Giuseppe Mazzini
Giuseppe Mazzini, tra i principali teorici dell’idea di nazione nell’Europa del 19° sec., fu uno dei più attivi e influenti cospiratori italiani. Nell’esilio francese, svizzero e inglese propugnò il principio di nazionalità a favore dell’Italia e di tutte le nazioni oppresse. Di sentimenti repubblicani, fondò la Giovine Italia e la Giovine Europa, ispirò progetti insurrezionali, diresse giornali politici, resse da triumviro la Repubblica romana del 1849. È considerato uno dei padri fondatori dell’Italia unita.
Nacque a Genova, il 22 giugno 1805, in una famiglia non estranea all’impegno politico: il padre Giacomo, medico, aveva militato nella Repubblica ligure del 1797. Ma fu soprattutto la madre, Maria Drago, a plasmarne il carattere e a segnarne gli orientamenti, con un’educazione che è stata considerata di ascendenza giansenista e certamente fu informata da un’austera religiosità. Abbandonati gli studi di medicina, Mazzini si laureò in legge, ma mostrò subito prevalenti interessi letterari, intrecciati a ideali politici democratici e patriottici nutriti dalla lettura dei periodici italiani più avanzati del periodo, come «Il Conciliatore» e l’«Antologia».
Le sue letture, di taglio sia letterario che filosofico-politico, possono essere ricostruite sulla base dei giovanili zibaldoni: i romantici francesi e tedeschi, i romanzi storici inglesi, gli scritti filosofici, storici e religiosi di autori soprattutto francesi, da Jean-Jacques Rousseau a François Guizot, da Benjamin-Henri Constant a Félicité-Robert de Lamennais (G. Mazzini, Zibaldone giovanile, 4 voll., 1965-1990, in Id., Scritti editi ed inediti, nuova serie).
Secondo le Note autobiografiche stese nel corso degli anni Sessanta, furono la lettura di Ugo Foscolo e l’incontro con un gruppo di esuli del 1821 a ispirargli fin dalla prima adolescenza l’impegno politico, che si concretizzò presto, oltre che nell’attività letteraria, nell’adesione alla Carboneria. Questa militanza costò a Mazzini l’arresto, il carcere e infine la scelta obbligata dell’esilio in Francia, a partire dal 1831. Qui, facendo base a Marsiglia, Mazzini fondò il movimento della Giovine Italia e l’omonimo giornale, iniziando a diffondere dalla Francia nella penisola gli ideali repubblicani, democratici e unitari, e a coordinare, attraverso una rete di corrispondenti e seguaci, l’attività cospirativa. Questa doveva attuarsi in tentativi insurrezionali attraverso spedizioni da oltre confine (come dalla Savoia nel 1834) e in colpi di mano volti a suscitare rivolte popolari.
Spostatosi in Svizzera, Mazzini cercò un coordinamento con altri movimenti formati da esuli delle nazioni in lotta per la propria indipendenza, fondando nel 1834 la Giovine Europa con il concorso di patrioti tedeschi e polacchi. Inseguito dalle polizie di diversi Stati europei, fu costretto a rimettersi in fuga e decise di lasciare il continente per recarsi in Gran Bretagna, dove giunse nel gennaio 1837. Qui entrò gradualmente in contatto con la scena politica, allora animata dal movimento cartista, ma anche con le procedure e le regole del parlamentarismo, con i dibattiti e le iniziative, infine, dei socialisti inglesi e del nascente comunismo (già in Francia si era incontrato, o meglio scontrato, con il fourierismo). A Londra Mazzini conobbe e frequentò personalità di spicco del mondo politico e intellettuale, tra cui Thomas Carlyle, John Stuart Mill, William Linton, ed esuli insigni come Alexander Herzen, formando una nutrita schiera di seguaci e sostenitori della causa italiana. Fu inoltre impegnato in attività a favore degli operai italiani, fondando una scuola italiana e creando e dirigendo il giornale l’«Apostolato popolare».
Dal 1840 diede vita alla seconda stagione della Giovine Italia, mentre continuava a tenersi in stretto contatto con cospiratori italiani che si trovavano in clandestinità nella penisola, o vivevano da esuli in diversi angoli dell’Europa o del Mediterraneo: si trattasse degli animatori di tipografie clandestine in Svizzera o di cospiratori militari come Nicola Fabrizi a Malta. Gli eventi del 1848 richiamarono Mazzini in Italia, prima a Milano durante le Cinque giornate (dove egli si confrontò con Carlo Cattaneo), poi a Firenze e infine a Roma, dove guidò da triumviro, con Carlo Armellini e Aurelio Saffi, la Repubblica del 1849.
Gli anni Cinquanta, apertisi con la creazione a Londra di un Comitato centrale democratico europeo e di un Comitato nazionale italiano, furono segnati da un parziale ripiegamento e infine da sconfitte, come quella, conclusasi tragicamente, della spedizione di Sapri guidata da Carlo Pisacane (1857).
La spedizione dei Mille lasciò Mazzini sostanzialmente nell’ombra; egli aveva però nel frattempo consegnato le proprie riflessioni a quella che sarebbe divenuta la sua opera teorica più nota, i Doveri dell’uomo, dedicata agli operai italiani e uscita per la prima volta nel 1860 a Lugano e a Napoli. Nel corso degli anni Sessanta Mazzini e il suo movimento si confrontarono anche con la crescente influenza di correnti come l’anarchismo – vivace fu lo scontro con Michail A. Bakunin – e il socialismo della Prima internazionale (con lo stesso Karl Marx, Mazzini si era scontrato a Londra fin dagli anni Quaranta): in Italia, d’altra parte, le file repubblicane andavano gradualmente svuotandosi, mentre si riempivano, appunto, quelle anarchiche e poi socialiste.
Nel 1870 il nuovo Stato italiano poteva ancora arrestare e imprigionare Mazzini a Gaeta, dopo un suo sbarco in Sicilia da cui puntava a raggiungere Roma non ancora liberata. La Comune di Parigi fu l’estremo momento di incomprensione tra Mazzini e la sinistra europea, dalla quale continuava tra l’altro a dividerlo il giudizio sulla Rivoluzione francese (sul 1789 il patriota tuonava in tarde pagine). Con il Regno d’Italia Mazzini sostanzialmente mai si riconciliò, rifiutando la scelta monarchica di diversi dei suoi seguaci e, a maggior ragione, un seggio in Parlamento. E finendo così per morire a Pisa, in casa di Janet Nathan Rosselli, sotto il falso nome inglese di un anonimo Mr Brown, il 10 marzo 1872.
Gli scritti giovanili di Mazzini mostrano come all’origine del suo impegno politico vi fosse – così come fu caratteristico delle generazioni romantiche – la letteratura o, meglio, l’intreccio tra letteratura e politica. Il modello fondamentale fu, per lui e per i suoi amici e primi seguaci, Foscolo: la lettura dell’Ortis aveva sconvolto Mazzini ancora giovanissimo. Anni più tardi, nella prefazione a una raccolta di Scritti politici inediti (Lugano 1844) del poeta, Mazzini scriveva: «Il nome di Foscolo […] ci suonava venerato sul labbro e imparavamo da lui la connessione delle lettere col viver civile» (si veda la prefazione agli Scritti politici inediti di Ugo Foscolo, raccolti a documentare la vita e i tempi, in Scritti editi ed inediti, prima serie, 29° vol., 1912, pp. 160-61). Anche attraverso Foscolo, Mazzini e il suo circolo erano giunti, inoltre, a una lettura in chiave patriottica di Dante Alighieri: essa emergeva nel primo articolo noto di Mazzini, Dell’amor patrio di Dante (1826 o 1827), inviato all’«Antologia» ma rimasto inizialmente inedito e pubblicato solo un decennio più tardi, per iniziativa di Niccolò Tommaseo (Dell’amor patrio di Dante, «Subalpino. Giornale di scienze, lettere ed arti», 1837, 1, ora in Scritti editi ed inediti, cit., 1° vol., 1906, pp. 3-23). Si trattava di una lettura del poeta fiorentino tipica dei nazionalismi ottocenteschi che si appropriavano, ricostruivano e reinventavano le tradizioni, trasformandole in miti patriottici, con una particolare predilezione per il Medioevo.
Ma la cifra più originale nel contesto italiano del primo contributo critico-letterario e in senso lato politico di Mazzini era l’apertura europea dei suoi orizzonti, a includere le letterature contemporanee francese e tedesca (nelle traduzioni francesi), consentendogli tra l’altro di superare la tradizionale contrapposizione tra classicisti e romantici, e senza disdegnare l’imitazione straniera. Ciò permetteva già al cospiratore in fieri di articolare quella caratteristica dialettica tra nazionale e internazionale, Italia ed Europa, che sarebbe divenuta centrale nella concezione politica che, solo pochi anni più tardi, egli avrebbe posto alla base dei progetti della Giovine Italia e della Giovine Europa. Il processo di imitazione ed emulazione – sulla scia delle riflessioni di Madame de Staël, Guizot e Friedrich Schlegel – valeva, dunque, per la letteratura in scritti come D’una letteratura europea (apparso nell’«Antologia», 1829, 107-108, ora in Scritti editi ed inediti, cit., 1° vol., 1906, pp. 177-222), così come sarebbe valso poi per i movimenti patriottici intenti ad affermare i diritti delle nazionalità oppresse e a realizzare le rispettive «missioni» storiche nazionali.
Di minore interesse i primi due scritti politici di Mazzini – se a lui vanno effettivamente attribuiti –, nati nell’ambiente della carboneria genovese e rimasti inediti (si tratta della cosiddetta Circolare carbonica esortante alla concordia e dello scritto De l’Espagne en 1829 considerée par rapport à la France, entrambi del 1829 e ora in Scritti editi ed inediti, cit., 94° vol., 1943, rispettivamente pp. 175-83 e 107-71). Essi testimonierebbero il primo impegno cospirativo di Mazzini e soprattutto una fase aurorale del suo pensiero politico e costituzionale che ancora risentiva di un linguaggio di derivazione massonica e illuministica, del cosmopolitismo settecentesco e delle concezioni del diritto naturale, mostrando comunque in nuce la sua apertura internazionale, la tendenza a riflettere su altri casi nazionali (qui la Spagna nei suoi rapporti con la Francia, ma anche la Grecia e la sua recente rivoluzione), la necessità di un’alleanza internazionale in difesa della libertà, la disponibilità politica al martirio di sé. Furono però l’esilio francese e svizzero a segnare – tra il 1831 e il 1835 – l’effettiva genesi del pensiero politico mazziniano quale oggi lo conosciamo.
Decisivi nella formazione della visione e del progetto politico mazziniano furono l’elemento generazionale, sia anagrafico che simbolico: la «giovane» Italia contrapposta alla «vecchia»; ma anche il superamento degli orientamenti tendenzialmente più moderati della Carboneria, oltre che dei suoi rituali più rigidamente codificati. Essenziali furono il contatto e il confronto con la scena politica francese in fermento dopo la Rivoluzione di luglio: quindi con il movimento repubblicano e costituzionale, ma anche con il sansimonismo, che permeò il pensiero mazziniano della sua caratteristica dimensione religiosa.
Particolarmente fertile, per Mazzini, fu il confronto con altri movimenti nazionali, le cui rivendicazioni e i cui simboli il genovese conobbe attraverso gli esuli confluiti in Francia da diversi angoli d’Europa. Ma contarono anche, specie in questa prima fase, le teorizzazioni militari che avrebbero ispirato i tentativi di spedizioni e colpi di mano (pure infruttuosi, quando non fallimentari): innanzitutto il Carlo Bianco della Guerra nazionale d’insurrezione per bande applicata all’Italia (1830), una sorta di «manuale» per la prima spedizione di Savoia e per molte altre imprese. Caratteristica fu anche la scelta non solo di formare un embrione di partito politico (secondo il giudizio di alcuni il primo in senso moderno in Europa; Della Peruta 1974), ma anche di stampare un giornale, sul modello di precedenti esperienze come quelle italiane del «Conciliatore» o dell’«Antologia» e quelle di testate francesi, compulsate quotidianamente da Mazzini: un giornale da far giungere e distribuire clandestinamente nella penisola.
Se nella primissima fase il pensiero e l’attività di Mazzini esule furono segnati anche da influenze settarie, ciò si dovette all’incontro e all’iniziale tentativo di accordo con Filippo Buonarroti e con il movimento degli apofasimeni capeggiato da Bianco. Ma su questo orientamento prevalsero rapidamente i modelli dell’associazionismo e degli scritti del movimento sansimoniano e, più in generale, di quello repubblicano e costituzionale francesi. Accanto alla diretta ispirazione che gli venne dalle opere di Lamennais (come Paroles d’un croyant, 1834) e dal giornale «L’Avenir» da questi diretto, che gli comunicarono un’ispirazione di tipo apocalittico sullo sfondo di un intreccio tra religione e politica tipico del cattolicesimo liberale; assieme alle influenze martirologiche del nazionalismo polacco che Mazzini trasse dagli scritti di Adam Mickiewicz (in particolare Księgi narodu i pielgrzymstwa polskiego, Libri della nazione e dei pellegrini polacchi, 1832); la Doctrine de Saint-Simon (1829) gli trasmise indirettamente anche temi e suggestioni del primo romanticismo tedesco (per es., il Novalis di Christenheit oder Europa, 1799) ed elementi del pensiero reazionario francese (il motivo della nazione «missionaria», che risaliva a Joseph de Maistre e alle sue Considérations sur la France, 1797).
Questi temi e atmosfere si riversarono nei primi anni dell’esilio francese in uno dei più celebri scritti di Mazzini, cioè Foi et avenir (1835), segnato da quella congiunzione di religione e politica che avrebbe caratterizzato da allora il suo pensiero e il suo impegno militante: in nome di una religione secolare e civile che superava la fede tradizionale, ma ne conservava le componenti teistiche, la devozione alla comunità dei credenti e la dimensione martirologica.
A questo primo periodo appartengono anche gli scritti di Mazzini che esaltano il tema della giovinezza e il ruolo dei giovani come centrali nelle trasformazioni politiche dell’Europa contemporanea; i quadri storici, letterari e politici europei, o su singole letterature nazionali; il confronto e l’appello agli altri movimenti nazionali (polacchi, tedeschi, ungheresi, slavi in genere) a favore del principio di nazionalità, di un approccio irenico, di tipo spirituale e religioso all’idea di nazione, e agli ideali di libertà e umanità.
Concetto cardine del pensiero politico mazziniano fin dalle origini – e allo stesso tempo simbolo e mito della sua azione e propaganda politica, in un sistema di pensiero che era innanzitutto matrice per l’azione – fu quello di nazione o, più precisamente, di nazionalità. Il termine nazionalità, talora attribuito nella forma francese a Madame de Staël, è in realtà attestato nella lingua italiana già nel tardo Seicento, e venne utilizzato nel suo moderno significato politico un secolo più tardi durante il cosiddetto triennio giacobino, ma certamente conobbe una sorta di esplosione a livello europeo con la Rivoluzione di luglio del 1830 in Francia e i rivolgimenti che ne seguirono in diversi Paesi.
Mazzini fu, con i suoi scritti e contatti internazionali e con la sua opera di propaganda, uno dei principali diffusori di questo concetto e parola d’ordine. Il termine compariva già, accanto a quello parzialmente sinonimo di nazione, nella Istruzione generale per gli affratellati nella Giovine Italia (seconda metà del 1831), che fissava i principi e gli scopi repubblicani, democratici e unitari del nuovo movimento politico, individuava i mezzi dell’azione nell’«educazione» e nell’«insurrezione» (quindi: propaganda, proselitismo e cospirazione anche armata), e definiva la natura quasi religiosa dell’impegno richiesto agli affiliati, sancito da un solenne giuramento.
Ma la prima e più compiuta definizione di nazionalità fu offerta da Mazzini nell’articolo apparso nella rivista «La jeune Suisse» nel settembre 1835, dove egli la definiva come «un pensiero comune, un principio comune, un fine comune […], la parte che Dio attribuisce a un popolo nel travaglio umanitario. La sua missione, il compito che deve svolgere sulla terra» (Nationalité. Quelques idées sur une Constitution Nationale, «La jeune Suisse», 19, 23 e 30 settembre 1835, ora in Scritti editi ed inediti, cit., 6° vol., 1909, pp. 123-58).
Questa formulazione risentiva fortemente di quella proposta alcuni anni prima dal sansimoniano francese (e più tardi cattolico nazionalista) Philippe Buchez nelle pagine dell’«Européen» (Mastellone 1960, 1° vol., p. 321; F. Venturi, L’Italia fuori dall’Italia, in Storia d’Italia, a cura di R. Romano, C. Vivanti, 3° vol., Dal primo Settecento all’Unità, 1973, p. 1248). Tutto il pensiero mazziniano nella sua componente religiosa e in alcune categorie chiave che ne informano le concezioni organicistiche (associazione, credenza, apostolato, missione) era in effetti di diretta ascendenza sansimoniana (Salvemini 19733, p. 223). Nella definizione mazziniana di nazione aveva inoltre un ruolo preminente la divinità, che ispirava la nazionalità e da cui discendeva la sovranità popolare: parzialmente sovvertendo, in questo modo, il modello della nazione rivoluzionaria francese e collocando perciò Mazzini in una posizione del tutto peculiare nell’ambito dei liberalismi e dei nazionalismi europei ottocenteschi (Levis Sullam 2010; sempre Gaetano Salvemini parlò nel 1905, a proposito del ruolo di «Dio» in Mazzini – come nel suo celebre motto «Dio e il Popolo» –, di «teocrazia popolare»; Salvemini 19733, p. 152). Emergeva, inoltre, nell’interpretazione mazziniana della nazione, la concezione martirologica del nazionalismo che egli aveva assorbito nel contatto con gli esuli polacchi, in particolare il citato Mickiewicz e lo storico Joachim Lelewel.
Allo stesso tempo, il concetto di nazionalità consentiva a Mazzini di declinare le rivendicazioni nazionali italiane in una più armoniosa dialettica – inizialmente intuita sul piano letterario – con il contesto europeo e con gli altri movimenti patriottici, e in una chiave irenica contrapposta ai nazionalismi più gretti e aggressivi (sebbene la storiografia tenda oggi a sfumare le differenze enfatizzate un tempo tra nazione spiritualistica, quale quella mazziniana di ispirazione francese rousseauiana e costituzionale repubblicana, e nazione naturalistica, di ispirazione tedesca e, soprattutto più tardi, di tendenza xenofoba e autoritaria).
La contrapposizione tra nazionalità e nazionalismo continuò tuttavia a valere per Mazzini attraverso il tempo in scritti che vanno da Nationality and cosmopolitanism, apparso nel «People’s journal» del maggio 1847, a Nazionalismo e nazionalità, tra i suoi più tardi interventi nella «Roma del popolo», dell’ottobre 1871 (ora in Scritti editi ed inediti, cit., rispettiv. 36° vol., 1914, pp. 33-47, e 93° vol., 1941, pp. 85-96). Ma il principio di nazionalità non si affermò per Mazzini solo o tanto attraverso scritti teorici – sebbene essi fossero premessa all’«educazione» dei seguaci e delle masse – bensì attraverso l’azione cospirativa e militare. La Giovine Italia e, seppur brevemente, la Giovine Europa, dovevano costituire una rete di affiliati nell’emigrazione e, soprattutto, nella penisola (o nei rispettivi contesti nazionali) e provocare l’«iniziativa» rivoluzionaria grazie a un’alleanza tra volontari anche di nazioni diverse, o al seguito di capi carismatici che trascinassero le masse italiane in armi, come nelle imprese, che aspiravano a suscitare largo sostegno popolare ma si conclusero nel sangue, dei fratelli Attilio ed Emilio Bandiera (1843) e, più tardi, di Pisacane.
La scelta di Mazzini a favore della repubblica, nutrita anche di memorie familiari, fu ferma ed esplicita fin dal principio del suo progetto politico. A partire dalla citata Istruzione generale, la Giovine Italia si disse repubblicana e quella della «repubblica» fu una delle parole d’ordine che attraversarono gli scritti di Mazzini attraverso i decenni. «La Giovine Italia è repubblicana e unitaria», si legge infatti nell’Istruzione generale:
Repubblicana: – perché, teoricamente, tutti gli uomini d’una Nazione sono chiamati, per la legge di Dio e dell’umanità, ad esser liberi, uguali, e fratelli; e l’istituzione repubblicana è la sola che assicuri questo avvenire, – perché la sovranità risiede essenzialmente nella nazione, sola interprete progressiva e continua della legge suprema [...] – perché la serie progressiva dei mutamenti europei guida inevitabilmente la società allo stabilimento del principio repubblicano [...]. Repubblicana: – perché, la tradizione italiana è tutta repubblicana: repubblicane le grandi memorie; […] [repubblicano] il principio, che domina in oggi tutte le manifestazioni rivoluzionarie d’Europa (ora in Scritti editi ed inediti, cit., 2° vol., 1907, pp. 45-56).
Se vi furono talora cedimenti tattici che indussero il patriota a cercare il sostegno del re piemontese (la celebre lettera A Carlo Alberto, anch’essa del 1831) o persino del papa (il Pio IX del 1846-47), si trattò probabilmente di momenti in cui il progetto unitario avrebbe potuto prevalere sugli scopi ultimi solo in modo temporaneo. Allo stesso tempo Mazzini non era un teorico o un filosofo del diritto, e restò perciò alieno dal proporre teorie costituzionali: anche in fasi come quella della Repubblica romana non fu lui a stendere la costituzione (i triumviri erano formalmente esclusi da questo processo), e preferì pure rinviare a unità compiuta il progetto di una costituente italiana (I. Bonomi, Mazzini, triumviro della Repubblica romana, 1936). La repubblica restò per Mazzini innanzitutto un simbolo, fondato su memorie storiche risalenti all’antichità classica riemerse sull’onda della Rivoluzione francese e che avevano nutrito l’immaginazione letteraria italiana da Niccolò Machiavelli a Foscolo. Un simbolo, quello repubblicano, che – come in genere il linguaggio e il pensiero mazziniani – doveva soprattutto mobilitare le masse, muovere all’azione.
In un discorso alla costituente romana, dopo aver dichiarato la propria ventennale fede repubblicana, Mazzini diceva ad esempio:
Noi vogliamo fondare la Repubblica. E per Repubblica non intendiamo una mera forma di governo, un nome, un’opera di riazione da partito a partito, da un partito che vince a partito vinto. Noi intendiamo un principio; intendiamo un grado di educazione conquistato dal Popolo; un programma d’educazione da svolgersi; un’istituzione politica atta a produrre un miglioramento morale. Noi intendiamo per Repubblica il sistema che deve sviluppare la libertà, l’uguaglianza, l’associazione (Discorso pronunziato nella seduta del 10 marzo 1849 dell’Assemblea Costituente Romana sulla missione del Governo di fronte alla situazione politica d’Italia, ora in Scritti editi ed inediti, 41° vol., 1925, pp. 18-20).
Nemmeno un mese prima, ancora da Firenze, egli aveva salutato il sorgere della terza Roma, la Roma del popolo, chiamandola simbolicamente «Chiesa» e «Repubblica»: una nuova chiesa che sostituiva quella dei papi. In questo stesso contesto, Mazzini definiva la repubblica non solo «istituzione», ma «educazione», secondo il suo concetto pedagogico e progressivo di democrazia (Per la proclamazione della repubblica romana, «La Costituente italiana», 15 febbraio 1849, ora in Scritti politici, 20052, pp. 634 e 635).
A unità compiuta, nella celebre polemica che lo oppose a Francesco Crispi, dopo che l’ex garibaldino e mazziniano (futuro presidente del Consiglio) ebbe pronunciato davanti al Parlamento la celebre formula «la monarchia ci unisce, la repubblica ci dividerebbe», Mazzini scriveva icasticamente nelle proprie Note autobiografiche, riecheggiando e rovesciando lo slogan crispino: «La repubblica farà ciò che la monarchia non seppe o non volle» (Note autobiografiche, a cura di R. Pertici, 1986, p. 383; il capitolo è datato 1864). Il simbolo della repubblica diveniva ora pungolo costante del nuovo Stato italiano costituitosi a monarchia: simbolo di delusione e fonte di mai appagate rivendicazioni.
Da principio, come si è detto, l’immaginazione politica di Mazzini si era aperta e aveva abbracciato il contesto europeo e si era esercitata sull’esempio di altri casi e rivoluzioni nazionali: se negli anni Venti erano state la Spagna e la Grecia, negli anni Trenta fu il destino comune di Germania e Polonia o Ungheria a suscitare la sua partecipazione e la sua ricerca di alleanze con gli esuli di altre nazioni in Francia, in Svizzera, e poi in Gran Bretagna.
Mazzini fu particolarmente influenzato dai polacchi e a sua volta esercitò la propria influenza nella formazione di associazioni e fin nella stesura di documenti politici dell’emigrazione polacca (S. Levis Sullam, Costruire un nazionalismo e un gran convegno di popoli. Mazzini tra Europa e Polonia, in L’eredità di Giuseppe Mazzini. La democrazia tra coscienza nazionale e coscienza europea, a cura di G. Berti, 2006, pp. 49-64). L’incontro del nazionalismo italiano con quello polacco si fondava sul riconoscimento delle comuni tradizioni cristiane e cattoliche, sul riferimento – caro a entrambi i movimenti – al repubblicanesimo, sull’affinità, che Mazzini provava in modo particolare, nei confronti dell’interpretazione martirologica e cristologica della nazione caratteristica del nazionalismo polacco (un’interpretazione, del resto, diffusa nel coevo immaginario europeo, per la generale influenza esercitata dal mito della Polonia).
Questi scambi culturali e politici possono essere seguiti nei documenti e nelle lettere dei patrioti italiani e polacchi pubblicati nella «Giovine Italia»; nella corrispondenza di Mazzini con alcune figure di punta di quella emigrazione (in primo luogo Lelewel); nelle influenze, ma anche nelle citazioni esplicite, della letteratura patriottica della Polonia rinvenibili negli scritti di Mazzini e ulteriormente confermate nei suoi scambi con corrispondenti italiani, in particolare con la madre. A quest’ultima, per es., egli proponeva un confronto tra i citati libri di Lamennais e di Mickiewicz, segnalandone il forte impatto emotivo, indicandone le fonti bibliche ed evangeliche, e ipotizzando che se ne sarebbe potuto pubblicare di simili italiani (Mazzini alla madre, 6 luglio 1834 e 18 novembre 1834, cit. in G. Maver, Le rayonnement de Mickiewicz en Italie, in Adam Mickiewicz, 1798-1855, hommage de l’UNESCO, 1955, p. 113). Mazzini pensava evidentemente a un testo politico-religioso quale il catechismo che alcuni anni prima aveva chiesto invano a Vincenzo Gioberti (inizialmente suo seguace), o come i testi ispirati che proprio per influenza di quei modelli o di successive opere degli stessi autori egli stesso avrebbe steso: da Foi et avenir ai Doveri. Così, sulle pagine della «Giovine Italia» nei primi anni Trenta, un appello del Comitato nazionale polacco invocava, per es., le «strette relazioni che dai principii del cristianesimo avevano uniti i Polacchi e gli Ungheresi con i vicini Italiani»: simili erano le situazioni nazionali e medesima la «causa» per cui essi si battevano. E in risposta a questo appello Mazzini tracciava, in quelle stesse pagine, la propria visione di un’Europa i cui movimenti nazionali formavano nell’esilio un ideale «gran convegno de’ popoli»: da cui – scriveva – «ci riporremo in viaggio, nella direzione che la natura commette a ciascuno, voi [Polacchi], coll’Alemagna unitaria, e coll’Ungheria ricostituita, all’emancipazione del Nord, all’incivilimento delle razze Slave; noi, colla Francia e colla Spagna all’emancipazione del Mezzogiorno» (i due documenti sono raccolti sotto il titolo Italia e Polonia, «La Giovine Italia», fasc. V, ora in Scritti editi ed inediti, cit., 3° vol., 1907, pp. 77-82).
Nello stesso periodo Mazzini dipingeva, nella «Revue républicaine», un quadro della rivoluzione in Europa che era anche un invito alle nazioni a farsi «peuples initiateurs» delle trasformazioni politiche, in nome della libertà e dell’uguaglianza: secondo Mazzini esse dovevano ormai sostituirsi allo storico ruolo «iniziatore» e «missionario» della Francia (De l’initiative révolutionnaire en Europe, «Revue républicaine», gennaio 1835, ora in Scritti editi ed inediti, cit., 4° vol., 1908, pp. 131-51).
Conclusasi dopo breve vita l’esperienza della Giovine Europa, i medesimi principi ispiratori – democratici ed europeisti – e le stesse parole d’ordine lanciate da Mazzini a metà anni Trenta (libertà, associazione, umanità) sarebbero tornate identiche, nonostante tutto, quindici e vent’anni più tardi. In documenti come quello del Comitato centrale democratico europeo, firmato a Londra da Mazzini con Alexandre Ledru Rollin, il tedesco Arnold Ruge, il polacco Albert Darasz (apparve in francese nel «Proscrit», 22 luglio 1850, e in italiano nell’«Italia del popolo», novembre 1850; ora in Scritti politici, 20052, pp. 686-92); oppure come quello – di esplicita impronta repubblicana – promosso nel 1855 da Mazzini e Ledru Rollin assieme a Lajos Kossuth (Mastellone 2004, pp. 311-14). Ma la concezione della democrazia in Mazzini si era nel frattempo approfondita e parzialmente trasformata grazie a riflessioni nuove e in reazione anche a esperienze diverse.
Gli anni Quaranta, trascorsi da Mazzini a Londra fino a che l’esplodere della primavera dei popoli lo ricondusse in Italia, costituirono per il patriota un momento di immersione nel contesto politico britannico, di confronto con, ma anche di prima ricapitolazione delle, esperienze socialiste e del nascente comunismo, di approfondimento del concetto mazziniano di democrazia.
Il frutto teorico maggiore di questa fase furono gli scritti degli anni 1846-47 raccolti in seguito sotto il titolo Pensieri sulla democrazia in Europa. Ma fu di questo periodo anche la stesura di manifesti e contro manifesti usciti (spesso dalla stessa penna di Mazzini o su sua ispirazione) da quel laboratorio londinese di idee democratiche e rivoluzionarie in cui sarebbe nato anche, nel 1848, il Manifest der Kommunistischen Partei di Marx e Friedrich Engels. Dai Pensieri emergevano le impressioni, riflessioni e critiche di Mazzini sulla Gran Bretagna della rivoluzione industriale, sull’utilitarismo di Jeremy Bentham, sulle nuove rivendicazioni dei diritti sociali ed economici. La risposta di Mazzini a questo dibattito e la sua reazione al nuovo contesto erano caratterizzate da una critica della «dottrina dei diritti» che (nella sua visione) regnava in Gran Bretagna e negli Stati Uniti, e soprattutto da una concezione pedagogica della democrazia, e persino della rivoluzione, come «problema educativo» (Levi 1967, pp. 146 e 152). Mazzini riconduceva questa concezione agli antichi, austeri esempi del Vangelo e di Sparta e definiva il movimento democratico come movimento «religioso»; in questo periodo era tra l’altro particolarmente esposto a influenze e frequentazioni del mondo protestante inglese.
Quando gli uomini avranno più stretti rapporti attraverso le loro famiglie – scriveva – le loro proprietà, l’esercizio di una funzione politica nello Stato, nonché attraverso l’educazione, allora famiglia, proprietà, nazione, umanità diventeranno più onorate di quanto non lo siano ora (Pensieri sulla democrazia in Europa, a cura di S. Mastellone, 1997, p. 90).
La priorità era quindi sempre, per Mazzini, quella di fondare una comunità nazionale e garantirne la coesione, individuando una «guida», assicurando un’«autorità», mentre egli non mancava di sottolineare l’instabilità e le incertezze del suffragio popolare (pp. 93 e 86).
Nei Pensieri, inoltre, Mazzini da un lato rifletteva ancora una volta sul sansimonismo («la più avanzata manifestazione dello spirito di novità che ha soffiato nel nostro secolo», che egli dichiarava tuttavia «mort[a] e sepolt[a]»; p. 111), e dall’altro analizzava il comunismo, che aveva sopravanzato sansimonismo e fourierismo e che Mazzini rifiutava decisamente in quanto – come scriveva – «abolisce insieme la religione con l’indifferenza, e la libertà con il pesante assolutismo della sua formula organizzativa», oltre a decretare persino «l’abolizione della patria e della nazionalità» (pp. 132 e 133). Il contesto era quello di un confronto tra diverse visioni della democrazia e della politica: quella dei democratici polacchi, spronati proprio allora dell’insurrezione di Cracovia del febbraio 1846, dallo spiccato carattere sociale; quella di orientamento nettamente classista dei «comunisti democratici» tedeschi, promotori a Bruxelles, nel luglio 1846, di un manifesto a firma di Engels, Marx e Philippe Gigot (prodromo di quello del 1848); quella mazziniana, infine, di stampo nazionale e costituzionale, racchiusa da ultimo nei Pensieri sulla democrazia (Mastellone 2004).
Alla vigilia dell’unità d’Italia, infine, Mazzini raccolse e ampliò un gruppo di scritti già in parte editi negli anni Quaranta e Cinquanta, pubblicando il suo volume più celebre: i Doveri dell’uomo. L’opera, che si apriva con una dedica agli operai italiani, era costruita come una sorta di decalogo recante i doveri «generali» e «particolari» degli uomini verso Dio, la Legge, l’Umanità, la Patria, la Famiglia. A partire dal titolo, Mazzini contrapponeva le proprie riflessioni e i propri precetti ai diritti dell’uomo proclamati dalla Rivoluzione francese e – di nuovo – esaminava e criticava aspramente il socialismo e lo «statalismo comunista». Mentre i diritti producevano individualismo, egoismo e assenza di vincoli, i doveri – secondo Mazzini – fondavano la comunità e legavano gli uomini alla nazione per mezzo del rispetto della divinità e dell’obbedienza alla legge. Le «colonne della nazione», nella visione dell’autore dei Doveri, dovevano essere il voto, l’educazione, il lavoro; e il sistema economico doveva basarsi sull’unione di capitale e lavoro, sulla tutela della proprietà privata e sul rifiuto del conflitto sociale (tra le molte edizioni si veda quella negli Scritti politici del 2005 e quella, filologicamente curata, realizzata da G. Macchia,1972).
Gli autori citati da Mazzini erano oltre trenta – da Socrate a Gesù, da Machiavelli a Gioberti – ma il tema specifico dei doveri in contrapposizione ai diritti si rinviene nei suoi scritti a partire almeno da Foi et avenir. Fin nei primissimi scritti francesi, anzi, i «doveri» paiono centrali nella definizione del progetto politico mazziniano, se egli scriveva nel 1831, a proposito del nome della sua associazione e del suo giornale:
Giovine Italia [...] questo vocabolo ci parea di schierare innanzi alla gioventù italiana l’ampiezza de’ suoi doveri, la solennità della missione, che le affidano le circostanze (Della Giovine Italia, «La Giovine Italia», 1832, fasc. I, in Id., Scritti editi ed inediti, cit., 1° vol., 1906, p. 111).
Nello stesso scritto Mazzini associava ancora diritti e doveri (piuttosto che contrapporli, come farà poi più chiaramente), ma già in forma simbolicamente prescrittiva: additando quella che egli chiamava la «tavola de’ diritti e de’ doveri» (p. 107). Ciononostante Mazzini dovette ricevere da ultimo ispirazione diretta alla stesura dei Doveri (solo parzialmente esplicitata) ancora una volta da Lamennais e dal suo Livre du peuple (1838): contarono decisamente meno nella concezione dell’opera modelli italiani coevi, a prima vista più prossimi, come, per es., i Doveri degli uomini (1834) di Silvio Pellico (Levis Sullam 2010, pp. 4 e 105).
L’opera che Mazzini consegnava agli operai italiani alla vigilia dell’unità aveva dunque uno spiccato carattere pedagogico-precettistico, poneva al centro l’educazione, la cooperazione tra le classi, la sottomissione alla legge e, come sempre, collocava Dio al vertice della nazione, e la sovranità in Dio prima che nel popolo. Cristallizzava nelle sue forme più caratteristiche la democrazia nazionale e religiosa di Mazzini e allo stesso tempo ne circoscriveva, per aspetti importanti, la portata rivoluzionaria. L’eredità dei Doveri.sarebbe anche perciò poi stata segnata dalle tensioni e contraddizioni del suo impianto teorico e politico originario; come pure dalle molteplici, spesso strumentali riletture che furono proposte – e talora imposte – nei decenni a venire.
Le complicate vicende della fortuna di Mazzini tra Ottocento e Novecento sono in effetti simbolicamente riassunte dall’episodio dell’adozione nelle scuole da parte del ministero della Pubblica istruzione, nel 1902, di un’edizione dei Doveri dell’uomo privata dei suoi elementi repubblicani, ritenuti poco consoni al contesto del giovane regno italiano. Spesso il riferimento alla figura e all’opera di Mazzini poteva infatti avvenire, nel discorso pubblico e politico, soltanto attraverso un preventivo svuotamento del suo messaggio politico originario: si pensi al Mazzini politicamente neutralizzato di un capitolo del fortunatissimo libro Cuore (1886) di Edmondo De Amicis. D’altra parte, nel centenario della nascita (1905) lo stesso Stato italiano avviò un’edizione nazionale degli scritti di Mazzini (inclusa l’enorme mole della sua corrispondenza quotidiana) che nel 1943 aveva raggiunto i cento volumi e prosegue tutt’oggi con appendici e aggiornamenti.
Il pensiero di Mazzini venne, sempre più con il trascorrere del tempo, riletto e appropriato in forme diverse nei decenni successivi alla sua scomparsa: prima dagli eredi diretti e dai difensori dell’ortodossia del movimento repubblicano; poi dai seguaci di un tempo che avevano aderito alla monarchia ed erano talora giunti a posizioni di governo nel Regno d’Italia: innanzitutto Crispi. Dal principio del 20° sec., il pensiero di Mazzini fu poi analizzato, sezionato e ricostruito da autorevoli e influenti interpreti, specie di area democratica: primeggiano tra questi ancora oggi, per penetrazione e acutezza, lo storico Salvemini e il filosofo del diritto Alessandro Levi. Tuttavia, da un punto di vista teorico e politico fu innanzitutto la parte conservatrice a richiamarsi a Mazzini, seppure attraverso reinterpretazioni e revisioni ideologiche: fino all’appropriazione – per molti aspetti strumentale e deformante – che ne fece il fascismo, indicando in Mazzini uno dei propri precursori. Se Salvemini, Piero Gobetti, Benedetto Croce, Antonio Gramsci criticarono duramente Mazzini sul piano teorico, Giovanni Gentile ne fece, in modo influente, uno dei «profeti» del fascismo (a partire da I profeti del Risorgimento italiano, 1923). L’antifascismo, in primo luogo l’area di Giustizia e Libertà, celebrò invece Mazzini come eroe democratico e suscitatore di ideali, criticandone e in sostanza rifiutandone i principi politici teorici (Levis Sullam 2010; Mazzini e il Novecento, 2010).
Ma anche la memoria di Mazzini come simbolo suscitò complicate e tortuose rielaborazioni, se l’erezione di un monumento a lui dedicato nella capitale – la «terza Roma» da lui celebrata e agognata – dovette attendere oltre mezzo secolo e, quindi, la nascita della Repubblica per vedere la sua realizzazione (P. Lescure, Les enjeux du souvenir. Le monument national à Giuseppe Mazzini, «Revue d’histoire moderne et contemporaine», 1993, 2, pp. 177-201, ma anche S. Luzzatto, La mummia della Repubblica. Storia di Mazzini imbalsamato, 20112).
Le principali forze politiche italiane della seconda metà del 20° sec. faticarono a riconoscersi in Mazzini se non quale austero, ma politicamente svuotato, fondatore della patria e solo remoto ispiratore del suo ordinamento repubblicano. L’influenza di Mazzini avrebbe conosciuto piuttosto una funzione liberatrice in luoghi molto lontani e assai diversi dall’Italia (ma attraverso una evidente decontestualizzazione) come l’India e l’America Meridionale e i rispettivi movimenti nazionalisti e indipendentisti: garantendo in tal modo a Mazzini la fama, che oggi potremmo definire globale – anch’essa inevitabilmente frutto di proiezioni e rivisitazioni attualizzanti –, di padre dei «nazionalismi democratici» (Giuseppe Mazzini and the globalisation of democratic nationalism, 1830-1920, 2008).
Scritti editi ed inediti, Edizione nazionale degli scritti di Giuseppe Mazzini, 100 voll., Imola 1906-1943; sono seguiti appendici e aggiornamenti, ancora in corso di pubblicazione.
Scritti politici, a cura di T. Grandi, A. Comba, Torino 1972, 20052.
Note autobiografiche, a cura di R. Pertici, Milano 1986.
Pensieri sulla democrazia in Europa, a cura di S. Mastellone, Milano 1997.
G. Salvemini, Mazzini, Messina 1905, poi in Scritti sul Risorgimento, a cura di P. Pieri, C. Pischedda, Milano 1961, 19733, pp. 145-251.
A. Levi, La filosofia politica di Giuseppe Mazzini, Bari 1917, Bologna 19222 (rist. a cura di S. Mastellone, Napoli 1967).
N. Rosselli, Mazzini e Bakunin. Dodici anni di movimento operaio in Italia (1860-1872), Milano 1927.
S. Mastellone, Mazzini e la ‘Giovine Italia’ (1831-1834), 2 voll., Pisa 1960.
F. Della Peruta, Mazzini e la Giovine Europa, «Annali dell’istituto Giangiacomo Feltrinelli», 1962, 5, pp. 11-149.
F. Della Peruta, Mazzini e i rivoluzionari italiani. Il ‘partito d’azione’ 1830-1845, Milano 1974.
D. Mack Smith, Mazzini, New Haven (Conn.)-London 1993 (trad. it. Milano 1993).
R. Sarti, Mazzini: a life for the religion of politics, Westport (Conn.) 1997 (trad. it. Roma-Bari 2000).
S. Mastellone, Mazzini scrittore politico in inglese: democracy in Europe (1840-1855), Firenze 2004.
Mazzini e gli scrittori politici europei, a cura di S. Mastellone, 2 voll., Firenze 2005.
Giuseppe Mazzini and the globalisation of democratic nationalism, 1830-1920, ed. C.A. Bayly, E.F. Biagini, Oxford 2008.
G. Monsagrati, Mazzini Giuseppe, in Dizionario biografico degli Italiani, Istituto della Enciclopedia Italiana, 72° vol., Roma 2009, ad vocem.
A. Arisi Rota, I piccoli maestri. Politica ed emozioni nei primi mazziniani, Bologna 2010.
G. Belardelli, Mazzini, Bologna 2010.
S. Levis Sullam, L’apostolo a brandelli. L’eredità di Mazzini tra Risorgimento e fascismo, Roma-Bari 2010.
Mazzini e il Novecento, a cura di A. Bocchi, D. Menozzi, Pisa 2010.