MOLTENI, Giuseppe
– Nacque ad Affori, nei pressi di Milano, nel 1800 in una famiglia di umilissime origini («il padre di lui, umile oste»: Caimi, 1866-67, p. 6).
Grazie alla generosità della famiglia Brocca, si trasferì a Milano e nel 1815 si iscrisse all’Accademia di belle arti di Brera, frequentando le lezioni del professore di incisione Giuseppe Longhi, figura di spicco nella Milano napoleonica. Per ristrettezze economiche, il M. interruppe gli studi. Dapprima fu a bottega presso un certo Massinelli, restauratore e mercante d’arte; in seguito, per perfezionarsi, si trasferì a Bologna, da G. Guizzardi, famoso nell’ambiente artistico per i suoi interventi di tipo integrativo volti a migliorare l’aspetto estetico di un dipinto, valorizzandolo soprattutto sotto il profilo commerciale (il cosiddetto «restauro amatoriale»). Nel 1824 il M. tornò a Milano e aprì uno studio in contrada Tre Monasteri che diventò, negli anni, un luogo d’incontro e un punto di riferimento imprescindibile per viaggiatori, conoscitori, direttori di musei, collezionisti, critici e artisti di tutta Europa. Un luogo (una sorta di museo ricolmo di oggetti d’arte, di trofei di armi antiche) dove venivano discusse – come ricordano numerosi aneddoti – le attribuzioni, le valutazioni di molti dipinti, soprattutto del Quattro e del Cinquecento italiano, presenti nello studio o perché in corso di restauro o per essere venduti o anche semplicemente trattenuti (a volte per lunghi periodi) in attesa della necessaria licenza di esportazione.
Fra le numerose frequentazioni, quella di sir C. Eastlake, conservatore e in seguito direttore della National Gallery di Londra (1855), fu certamente la più prestigiosa. Eastlake ebbe con il M. un intenso sodalizio umano e professionale che fu poi ampliato al suo stretto collaboratore, lo storico dell’arte tedesco O. Mündler, travelling agent per conto del governo inglese e prima ancora francese, un personaggio temuto dall’amministrazione austriaca per la preoccupazione che egli potesse farsi tramite di vendite clandestine. Sir Eastlake, anch’egli pittore e con un’esperienza di restauratore alle spalle, preferì fare restaurare le opere che via via acquistava in Italia dal M., di cui apprezzava la perizia tecnica e del quale condivideva la metodologia, che era sostanzialmente quella di ricomporre l’unità formale dell’opera d’arte, correggendo, nel caso, imperfezioni o presunti difetti. In tutto, sono una trentina i quadri presi in carico dal M. per ordine della National Gallery.
Se molto è noto della sua pratica di restauro, quasi nulla si conosce, invece, circa l’organizzazione del suo studio che nel giro di pochi anni si trasformò in un atelier di pittura, «convegno di quanti avevano in pregio le produzioni della pittura antica, o si interessavano al movimento commerciale di esse, che già a quei tempi avea preso un assai rilevante sviluppo, e tale da giustificare le allarmanti previsioni di chi temeva veder per esso depauperato il paese nostro delle preziose opere dei vecchi maestri» (Caimi, 1866-67, p. 11). È noto che a metà degli anni Trenta fu ospitato nello studio, in veste di collaboratore, M. D’Azeglio, con il quale il M. dipinse, nel 1835, il celeberrimo Ritratto di Alessandro Manzoni (Milano, Biblioteca nazionale Braidense).
Nel corso di un viaggio in Emilia (1825) conobbe a Parma P.Toschi, affermato incisore, conoscitore e direttore dal 1820 della locale Accademia di belle arti, con il quale si legò di un’intensa amicizia che durò tutta la vita. Qualche anno dopo Toschi lo presentò alla duchessa di Parma, Maria Luigia d’Austria (1829), che da subito ne apprezzò la pittura e lo nominò accademico d’onore, quindi cavaliere corrispondente (1831), e nel 1833 lo insignì della croce dell’Ordine Costantiniano di Parma. È verosimilmente grazie al suo appoggio che il M. nel 1836 fu incaricato dal governo del Lombardo Veneto di dipingere il Ritratto di s.m. l’imperatore Ferdinando I d’Austria (Milano, Accademia di belle arti). Si recò, quindi, a Vienna, dove realizzò altre opere per una clientela prestigiosa.
Fece i ritratti del cancelliere K.W.L. Metternich e del ministro degli Interni F.A. Kolowrat, grande collezionista di pittura italiana moderna che nel 1837 gli commissionò un’opera destinata a segnare un vero spartiacque nella sua produzione pittorica. Si tratta dello Spazzacamino assiderato dal freddo (Milano, Accademia di belle arti) di cui esistono numerose varianti. Con questa tela, acclamata dalla critica e dal pubblico delle esposizioni che seguiva con grande passione le rassegne annuali a Brera (un vero e proprio fenomeno culturale), il M. abbandonò la formula consolidata del ritratto ambientato o «istoriato» (i cui precedenti si ritrovano in P. Pelagi) per dedicarsi alla pittura di genere, ma non secondo le modalità della produzione d’Oltralpe, con raffigurazioni di scene, spesso giocose, al limite del grottesco. Il M. scelse una rappresentazione tesa a dare dignità alla vita quotidiana, al mondo dei diseredati (al pari della pittura di storia), con un preciso riferimento figurativo all’arte spagnola del Seicento. Una pittura di denuncia che rimandava a suggestioni manzoniane e che si rifaceva al dibattito critico sollecitato in particolare da P. Estense Selvatico, che in quello stesso 1837 aveva pubblicato a Milano Considerazioni sullo stato presente della pittura storica in Italia e sui modi di farla maggiormente prosperare e Sulla convenienza di trattare in pittura soggetti tratti dalla vita contemporanea.
Nella Milano romantica il paragone tra la produzione ritrattistica del M. e quella di F. Hayez (mentre la rivalità con P. Pelagi risaliva ai primi anni Venti) è un tema dominante che trova riscontro nella pubblicistica coeva: «Se i ritratti di Molteni trovarono il massimo numero di lodatori, quelli dell’Hayez ebbero il massimo numero di ammiratori […]. Il pennello del Molteni ricerca per l’incisione, quello d’Hayez studia le più singole parti» (G. Sacchi, Esposizione di belle arti, in Il Nuovo Ricoglitore, 1829, p. 725). Al M. mondano, seducente, «astro nascente» della ritrattistica, veniva contrapposto un Hayez dai toni meno accattivanti, più intimisti.
Sebbene già dal 1827 l’atelier del M. fosse menzionato nelle guide dei viaggiatori, l’inizio della sua attività artistica, e di ritrattista in particolare, viene fatta coincidere con la sua prima partecipazione all’esposizione dell’Accademia di belle arti a Milano (1828, con sette ritratti). Una presenza da allora costante e ininterrotta fino al 1846, con in molti casi la presentazione di un numero straordinario di dipinti (diciannove nel 1829, tra cui il celebre Ritratto di Giuditta Pasta, Milano, Pinacoteca di Brera, e ventuno nel 1830). Un ritorno del M. alla rassegna braidense si ebbe, poi, nel 1850, anno nel quale il M. espose anche all’Accademia di belle arti di Venezia e alla Società promotrice di belle arti di Torino. E ancora fu presente a Brera nel 1852, con La zingara (Milano, collezione privata), considerata dalla critica il «suo capolavoro e testamento artistico» (Mazzocca, 2000, p. 27).
La tela è stata rinvenuta di recente (come tante altre), in occasione della mostra dedicata al M. (2000), nella quale si è avuto modo di ripensare a tutta la sua molteplice attività: da restauratore (mestiere intrapreso da giovanissimo e portato avanti fino all’anno della morte, con incarichi prestigiosi); a pittore, corteggiato e richiesto da una clientela internazionale; a uomo di museo (nel 1855 il M. fu nominato conservatore della Pinacoteca di Brera e nel 1861 direttore); ad accademico (nel 1850 ricevette la nomina di consigliere dell’Accademia di belle arti di Brera, ma già nel 1848 faceva parte della Commissione di pittura – presieduta da G. Mongeri, segretario, e composta da altri artisti, G. Bisi, M. Bisi e G. Soavi – che aveva, fra i compiti istituzionali, anche quello di effettuare un primo «scarto» dei dipinti della imponente collezione Pietro Oggioni donata all’Accademia). Infine, il M. fu consigliere di collezionisti, direttori di musei, conoscitori, mercanti d’arte e collezionista egli stesso.
Grazie al Regesto delle opere curato da Rebora (in Mazzocca, 2000), si dispone oggi di un elenco che ricostruisce la multiforme produzione artistica del M. – dai ritratti alle scene di genere, ai lavori di soggetto sacro e di carattere decorativo, alle copie dall’antico – che permette di risalire anche all’identità dei committenti. Attualmente numerosi dipinti si conservano in musei e raccolte pubbliche, tanti altri in collezioni private. Parecchie opere sono, invece, ancora irreperibili, molte delle quali note attraverso i cataloghi delle numerosissime rassegne italiane e internazionali alle quali il M. partecipò e di cui Segramora Rivolta ha filologicamente ricostruito l’iter (2000). Ed è grazie allo spoglio sistematico di questi cataloghi che è stato ritrovato, sulle tracce anche della critica militante coeva, il Ritratto di Gioacchino Rossini, commissionato dalla contessa Amalia Barbiano di Belgiojoso Canziani (1834, Milano, collezione privata), segno di quel grandissimo interesse che animava la famiglia Belgiojoso per la musica, come del resto gran parte della Milano romantica.
A partire dal 1855 il M., accettando la carica di conservatore delle II.RR. Gallerie dell’Accademia di Brera, rinunciò gradualmente all’attività di pittore (mai interrotta del tutto per la verità) per dedicarsi, come scrisse al presidente dell’Accademia Carlo Barbiano di Belgiojoso, «all’arte del restauro alla quale si consacravano coi miei studi i migliori anni della mia vita» (Milano, 27 giugno 1856; Milano, Soprintendenza per i Beni storici artistici ed etnoantropologici, Archivio vecchio, parte II, f. LIV). Fu una svolta importante. Per statuto, l’incarico di conservatore prevedeva la collocazione e la conservazione dei dipinti, oltre l’ordinaria manutenzione. Furono compiti dal M. eseguiti con determinazione, denunciando da subito le difficoltà. È il caso, per esempio, del suo intervento indirizzato alla presidenza dell’Accademia, col quale rimarcò la carenza cronica di finanziamenti per gli interventi di restauro, impossibili soprattutto a causa della mancanza di personale (ibid.).
Quattro sono i punti centrali del suo lavoro. Una politica di restauri, con la creazione di un laboratorio all’interno della galleria; una revisione patrimoniale, con la redazione di elenchi delle opere di proprietà demaniale, richiesti dal ministero nel febbraio 1861, operazione che implicava contestualmente la revisione dei depositi; una politica di acquisti per incrementare il patrimonio della pinacoteca secondo un preciso indirizzo, che era la valorizzazione della Suola rinascimentale lombarda, per il M. ancora troppo poco rappresentata; e infine, il tentativo di far confluire a Brera opere, soprattutto di questo ambito, collocate presso le chiese, o perché lì depositate nei decenni precedenti o perché, seppure non di proprietà demaniale, era necessario recuperarle per valorizzarle e toglierle da luoghi umidi e disagevoli. Il ruolo di conservatore della Pinacoteca e quello di segretario dell’Accademia (affidato a G. Mongeri dal 1855 al 1859) erano in molti casi sovrapponibili. La mole dei documenti è oltretutto enorme, suddivisa per lo più in tre archivi milanesi: quello dell’Accademia, quello della Pinacoteca e l’Archivio di Stato. Come esempio emblematico si ricorda la proposta di allestimento di una sala, la «tribuna» (luogo deputato all’esposizione dei capolavori), dove avrebbe dovuto campeggiare lo Sposalizio della Vergine di Raffaello, insieme con altri nove dipinti. Il progetto, non decollato per motivi economici, faceva parte di un più globale riordinamento della pinacoteca, di cui parla per la prima volta il M. a un anno dal suo incarico, il 31 luglio 1856 (ibid.).
Fondamentale è il ruolo della «Commissione di pittura» di cui facevano parte sia il M. sia Mongeri.
Era un organismo collegiale in cui venivano affrontate moltissime questioni, tra le quali, oltre quelle citate, la valutazione sulle proposte di esportazione dei dipinti; la scelta dei lavori da realizzare nelle parrocchie lombarde; le perizie su opere che avrebbero potuto essere alienate e, certamente l’episodio più straordinario, il restauro della tavola dello Sposalizio della Vergine, commissionato al M. nel luglio 1856. L’intervento, collaudato dalla Commissione il 2 luglio 1858, fu il più importante fra quelli realizzati dal M. che in parecchi lavori, come è noto, si avvalse dell’aiuto del cognato Alessandro Brison. Infine, va ricordata la lunga collaborazione del M. con G. Poldi Pezzoli (dal 1853 al 1865), per il quale restaurò ben quarantanove dipinti di cui rimane traccia in un importante documento contabile che permette di attestare le opere presenti in quegli anni nella collezione.
Il M. morì a Milano l’11 genn. 1867.
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