi per più motivi, fra i quali era quello dell'indecisione del comitato siciliano, il piano insurrezionale fu sospeso. Tuttavia il M. non ne smise mai il proposito, come appare dal suo epistolario. Nel 1857 accettò la proposta venutagli da un comitato napoletano e di concerto con N. Fabrizi preparò una spedizione sulle coste napoletane, affidandone il comando a C. Pisacane. Si era pure convenuto, nello stesso tempo, che un nucleo di congiurati si sarebbe impadronito a Genova, dove il M. si era furtivamente introdotto, delle armi depositate nei forti del Diamante e dello Sperone, da avviarsi al Pisacane tre giorni prima partito per l'impresa, finita tragicamente a Sapri. Anche il tentativo di Genova fallì, e il M. con altri quattro patrioti fu condannato a morte in contumacia. Era per lui la seconda sentenza capitale dopo quella del tribunale divisionario di guerra di Genova per le cospirazioni del 1833. Alle dure repressioni del governo sardo egli rispose con l'opuscolo intitolato Situazione; e quando cominciò il processo per i fatti di Genova, indirizzò da Londra un'eloquente lettera Ai giudici; infine, avvenuto l'attentato di F. Orsini (14 gennaio 1858), e avendo il conte di Cavour preparato una legge sulla stampa, per colpire a morte l'Italia del popolo, organo mazziniano di Genova, il M. pubblicò la lettera Al conte di Cavour, smentendo sdegnosamente l'accusa (lanciata dal ministro in piena camera, per ottenere l'approvazione alla legge) che il M. o i mazziniani complottassero per attentare alla vita di Vittorio Emanuele II.
Tornato a Londra, iniziò la pubblicazione del periodico Pensiero ed azione (1° settembre 1858), nel quale, durante i negoziati diplomatici tra il Piemonte e Napoleone III, inserì (1° marzo 1859) la dichiarazione firmata da lui e dai suoi compagni di fede, deprecando l'alleanza con l'imperatore francese; ma quando scoppiò la guerra contro l'Austria, spronò i suoi a combattere sotto la bandiera regia. Dopo l'armistizio di Villafranca, che egli aveva previsto, venne in Italia, e a Firenze, dove si tenne nascosto fino a quando il Ricasoli gli fece sapere che era pericolosa colà la sua presenza, si adoperò attivamente per l'unità italiana, esortando il Garibaldi e gli altri generali che in Romagna e nell'Emilia comandavano l'esercito dei volontarî, a invadere da Cattolica l'Umbria e le Marche, penetrare in Abruzzo e nel regno di Napoli, lasciando per allora insoluta la questione romana. Dopo avere scritto la lettera A Vittorio Emanuele, per spronarlo all'impresa dell'unità d'Italia, il M. partì per la Svizzera, e a Lugano, dove rimase fino al dicembre, stampò l'opuscolo Ai giovani d'Italia, che è fra le sue cose migliori. A Londra riprese la pubblicazione di Pensiero ed azione e di là preparò l'invio di Rosolino Pilo, in Sicilia. Cooperò pure a quella dei Mille e alle successive spedizioni in Sicilia, al qual fine l'8 maggio 1860 tornò a Genova, sempre tenendosi nascosto, e persuase il Bertani ad aiutarlo nell'altra spedizione, comandata dal Nicotera e diretta a invadere le Marche e l'Abruzzo, che per opera del Ricasoli, che pure sulle prime l'aveva favorita, fu fermata a Castel Pucci. Nel settembre si recò a Napoli, ma la sua presenza fu avversata dal gabinetto di Torino, sebbene il Garibaldi protestasse energicamente contro le grida di morte a Mazzini udite durante una dimostrazione di piazza.
Oramai "l'esule in patria" aveva perduto quell'ascendente che era stata la sua forza morale negli anni anteriori. Già poco dopo l'eccidio di Sapri, scriveva a E. Hawkes: "Son più debole, tetro che mai; e ciò spiega come la mia mente sia sempre incline a credere che io sia una fonte perenne di male". Fino dal 1853 i suoi amici più fidati e più autorevoli si erano allontanati da lui (Medici, Cosenz, Visconti Venosta, ecc.). Pur tuttavia, continuò nel suo apostolato per l'unità della patria e lo sostenne nell'Unità d'Italia da lui fondata a Genova nell'aprile del 1860 e nel Popolo d'Italia, alla cui pubblicazione cooperò a Napoli nell'ottobre successivo. Affranto da stifferenze fisiche, nel dicembre, per la via dell'Abruzzo tornò a Lugano, dove infermò gravemente, e di là a Londra. Fu contrario alle imprese del Garibaldi, del 1862 del 1867, che si conchiusero tragicamente ad Aspromonte e Mentana, e ciò fu cagione che si acuisse sempre più il dissidio tra lui e l'eroe nizzardo. Nel 1863 preparò un tentativo insurrezionale nel Friuli; oramai il suo grido disperato era per Venezia e per Roma, e per la redenzione della prima corsero trattative fra lui e Vittorio Emanuele, che però non approdarono ad alcun'intesa, e d'allora in poi si dichiarò apertamente repubblicano e contrario alla monarchia, specialmente quando fu conclusa la Convenzione di settembre (1864). Visse gli ultimi anni di vita tra Londra e Lugano, con brevi e furtive dimore a Genova e a Milano; e dopo la guerra del 1866 contro l'Austria, protestando per la pace che dichiarò umiliante per l'Italia, fondò l'Alleanza repubblicana (i° settembre 1866) e si adoperò in tentativi rivoluzionarî facilmente repressi, l'ultimo dei quali (primavera del 1870) lo decise a recarsi in Sicilia e di là proseguire su Roma. Il 10 agosto partì da Genova e giunse senza incidenti a Napoli, e ivi s'imbarcò per Palermo; ma una spia, certo Wolff, che gli si dimostrava devoto fino dal 1860, aveva informato il governo italiano d'ogni mossa mazziniana, e al momento di scendere a terra il M. fu arrestato, condotto a bordo della nave da guerra Ettore Fieramosca e internato nel forte di Gaeta. Colà apprese che Roma era stata congiunta al regno d'Italia e se ne dolse, perché l'impresa era stata compiuta dalla monarchia. Liberato per effetto dell'amnistia, giunto a Roma pernottò in stazione, non volendo penetrare nella "città dei suoi sogni"; quindi proseguì per Genova, dove visitò la tomba della madre, poi per Lugano e per Londra, disperando oramai di qualsiasi azione politica. Il 9 febbraio 1871 fondò la Roma del popolo, in cui svolse opera educativa e di associazione degli operai; e vi collaborò assiduamente, polemizzando con l'Internazionale. L'ultimo suo articolo fu una confutazione del libro del Renan, La réforme intellectuelle et morale. Tornato a Lugano, nel febbraio del 1872 pensò di trasferirsi a Genova per finirvi i suoi giorni in quiete, ma poi decise di accettare l'ospitalità di Giannetta Nathan Rosselli e proseguì per Pisa, dove terminò la sua esistenza celato col nome di dottor Brown. La sua salma fu trasportata a Genova e tumulata a Staglieno, presso la tomba della madre.
L'azione di Giuseppe Mazzini in Italia e fuori d'Italia, così com'è attestata soprattutto dal suo ricchissimo epistolario, su uomini e donne, giovani e uomini fatti, operai e scrittori, cospiratori e uomini di stato, individui e masse, il grande fascino della sua personalità, la sua stessa vita vissuta tutta con indomabile tenacia per il culto e per l'attuazione delle sue idee, a costo di ogni sacrifizio non pure dei comodi della vita, ma degli affetti più cari e più elevati, e quasi consumata nella fiamma d'una fede inestinguibile, non si spiegherebbero senza una grande forza morale fatta di volontà e di pensiero ebbe tempra religiosa, e a quanti a lui s'appressarono comunicò certo ardore mistico e quindi un bisogno irresistibile di credere e di operare secondo i suoi principî Apostolo, come ha finito con l'essere denominato universalmente: apostolo dell'unità italiana, e apostolo di tutto un insieme di principî, che a questo ideale politico concreto e particolare diedero carattere di un articolo di fede in una vita moralmente e religiosamente necessaria. E i principî ai quali egli nella sua instancabile attività educativa e politica insistentemente si appellava, erano per lui un sistema, che egli, com'è proprio di tutti gli apostoli, uomini d'azione più che pensatori, non espose mai in un corpo ragionato di dottrine, ma fu l'anima, la coerenza, la chiarezza e idealità costante di tutta la sua vita, in tutto quello che fece o che scrisse. La sua azione politica fu animata da una concezione etico-religiosa della vita, e mirò principalmente allo sviluppo e alla diffusione di questa concezione, quasi per gettare le basi di quel rinnovamento interiore in cui consisteva per lui il valore essenziale dell'auspicato rinnovamento politico della sua nazione. Quindi la grandissima prevalenza, nell'opera sua, dell'elemento educativo su quello più propriamente politico; e la molto maggiore importanza dell'azione da lui esercitata nel primo periodo del risorgimento italiano, fino al'48 e al'49, quando si preparavano gli animi e sorgeva e s'imponeva come inevitabile il problema dell'unità italiana, che in quello successivo, quando il problema fu risolu̇to e l'unità italiana costruita. La sua azione culmina nella difesa e nella caduta della Repubblica Romana: prova estrema di quella Giovine Italia, tutta fede e spirito di sacrificio, che egli educò a credere nell'Italia e a vivere e morire per lei. Dopo cominciarono quelli che a lui parvero apostasie e abbandoni, poiché la fede che egli aveva creata cominciò a misurarsi con la realtà italiana e internazionale e a cercare la via, attraverso i limiti che ogni idea riceve nella pratica, della realizzazione. E il suo prestigio politico, via via che egli vide questa Italia, che aveva vagheggiata e preconizzata, nascere e costituirsi alquanto diversa dall'idea che egli se n'era formata, scemò e decadde. E i metodi prevalsi gli parvero la negazione dei principî che erano stati il contenuto della fede sua e della nuova Italia. L'opera sua si era esaurita nel periodo della preparazione degli animi, quando la sua martellante cospirazione aveva piantato nel petto degl'Italiani la persuasione che l'Italia doveva essere, e nella testa dell'Europa il pensiero che di questa persuasione e proposito degl'Italiani non fosse ormai più possibile non tenere conto.
La sua dottrina è fondata sopra un'intuizione profondamente spiritualistica della vita; in cui egli vede operare unicamente forze spirituali. Lo spirito domina e fonde nella sua unità quello che materialmente apparisce frammentario, diviso, molteplice. Così gli individui particolari non hanno valore se non in quanto ritrovano in sé stessi, nella loro coscienza, una comune natura, che è la fonte della loro vita morale, governata da interessi comuni: interessì della società di cui essi sono parte: famiglia, nazione, umanità. Ogni individualismo così in morale come in politica è materialismo pervertitore e assurdo. La vita dello spirito unisce e non divide; affratella e stringe insieme gl'individui in una realtà superiore, che trascendendo la loro particolarità attua quello che c'è in ognuno di sostanziale e profondo, e che, sottraendosi alle differenze contingenti del singolo, spazia nell'infinito e nell'eterno. L' anima è immortale, e perciò non si chiude nel ristretto ambito dell'esistenza terrena. E per essa l'individuo ritrova sé stesso nel popolo o comunità universale, a cui appartiene, che a differenza dell'individuo è infatti immortale, e sopravvive ed è sempre lì a proseguire ogni opera interrotta, a correggere ogni errore, a rimuovere ogni ostacolo che i singoli incontrano sulla via della rivelazione progressiva della verità e del bene, in cui consiste la vita dello spirito.
Quest'anima o pensiero del popolo è la stessa manifestazione di Dio. Dio e popolo è uno dei motti, in cui M. condensava il suo credo; e significa appunto questa coincidenza del pensiero e della volontà di Dio col pensiero e con la volontà umana in quanto questi si svincolino dalle limitazioni materialistiche delle forme particolari dell'esistenza. L'uomo infatti non è naturalmente libero da queste limitazioni. La vita è missione, dovere. L'uomo che si ritrova nel suo popolo, e infine nell'universale fratellanza umana, non giunge a ritrovarvisi se non quando lotta con le tendenze naturali, che lo porterebbero a rinchiudersi egoisticamente nel suo essere particolare. Egli deve lottare con sé stesso e vincere. Vincere anche sacrificando la sua vita materiale; poiché spiritualmente è immortale e morendo perciò riesce talvolta ad attuare la sua vera essenza e raggiungere il suo fine che è il fine del suo popolo.
La vita è missione in quanto conquista della libertà. Libertà dell'individuo nella libertà del popolo. Ma è nazione, poiché i popoli sono diversi per lingua, credenze, costumi e sono tutti per diverse vie convergenti collaboratori dell'unica opera della storia, in cui Dio e popolo attuano il regno dello spirito. Ma queste differenze dell'unità umana, dalla quale traggono origine le varie nazioni, sono, come determinate forme della realtà del popolo, un prodotto della libera vita dello spirito, come tutto ciò che s'appartiene alla storia del popolo. Le razze, per M., non avrebbero nessun valore per la costituzione della nazionalità, se non intervenisse la coscienza e la volontà degli uomini. Il principio della nazionalità, come forma morale dell'esistenza del popolo, non è nella natura, ma nello spirito. Anche la nazione non è un fatto, ma una missione. È un ideale prima di essere qualche cosa di reale; né alla realtà può pervenire senza il proposito di metterla in atto, senza il bisogno che gli uomini ne sentono. Contro la vecchia dottrina passiva del giusnaturalismo, la libertà d'un popolo, che è lo stesso che la libertà del cittadino, per M. è più che un diritto, un dovere. La libertà non si conquista se non se ne senta il pregio come quello dell'esistenza stessa che sola sia degna dell'uomo. Il quale non può sentire in astratto il valore della libertà.
L'altro motto della Giovane Italia è: Pensiero e azione; che vuol dire che allora il pensiero è pensiero quando è azione: quando non rimane nell'intelligenza astratta teoria, di cui nel fatto l'uomo non dimostra di essere effettivamente persuaso, poiché agisce come se pensasse il contrario; ma è quel pensiero che l'uomo manifesta con le sue parole e con le sue azioni. Affermare pertanto il valore assoluto della libertà è quindi vivere per la conquista di essa, combattere e anche morire per essa.
Combattere, non restare a vagheggiare esteticamente l'ideale. Insorgere, in un regime di oppressione. Nell'insurrezione, affrontando la prigione e il patibolo, l'uomo si educa ad apprezzare, e perciò a conoscere seriamente la libertà. Non importa se un'insurrezione venga soffocata nel sangue. La fucilazione dei fratelli Bandiera è una vittoria: perché gl'Italiani in quest'episodio hanno dimostrato che la libertà vale più della vita materiale; e l'esempio ha insegnato come effettivamente questa vita non abbia valore, ove non riesca a sublimarsi nella schietta vita superiore dello spirito: che è vita di popolo nella libertà.
Questo ideale si raffigurava alla mente del M. come repubblica. Ma, quando un Carlo Alberto, un Vittorio Emanuele facevano lampeggiare al suo spirito la possibilità dell'indipendenza e unità italiana conquistate dall'esercito della monarchia, oltre che dal vigore incoercibile delle aspirazioni popolari, la questione formale passava in seconda linea. Il suo se no, no significava che l'essenziale non era neanche per lui nella forma estrinseca del regime politico, ma nell'esistenza del popolo, nella sua individualità e autonomia, in cui l'Italiano potesse trovare sé stesso e vivere la sua vita come missione nella libertà. In questa concezione energicamente spiritualistica della vita è il segreto di Mazzini. Nessuno forse degli scrittori del suo secolo sentì così potentemente l'essenza spirituale dell'uomo e del mondo in cui l'uomo vive.
Una prima raccolta dei suoi scritti letterarî fu quella preparata a Lugano nel 1847 (Scritti letterari di un Italiano vivente), in 3 voll.; gli scritti politici furono per la prima volta riuniti nel 1848 (Prose politiche di G. M. precedute da una prefazione di M. Consigli) ed editi a Livorno (2ª ediz. ampliata, Genova-Firenze 1849). Nel 1861 accettò la proposta dell'editore G. Daelli e preparò egli stesso un'edizione dei suoi scritti politici e letterarî (Scritti editi ed inediti, Milano 1861-71), che poté curare fino all'ottavo volume. Alla sua morte una speciale commissione continuò l'edizione, giungendo al ventesimo volume, compresi due volumi di epistolario (Roma-Firenze-Forlì 1877 segg.). Per il centenario della nascita fu dal parlamento decretata un'edizione nazionale, affidata a speciale commissione, e finora se ne sono pubblicati sessantasei volumi, divisi nelle tre serie, Politica, Letteratura, Epistolario (Imola 1906-1933). Si ritiene che l'opera sarà completa in novanta volumi. (Cfr. A. Grilli, Ed. naz. Indici e ritratti, Imola 1922). Le lettere del M. ora sono riunite nell'edizione nazionale. Sono qui da citare le raccolte di D. Giuriati (Torino 1887), di G. Mazzatinti (Roma 1905), di A. Giannelli (Prato 1888-90) di T. Palamenghi-Crispi (Milano 1911), di E. F. Richards (Londra 1922-23 in 3 voll.), di G. Valeggia (Firenze 1913).
Bibl.: Vastissima è la bibliogr. mazziniana; per quella degli scritti v. G. Canestrelli, Bibliografia degli scritti di G. M., Roma 1892; e per quella sul M.: A. Lodolini, Bibliografia mazziniana, Roma 1922 (2ª ed., Milano 1932); un'altra è in corso di pubbl. in Giorn. stor. d. Liguria a cura di A. Codignola, Genova 1926 segg. Per la parte biogr.: H. Castille, M., Parigi 1859; E. Montazio, G. M., Torino 1862; F. Venosta, G. M. Cenni biografici, Milano 1872; E. Ashurst Venturi, Biographie de M., Parigi 1881; J. W. Mario, Della vita di G. M., Milano 1886 (2ª ed., ivi 1896 e 3ª, ivi 1908); A. F. Schack, J. M. u. die ital. Einheit, Stoccarda 1891; B. King, M., Londra 1902 (trad. ital., nuova ediz., Firenze 1922); A. Saffi, G. M., Firenze 1904; F. Donaver, Vita di G. M., Firenze 1903; G. Salvemini, M., Catania 1915; G. Bertacchi, M., Milano 1922; P. Bianchi, M., la vita, le opere, ivi 1922; A. Levi, G. M., ivi 1922; G. Landogna, G. M., Livorno 1925; A. Errera, Vita di G. M., Milano 1932. Sull'opera letteraria e sulla filosofia: E. Nencioni, Gli scritti letterari di G. M., Roma 1884; F. Martini, G. M. e l'edizione delle opere di U. Foscolo, in Nuova Antologia, 1890; G. U. Oxilia, G. M. uomo e letterato, Firenze 1902; T. Gallarati Scotti, G. M. e il suo idealismo politico e religioso, Milano 1904; F. Masci, Il pensiero filosofico di G. M., Napoli 1905; G. Salvemini, Il pensiero religioso-politico-sociale di G. M., Messina 1905; U. Della Seta, G. M. pensatore, Roma 1910; A. Levi, La filosofia politica di G. M., Bologna 1917 (2ª ediz., ivi 1922); F. L. Mannucci, G. M. e la prima fase del suo pensiero letterario, Milano 1919; F. Landogna, G. M. e il pensiero giansenistico, Bologna 1921; G. Gentile, I profeti del Risorgimento, Firenze 1923. Studî parziali: G. Rossini, Dell'ultima malattia di G. M. avvenuta in Pisa nel marzo 1872, Pisa 1872; G. Silingardi, G. M. e i moti delle Romagne nel 1843, Modena 1889; F. Donaver, Il sentimento religioso in G. M., in Rass. Naz., ottobre 1890; D. Diamilla-Müller, Politica segreta italiana (1863-1871), Roma-Torino 1897; C. Tivaroni, M. e Parenzo nella cospirazione veneta 1853, Roma 1898; T. Gruber, G. M. Massoneria e Rivoluzione, vers. ital. di E. Polidori, Roma 1901; E. Del Cerro, Amò G. M.?, ivi 1902; L. Rosenberg, M. the Prophet of the Religion of Humanity, Chicago 1903; G. Astegiano, G. M. prigioniero a bordo d'una nave italiana, Padova 1905; A. Giannelli, Aneddoti ignorati ed importanti. Brevi ricordi mazziniani dal 1848 al 1872, Firenze 1905; G. Sforza, Il M. in Toscana nel 1849, Torino s.a.; A. Luzio, G.M., Milano 1905; D. Melegari, La Giovine Italia e la Giovine Europa nel carteggio inedito di G. M., Milano 1906; G. Salvemini, G. M. dall'aprile 1846 all'aprile 1848, Pavia 1907; E. Del Cerro, G. M. e G. Sidoli, Torino 1909; A. Neri, Il padre di G. M., in Rivista Ligure, 1910; E. Michel, G. M. a Firenze e a Napoli dal luglio al settembre 1860, Roma 1911; G. Salvemini, Ricerche e documenti sulla giovinezza di G. M. e dei fratelli Ruffini, in Studi storici, Pavia 1911; G. Fassio, M. a Gaeta, Poggio Mirteto 1912; H. Harring, Mémoires sur la Jeune Italie, Parigi 1835 (ristampata da M. Menghini, Roma 1913); E. Solmi, M. e Gioberti, Roma 1913; M. Menghini, M. e Mad. d'Agoult, Imola 1915; A. Galimberti, G. M. nel pensiero inglese, Roma 1919; E. Roggero, La giovinezza morale di M., Bologna 1920; A. Luzio, G. M. carbonaro, Torino 1920; I. Raulich, M. e la trama del Gallenga, in Nuova Antologia, 1920; A. Codignola, Nuovi documenti sulla giovinezza di G. M., in Rivista d'Italia, 1920; F. Momigliano, Scintille del roveto di Staglieno, Firenze 1920; M. Menghini, L. Kossuth nel suo carteggio con G. M., in Rass. d. Risorg. ital., 1921; id., G. M. sulla via del Triumvirato, in Nuova Antologia, LXI (1921); A. Luzio, Carlo Alberto e M., Torino 1923; id., Nuove ricerche mazziniane, in Memorie Acc. d. scienze di Torino, s. II, LXVI (1926), pp. 1-67; A. Lewak, G. M. e l'emigrazione polacca, in Il Risorg. ital., 1925; G. K. Roberts, G. M. e l'omicidio di Rhodez, in Nuova Antologia, LXI (1926); A. Codignola, La giovinezza di G. M., Firenze 1926; N. Rosselli, M. e Bakounine, Torino 1927; A. Salucci, Amori mazziniani, Firenze 1928; H. N. Gay, M. e A. Gallenga, in Nuova Antologia, LXIII (1928); C. Vidal, M. et les tentatives révolutionnaires de la Jeune Italie dans les États Sardes, Parigi 1928; G. E. Curàtulo, Il dissidio tra M. e Garibaldi, Milano 1928; E. Kastner, M. e Kossuth, Firenze 1929; L. Pollini, M. e la rivolta milanese del 6 febbraio 1853, Milano 1930. Scrissero contro M.: il G. Bianchi-Giovini, M. e le sue utopie, Torino 1849; J. De Bréval, M. jugé par lui-même et par les amis, Parigi 1853 (trad. ital., Venezia 1853); N. Bianchi, Vicende del Mazzinianismo, Savona 1854; P. De Nardi, G. M., la vita, gli scritti e le dottrine, Milano 1872.