Mazzini, Giuseppe
Nacque a Genova il 22 giugno 1805 da Giacomo, medico, e Maria Drago, di formazione giansenista. Studiò giurisprudenza, segnalandosi soprattutto per la ribellione ai regolamenti accademici. Nel 1821, assistendo al passaggio dei federati piemontesi reduci dal tentativo di rivolta, gli si affacciò per la prima volta il pensiero «che si poteva e quindi si doveva lottare per la libertà della Patria» (Scritti editi ed inediti, Edizione nazionale degli scritti di Giuseppe Mazzini [d’ora in avanti EN], 77° vol., 1938, p. 6). Avviata la carriera giuridica, s’impegnò nel giornalismo collaborando con l’«Indicatore genovese», presso cui pubblicò recensioni di libri patriottici fino a che la censura non soppresse il giornale. Nel 1827 entrò nella Carboneria; nello stesso anno fu arrestato per attività cospirative e detenuto nella Fortezza del Priamar (Savona) tra il 1830 e il 1831. In questo periodo formulò il programma del nuovo movimento politico Giovine Italia, che presentò nel 1831, già in esilio a Marsiglia (dove conobbe la nobildonna Giuditta Bellerio Sidoli, sua futura compagna). Scopo del movimento era l’unione degli Stati italiani in un’unica repubblica, ossia «la forma naturale della Democrazia» (EN, 38° vol., 1923, pp. 6, 10). Il programma elaborato da Mazzini ispirò quello di movimenti politici finalizzati alla liberazione e all’unificazione di altri Stati europei, come la Giovine Germania, la Giovine Polonia e, infine, la Giovine Europa (1834), in cui si teorizzava la costituzione degli Stati uniti d’Europa. Nel 1833 fu condannato a «morte ignominiosa» dal Consiglio divisionario di guerra, e trovò per qualche tempo rifugio a Grenchen (Svizzera), a Londra e ancora in Svizzera, a Lugano.
Dopo il fallimento dei moti del 1848 e della breve, ma intensa esperienza della Repubblica romana con Aurelio Saffi e Carlo Armellini, Mazzini si allontanò dai nazionalisti italiani, che cominciavano a vedere nel re di Sardegna e nel suo primo ministro Camillo Benso conte di Cavour le guide del movimento di riunificazione, la cui natura politica si discostava dagli ideali di repubblica mazziniana. Sempre in esilio scrisse la sua opera principale, Doveri dell’uomo (1860), «il catechismo di un’Italia laica che cercava nella predicazione della solidarietà sociale e nell’apologia della dimensione spirituale della vita una religione diversa da tutte quelle rivelate, capace di tenere la parte più viva del Paese lontana dalle tentazioni del materialismo» (Monsagrati 2008, p. 598). Eletto deputato al Parlamento di Firenze per ben tre volte, rifiutò la carica per non dover giurare fedeltà allo Statuto albertino. Nel 1870 le due condanne a morte che pesavano sul suo capo furono amnistiate, ma al suo rientro in Italia, a Palermo, fu tratto in arresto per la quarta volta e incarcerato a Gaeta. Amnistiato, si trasferì a Londra, poi a Lugano. Rientrò sotto falso nome, a Pisa, il 6 febbraio 1872, ove visse presso la casa di Pellegrino Rosselli le poche settimane che lo separavano dalla morte (10 marzo).
L’interesse per M. accompagnò Mazzini per tutto l’arco della sua vita, secondo temi e direttrici interpretative che tornano costanti dai primi scritti in esilio fino alle opere della maturità. L’unico suo scritto espressamente dedicato a M. non è certamente quello più originale: pubblicato nel 1843 sul «Courier de l’Europe» (EN, 29° vol., 1919, pp. 51-56), l’articolo «s’inserisce nel filone della interpretazione democratica del Principe» (Innocenti 2012, p. 75), con la ormai classica lettura ‘obliqua’ dell’opuscolo machiavelliano e la denuncia della sua persecuzione sistematica frutto degli intrighi «di sagrestia cattolica» (Scaglia 1990, p. 286). Nell’interpretazione di M. questi temi diventano però accessori rispetto all’accordo portante, originalmente mazziniano, che fa la sua comparsa nella prima versione di uno scritto del 1833, Dell’unità italiana, rivisto e pubblicato più volte da Mazzini:
io venero quant’altri l’alto intelletto di Machiavelli e più ch’altri forse l’immenso amore all’Italia che solo scaldava di vita quella grande anima stanca, addolorata di sé stessa e d’altrui; ma voler cercare, nelle pagine ch’egli dettò sulla bara dove padroni stranieri e papi fornicanti con essi e principi vassalli bastardi di papi o di re avevano inchiodato l’Italia, la legge di vita d’un popolo che risorge è mal vezzo di scimmie e di meschini copisti per impotenza propria [...]. Noi da Machiavelli possiamo imparare a conoscere i tristi, e quali siano le loro arti e come si sventino e per quali vie, corrotti e inserviliti, muoiano i popoli; non come si ribattezzino a nuova vita (EN, 3° vol., 1907, p. 319).
L’immagine di un M. sconsolato storico e giudice di un’età di decadenza, notomizzatore del cadavere della seconda Italia, abusato dai costruttori della terza, ricorre quasi ossessivamente negli scritti di Mazzini. La ritroviamo ampiamente nell’opuscolo Ai giovani del 1848:
Machiavelli, che i falsi profeti di libertà imitano da lungi e profanandone la sapienza, veniva a tempi nei quali Chiesa, principato e stranieri avevano spento un’epoca di vita italiana, e dopo aver tentato gli estremi pericoli per la patria e subìto prigione e tormenti per vedere se pur fosse modo di trarne scintilla d’azione, procedeva, Dio solo sa con quali fraintesi inconfortati dolori, all’autopsia del cadavere, a segnarne le piaghe, a numerare i vermi principeschi, cortigianeschi, preteschi che vi si agitavano dentro, e offeriva quello spettacolo ai posteri migliori [...]. E noi siamo all’alba d’un’epoca, commossi dall’alito della vita novella; e che mai potremo attingere dalle pagine di Machiavelli se non la conoscenza delle tattiche de’ malvagi a sfuggirle e deluderle? (EN, 38° vol., cit., p. 264).
In Condizione e avvenire dell’Europa (1852), fa dire allo stesso M.: «Io aveva innanzi la sepoltura; voi, stolti, la culla di un popolo» (EN, 8° vol., 1910, p. 186), e, con parole se possibile ancor più vivide, in La situazione (1857):
[...] l’Italia incadaveriva. Machiavelli, dopo avere per debito di coscienza protestato egli pure colla congiura, si mise a contemplare, a palpare, ad anatomizzare quel cadavere. Era il cadavere della Madre; e tu senti di tempo in tempo la mano, che teneva il coltello, agitata da un brivido, e vedi la fiamma dei santi devoti pensieri salire su per le scarne smorte guance dell’anatomista; ma quella fiamma, come i fuochi dei cimiteri, non illuminava dei suoi getti che livide sembianze di morte. E scienza di morte fu la scienza di Machiavelli (EN, 59° vol., 1931, pp. 123-24).
L’immagine ricorre ancora nella lettera a Vittorio Emanuele (1859), in cui Mazzini mette in guardia il re contro «gli ingegni mediocri che vi furono o sono ministri e che studiano il segreto della terza vita della Nazione nelle pagine scritte da Machiavelli sul cadavere di lei» (EN, 64° vol., 1933, p. 138); in quella Ai giovani d’Italia (1859), in cui definisce M. «un nostro Grande frainteso che dopo aver patito tortura per la libertà della Patria, l’avea veduta morire e assiso sul suo cadavere s’era fatto storico delle cagioni della sua morte» (EN, 64° vol., cit., p. 173); in quella Ai ministri e faccendieri (1860) che Mazzini accusa di tenere accesa presso la culla dell’Italia «la fiaccola colla quale Machiavelli ne illuminava, disperato, la sepoltura» (EN, 66° vol., 1933, p. 214); nel Programma del “Popolo d’Italia” (1860), in cui stigmatizza «la teoria dissolvitrice che la vista del cadavere dell’Italia ispirava a M., fatta battesimo sulla culla di un popolo che sorge a nazione» (EN, 66° vol., cit., p. 262); nello scritto L’Italia e l’Europa (1860), in cui definisce Cavour: «pallido fantasma di Machiavelli, debole ricordo di una scienza della morte» incapace di «inaugurare la culla di un’epoca» (EN, 66° vol., cit., p. 341); nelle Note autobiografiche (1861-1866), dove dichiara: «ciò ch’altri chiamava teorica di Machiavelli non era per me che Storia e storia d’un periodo di corruttela e decadimento» (EN, 77° vol., cit., p. 50); e infine nel Manifesto all’alleanza repubblicana (1866): «tutta la scienza di Machiavelli non fu se non la lampada funebre che illuminò la tomba della seconda vita d’Italia» (EN, 86° vol., 1940, p. 37).
Se per Mazzini è questo il vero volto di M., la sua scienza politica è inutilizzabile dai rivoluzionari e dagli idealisti; come scrive chiaramente in una lettera a Luigi Amedeo Melegari (1833): «venero Machiavelli principalmente come un gran simbolo del suo periodo: certo non credo debba essere maestro ai rivoluzionari del secolo XIX» (EN, 5° vol., 1909, p. 259). Ma quella scienza medesima, maliziosamente o stupidamente fraintesa, diviene, agli occhi di Mazzini, misero atteggiamento di vita o mortale strumento di lotta politica, trasformando M. in un’ombra che offusca «il cielo delle sue grandi e generose idealità» (Fiumara 1969, p. 19); una scienza contro cui (cioè, contro coloro che la adoperano, reazionari o moderati che siano) Mazzini lancia fiere invettive fin dal 1833, quando, nello scritto Dell’unità italiana, critica i materialisti che «s’arrestano a Machiavelli in politica» (EN, 3° vol., cit., p. 273) e si riconoscono da «un certo fare che piaggia, non emula Machiavelli» (p. 274). Ma già nel 1832 un celebre detto machiavelliano tratto dai Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio I xxvi 5, citato a memoria («Ma gli uomini pigliano certe vie del mezzo che sono dannosissime; perché non sanno essere né tutti buoni né tutti cattivi»), è posto come esergo allo scritto D’alcune cause che impedirono finora lo sviluppo della libertà in Italia (EN, 2° vol., 1907, p. 47) in chiara funzione antimoderata.
Mazzini è sempre attento a «distinguere fra Machiavelli e il machiavellismo» (Viroli 2005, pp. 277-78), definito, nella dedica «Agli operai italiani» che apre il celebre scritto Dei doveri dell’uomo (iniziato nel 1841 e completato fra il 1859 e il 1860), una delle «due piaghe» (l’altra è il materialismo) «che contaminano le classi più agiate e minacciano di sviare il progresso italiano» (EN, 69° vol., 1935, p. 5). In uno dei suoi ultimi scritti, La questione sociale (1871), troviamo addirittura unificate le «due piaghe» nell’immagine di «un machiavellismo, ch’è la pratica del materialismo, sceso dall’anima, potente di desideri ma disperata di meglio, del povero Machiavelli e peggiorato dai fiacchi arrendevoli successori» (EN, 93° vol., 1941, p. 160).
La distinzione tra M. e il machiavellismo, fondamentale per Mazzini, fa assumere un senso tutto particolare alla polemica contro le «scimmie» o i «copisti» di M., che innerva l’intera sua opera. Già nel 1834, nello scritto Dell’iniziativa rivoluzionaria in Europa, scrive:
quest’ultimo terzo di secolo ha veduto cose che i nostri figli dureranno fatica a credere: gente ammazzata [...] cospirazioni e sommosse accarezzate dalle autorità governative perché potessero escirne carneficine; il cannone alternato col palco; poi, sui cadaveri delle vittime, i commenti dei seguaci di Machiavelli (EN, 4° vol., 1908, p. 157).
In Moto letterario in Italia (1837) critica la Storia d’Italia di Carlo Botta, che assume a modello Guicciardini e M. «e guida a sconforto, scetticismo, misantropia» (EN, 8° vol., cit., p. 378); in una lettera a George Sand (1848) accusa le «classi superiori» intrise di «savoir faire senza fede», di imitare M. giocando all’uomo di Stato, e quando dicono parole come artista o poeta «credono di aver pronunciato una condanna» (EN, 37° vol., 1923, p. 45); sullo stesso tono un articolo su «L’Italia del popolo» del 27 giugno 1848, dove se la prende con i cosiddetti «uomini positivi», «dall’aspirantuccio in diplomazia all’estensore di articoli che ha letto due pagine di Machiavelli» che «pronunziano, sogghignando, i vocaboli di sognatori, settatori d’astrattezze, utopisti» (EN, 38° vol., cit., p. 102); nell’opuscolo Ai giovani del 1848 scrive: «fra tutte le pesti della misera Italia la più funesta e la più vergognosa è questa degli intelletti dalle vie oblique, dei machiavellucci d’anticamera e di consulte, degli uomini di Stato in trentaduesimo» (EN, 38° vol., cit., p. 265); in una lettera a Luigi Napoleone (1850), gli contesta l’illusione di «essere quel ch’oggi chiamano uomo di stato», ma quel nome, aggiunge, «andò digradando da Machiavelli storico e giudice, fino a Talleyrand, copista meschino e briccone» (EN, 43° vol., 1926, p. 333); in un’altra lettera ad Adeodato Franceschi (1854) definisce Cesare Correnti «Machiavelli in trentaduesimo» (EN, 52° vol., 1929, p. 154); e in una a Giorgio Pallavicino (1856) incita a rompere il cerchio «di menzogne, di piccoli calcoli, di espedienti immorali o fallaci che le piccole menti, i politici della giornata e le scimmie di Machiavelli v’hanno steso attorno» (EN, 55° vol., 1929, p. 314). Nello scritto La situazione (1857) l’uso emblematico di M. intende colpire l’alleanza con la Francia e il suo più convinto sostenitore, Cavour, magnificato dai suoi ammiratori, che «ronzano all’orecchio dei gonzi: gli è un Farinata foderato di Machiavelli» (EN, 59° vol., cit., p. 87); più avanti l’argomentazione si distende:
La sua [di M.] è la dottrina della forza. Era la sola suggerita dalle condizioni d’Italia e d’Europa; e la potenza d’intelletto e l’orgoglio italiano, che fremevano nell’anima del pensatore, ne trassero, come farmaco dal veleno, quanto bene poteva trarsene. Ma i poveri ingegni, che recitano, scimmiottando, la parte di pratici, rubando citazioni e frammenti d’idee a Machiavelli e rimpicciolendo la sua teoria della forza all’adorazione idolatra di forze non nostre, non disponibili, e alle quali ogni iniziativa è contesa; gli uomini che, appoggiandosi a Machiavelli irridono all’entusiasmo e all’audacia della virtù, e pretendono rigenerare un popolo colla menzogna, e fondare la libertà d’Italia sull’egoismo d’un principe, sull’interesse momentaneo di governi essenzialmente nemici [...] non intendono né Machiavelli né i loro contemporanei, e non sono, pur millantandosi pensatori, che i pedanti della politica (EN, 59° vol., cit., pp. 123-24).
In una lettera indirizzata direttamente a lui, nel giugno 1858, Mazzini rimprovera a Cavour di circondarsi di uomini che «citano Machiavelli a provare che la politica non conosce principii, ma solamente calcoli d’utile a tempo, e che son buone l’alleanze coi tristi perché potenti» (EN, 59° vol., cit., p. 304); e nell’articolo Passato presente e avvenire possibile, pubblicato nel dicembre 1859 su «Pensiero e azione», torna sull’argomento ricordando agli «allievi bastardi di Machiavelli [...] le linee, che paiono scritte per questi giorni, del Principe», e che cosa accade «ogniqualvolta un piccolo stato mendica l’alleanza d’uno stato potente» (EN, 64° vol., cit., p. 227). Dopo Villafranca definisce Cavour «Machiavelli di seconda mano» (EN, 66° vol., cit., p. 19) e poco più in là, nel saggio Garibaldi e Cavour, «scettico, senza fede, senza teoria, senza scienza fuorché quella, desunta da Machiavelli» (EN, 66° vol., cit., p. 138).
Nelle pagine più tarde la polemica, pur non attenuandosi, assume un tono meno veemente e più sconsolato. Nelle Note autobiografiche (1861-1866) i moderati sono «anime fiacche, arrendevoli, tentennanti tra Machiavelli e Loiola, mute a ogni vasto concetto, vuote d’ogni profonda dottrina, aborrenti dalla via diritta, impastate di ripieghi, di transazioni, di finzioni, d’ipocrisia» (EN, 77° vol., cit., p. 287); nel già ricordato Manifesto all’alleanza repubblicana (1866), si immagina un M. fremente «d’ira generosa», alla vista dei «pigmei ch’oggi s’affaccendano a ricopiarlo» (EN, 86° vol., cit., p. 37); e ancor più nella lettera a Giannetta Rosselli (1870): «e l’Italia, la mia Italia, l’Italia com’io l’ho predicata? L’Italia dei miei sogni? L’Italia, la grande, la bella, la morale Italia dell’anima mia? Questo misto di opportunisti, di codardi, di piccoli Machiavelli?» (EN, 90° vol., 1940, p. 49).
Bibliografia: Scritti editi ed inediti, Edizione nazionale delle opere di Giuseppe Mazzini, 106 voll., Imola 1906-1943; è seguita poi una nuova serie in 11 voll. sempre pubblicati a Imola: Indici, a cura di G. Macchia, 3 voll. in 4 tt., 1961-1974; Zibaldone giovanile, a cura di A. Codignola, 4 voll., 1965-1990; Lettere a Mazzini di familiari ed amici, a cura di S. Gallo, E. Melossi, 2 voll., 1986; Zibaldone Mazzini e Foscolo, a cura di A. Scotti, 1998.
Per gli studi critici si vedano: F. Fiumara, Mazzini e la legge del progresso negli scritti su Machiavelli, Carlyle, Renan, Napoli 1969; G.B. Scaglia, Machiavelli: passione e rischio della politica, Roma 1990; M. Viroli, Il Dio di Machiavelli e il problema morale dell’Italia, Roma-Bari 2005; M. Wight, Four seminal thinkers in international theory: Machiavelli, Grotius, Kant and Mazzini, Oxford 2005; Machiavelli nel XIX e XX secolo, Giornate di studio, Lione 3-4 giugno 2003, Parigi 5-7 giugno 2004, a cura di P. Carta, X. Tabet, Padova 2007; G. Monsagrati, Mazzini Giuseppe, in Dizionario biografico degli Italiani, Istituto della Enciclopedia Italiana, 72° vol., Roma 2008, ad vocem; P. Innocenti, “A rifare l’Italia, bisogna disfare le sette”: a proposito di una (celebre) criptocitazione da Machiavelli, in Foscolo. Questioni di bibliografia machiavelliana, «Culture del testo e del documento», 2012, 39, pp. 65-90.