MICALI, Giuseppe
– Nacque a Livorno il 19 marzo 1768 da Giovan Carlo e da Maria Veneranda Forti. Il grande fondaco paterno, specializzato in oggetti e copie da collezionisti, era una tappa obbligata del grand tour e collegava le attività commerciali del console statunitense Th. Appleton con il mercato marmifero di Carrara.
Allievo dei barnabiti, verso i diciotto anni il M. cominciò l’attività mercantile ed effettuò viaggi d’affari in Italia (a Bologna, Napoli, Roma) e in Europa, in occasione dei quali conobbe W.A. Mozart a Vienna e C. Denina a Berlino; a Melchiorre Delfico, di cui divenne amico, procurò una collezione di monete della Magna Grecia. Tra la fine del 1793 e la fine del 1795 fu in corrispondenza con il poeta G. Fantoni, arcade con il nome di Labindo Arsinoetico, noto come l’«Orazio Flacco toscano», accademico apatista. Nel 1794 visitò le rovine di Paestum. Vicino agli ambienti del giacobinismo toscano, maturò presto un giudizio fortemente critico verso il Direttorio, che accusava di aver leso i principî rivoluzionari della sovranità, della libertà e dell’eguaglianza.
Nel gennaio del 1796 seguì a Parigi, previo permesso paterno, F. Favi, nominato segretario della legazione toscana. «Incantato di quella immensa città», il M. vi restò fino al 1799, collaborando alla Décade philosophique, per la quale scrisse l’articolo Peinture du Corrège nouvellement découverte. Tornò da Parigi pensando a un’opera intesa a «ritrar» fuori l’Italia dal buio, intendendo riferirsi all’Italia precedente i periodi greco e romano. In tal modo il M. intendeva inserirsi nel filone di critica alla storia romana aperto dalle ricerche di alcuni studiosi stranieri, sorretto dalle suggestioni di G.B. Vico e alimentato dall’etruscologo scozzese Th. Dempster, il cui De Etruria regali libri septem era stato pubblicato a Firenze nel 1723-26. Si era così consolidata, anche grazie al sostegno del granduca Pietro Leopoldo, una tendenza alla riscoperta della civiltà preromana che aveva espresso lavori come quelli di G.M. Lampredi, M. Guarnacci, G.M. Galanti e L. Lanzi per poi trovare un adeguato supporto critico nei Prolegomena ad Homerum di F.A. Wolf (1795). In tale temperie il M. venne elaborando la sua idea di studio sull’Italia preromana che, nei primi anni Novanta, prospettò a Delfico, a sua volta impegnato a dimostrare la sostanza dispotica del dominio romano imposto alle antiche civiltà. Mentre nuovi elementi venivano dalla florida attività di scavo nelle aree etrusche, un contributo decisivo alla vichiana prospettiva ideale della civilizzazione italiana preromanica veniva dal Platone in Italia di V. Cuoco e dalla forte critica mossa da P.Ch. Levesque alla storiografia classica e alle stesse presunte qualità morali dei Romani.
L’esaltazione del piccolo Stato contrapposto alla grande potenza fu dunque la chiave di lettura fondamentale di un’epoca, del presente più ancora che del passato, e il M. se ne fece interprete con l’opera «eruditissima» preannunciata dal Denina nel 1809. Ormai inserito pienamente nella vita intellettuale fiorentina, ospite di rilievo del salotto di Louise Stolberg contessa d’Albany, nel 1810 il M. pubblicò a Firenze i quattro tomi de L’Italia avanti il dominio dei Romani corredandoli di un atlante degli Antichi monumenti per servire all’opera intitolata L’Italia avanti il dominio dei Romani. Vi comparivano una carta geografica e sessanta tavole, raffiguranti monumenti già editi e una ventina di inediti.
Nella prefazione spiegava la ragione della sua opera con la volontà di affrancare la verità sull’Italia antica dalle leggende e dalle vulgate degli eruditi. Distinguendo tra la storia d’Italia e la storia di Roma e rivendicando l’autonomo e originale contributo delle popolazioni autoctone alla civilizzazione italiana, nella prefazione il M. mostrava di aver di mira la formazione di una coscienza nazionale: «Nuove e importanti scene nella storia del genere umano potranno meritare l’attenzione dei miei lettori. Gl’Italiani in specie vi apprenderanno a sentire un’emulazione generosa; ad eguagliare la gloria dei maggiori; ed a condurre a più nobile fine la nazionale virtù, perocché questa provincia pare nata per risuscitare le cose morte».
Per restituire alla storia quei popoli cui era mancato un Tucidide, un Livio e un Tacito e che avevano finito per essere del tutto ignorati, il M. diceva di servirsi, con evidente accenno vichiano, del «sussidio della filosofia»; soprattutto, facendo ampio ricorso ai reperti archeologici, superava il vuoto di conoscenze storiche e ricostruiva un percorso mosso all’inizio da spaventosi cataclismi, le «rivoluzioni dell’acqua e del fuoco», e guidato poi dalla capacità di adattamento e di dominio delle risorse. Dimostrava così l’origine autoctona delle popolazioni «aborigene» italiane, negando i supposti passaggi di genti straniere prima dell’arrivo dei Greci e dell’invasione dei Galli dal Nord al tempo di Tarquinio Prisco. Leggenda e mitologia avevano nascosto ciò che i monumenti rimasti attestavano su civiltà antiche e capaci anche di linguaggi maturi. La ricostruzione seguiva le cause e i progressi «naturali» della civilizzazione, la struttura politica italiana (termine riferito in larga parte alla dislocazione dei popoli conseguente alla condizione orografica e territoriale), delineando anche i percorsi linguistici come rivelatori di civiltà. Introduceva quindi le antiche popolazioni, dai Siculi, agli Umbri, ai Pelasgi, ai Liguri, dei quali illustrava la confederazione, agli Orobi, agli Euganei, ai Veneti, ai Sabini, ai Piceni, ai popoli latini, Rutuli, Equi, Ernici, Volsci, Aurumei, Vestini, Marrucini, Marsi, Peligni, Sanniti, Campani, Enotri, Coni, Lucani, Iapigi. In questo quadro gli Etruschi rappresentavano il punto più alto della civilizzazione preromana. Un principio di rivoluzione si legava allo sviluppo di popoli, al definirsi di governi, leggi civili, religioni, usanze, costumi, organizzazione dell’agricoltura, modalità della guerra, della navigazione, del commercio, della monetazione, al diffondersi dell’arte e allo sviluppo della filosofia e della letteratura.
Nello stesso 1810 l’opera, il cui filo conduttore era l’esaltazione dell’identità repubblicana di piccoli Stati liberi contrapposti alla prepotenza di un grande Stato prevaricatore, ottenne su mandato dell’imperatore Napoleone Bonaparte il premio dell’Accademia della Crusca per la prosa. Lo dovette però dividere con altri vincitori (G.B. Niccolini per la tragedia, G. Rosini per la poesia, più una menzione per la Storia della guerra dell’indipendenza d’America di C. Botta e per le Grazie di A. Cesari), e ciò gli provocò un disappunto reso anche più forte dalle aspre critiche con cui U. Lampredi e L. Lamberti accolsero l’esito del concorso. Nel merito dell’opera entrò F. Inghirami che, con l’aiuto di Niccolini e di G.B. Zannoni, svolse una puntigliosa critica tanto al lavoro principale che all’Atlante, concludendo che l’«opera non fa onore all’Italia». Critici furono anche il giudizio privato di J.C.L. Sismonde de Sismondi, nel 1811, e quello di B. Niebuhr che stava lavorando alla Römische Geschichte, raccolta di lezioni berlinesi del 1811-12, che aprivano un vero e proprio filone alternativo di studi sulla storia romana, con differenze sostanziali rispetto al M. sulle specifiche questioni degli Enotri e dei Pelasgi, sull’origine degli Etruschi (toscana per il M., retica per Niebuhr), sulla loro lingua e sullo stato della civilizzazione.
Il 25 ott. 1820 il M. sposò Lucrezia Riccomanni; ormai divenuto fiorentino, fu attivo collaboratore dell’Antologia di G.P. Vieusseux sin dalla fondazione. I rapporti con Livorno, in parte legati alla vita del fondaco lasciato dal padre, morto nel luglio del 1821, furono critici nei confronti della locale borghesia dei negozi, ma restarono saldi con l’ambiente intellettuale, specialmente incarnato in quegli anni dal salotto di Angelica Palli, cui facevano capo anche C. Bini, Niccolini, F.D. Guerrazzi, G. Ricci, E. Mayer, A. Mustoxidi. Tra i suoi corrispondenti, personaggi come J.-J. Champollion Figeac, Stendhal, P. Giordani e tanti altri illustri intellettuali.
Forte delle sue illustri relazioni, nel 1821 il M. ripropose L’Italia avanti il dominio dei Romani, col corredo degli Antichi monumenti e con alcuni cambiamenti prima di tutto stilistici. Ma il contesto politico era mutato e fu A. Benci, amico e concittadino del M., a cogliere il punto fondamentale nella sua recensione sull’Antologia del febbraio 1822, indicando come l’opera sopperisse alla mancanza di «storie patrie». Con sapiente scelta dei brani, Benci, che pure dissentiva intorno alla questione dei Romani, metteva in luce dell’opera la convinzione contrattualistica della natura umana e l’«indomito sentimento di libertà» connaturato alle prime tribù italiche.
Questa seconda edizione fu recensita anche da un Sismondi rispettoso del grande lavoro di scavo e della serietà dell’intento, ma poco convinto della capacità dell’autore di trarre una verità storica dalla ricerca, viziata a suo dire da una parzialità di giudizio a favore dei vinti e a scapito dei vincitori romani. Una traduzione francese a cura e con note di R. Rochette, per l’editore Treuttel e Wurtz di Parigi (1824), destò forti perplessità in G. Montani che la stroncò nell’Antologia.
Insediato, dal febbraio del 1827, nella villa dell’Eremo dei Baroncelli, acquistata nella campagna fiorentina all’Antella, accademico corrispondente della Crusca dal 1829, impegnato in viaggi presso importanti intellettuali come C. Balbo e Ch. Boucheron, il M. poté constatare lo sviluppo dell’etruscologia, con i nuovi contributi di Inghirami e soprattutto di K.O. Müller, decisivo superamento dell’«etruscheria» astorica.
Mentre la seconda edizione della storia romana faceva conoscere Niebuhr in Italia, il M. lavorava a un’opera di ampio respiro, la Storia del commercio delle Repubbliche marittime italiane, intrapresa dopo lunghi preparativi, probabilmente pensando a Sismondi, ma lasciata cadere per far posto a una grande revisione della precedente pubblicazione. Ne derivò la Storia degli antichi popoli italiani, pubblicata in due volumi a Firenze nel 1832 con un nuovo atlante (Monumenti per servire alla storia degli antichi popoli italiani raccolti, esposti e pubblicati). Il decennio intercorso consentiva l’utilizzo di ulteriori elementi e un «più maturo giudizio». Opere come quelle di Niebuhr e di Müller erano esplicitamente citate dal M., quantunque convinto che l’Italia, per la «scienza delle sue nazionali istorie», non dovesse ricevere lezioni da alcuno studioso straniero. Altrettanto esplicito era il richiamo a Vico, che il M. collocava alla base della svolta fondativa della storia critica italiana.
Rispetto alla dissacrazione del 1810, si trattava ora di dare definizioni più positive aiutandosi con copiosa quantità di fonti, i circa 600 monumenti «nostrali» che, con l’accurata carta Italia antiqua cum insules disegnata dal d’Anville, impreziosivano l’Atlante. Quelle tavole servivano a una definizione culturale e sociale degli antichi Italici tra i quali assumevano ruolo ancor più rilevante gli Etruschi, vero e proprio fondamento della successiva civilizzazione romana.
La fama europea del M. cresceva. Recensendo l’opera nella Revue des deux mondes, H.-F.-R. de Lamennais ne collocava il rinnovamento metodologico in un vasto orizzonte storiografico europeo, riconoscendo il rigoroso intrecciarsi dell’esegesi con i contenuti morali, sociali e religiosi, e giudicava il Niebuhr debitore del Micali. Aggiungeva che lo studioso livornese, con A. Manzoni e S. Pellico, dimostrava essere l’Italia nazione non morta ma pronta al richiamo storico della provvidenza.
Ammesso nel 1833 come membro ordinario dell’Istituto di corrispondenza archeologica di Roma, in contatto con la Società del Gabinetto di Minerva di Trieste, nel nome di J.J. Winckelmann e della scienza archeologica, il M. prese a interessarsi, in sintonia con l’ambiente fiorentino, alle scuole infantili. A Vieusseux scrisse da Parigi, dove frequentava il salotto di Bianca Milesi Mojon, nel novembre del 1834, segnalando l’alta reputazione di F. Aporti e di R. Lambruschini e parlando dell’opera di Mary Edgeworth. Con Aporti si incontrò a Cremona l’anno seguente, in un viaggio che lo condusse anche a Milano e in Veneto. Nel gennaio del 1837, con E. Mayer e altri, si recò a Pescia per rendere omaggio a Sismondi, con il quale aveva non poche affinità. Fu ancora a Napoli, presso Ferdinando II, nel marzo di quell’anno, e a Padova nel 1839, entusiasta del prossimo congresso degli scienziati italiani rilevando tra i professori di quella università «il buon desìo che ho ritrovato in tutti di fare onore alla Italia».
Nel 1842 annunciò con entusiasmo da Roma a Vieusseux di aver trovato «copiose e importantissime aggiunte alla mia nuova opera». Si riferiva a una seconda edizione della Storia degli antichi popoli italiani che intendeva arricchire di fonti ulteriori e la cui uscita pubblicizzò nel 1843 con un manifesto che la definiva accresciuta per un quarto nel testo, con un atlante rinnovato e con un ulteriore volume di illustrazione storica e archeologica dei monumenti rappresentati. Tale edizione non vide mai la luce.
Il M. morì a Firenze il 27 marzo 1844.
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F. Bertini