MONTI, Giuseppe
MONTI, Giuseppe. – Nacque a Fermo il 4 gennaio 1835 da Benigno e da Brigida Billé.
Fu educato ai valori cristiani da «pii e buoni genitori» (Cronaca contemporanea, 1868, p. 617) e formato dai gesuiti. Apprese dal padre il mestiere di muratore e venne impiegato giovanissimo nel cantiere presso il palazzo della delegazione apostolica fermana, aderendo contestualmente ai principi liberali e alla «causa nazionale » (Leti, 1911, p. 329). Sfidando grandi pericoli, riuscì a tenere corrispondenza con Giuseppe Casellini, Ignazio Rossetani e gli altri patrioti fermani condannati e rinchiusi in regime di segregazione assoluta nelle carceri di Sant’Antonio. A 24 anni si trasferì a Roma dove si sposò con Lucia Casali: dal matrimonio nacquero tre figli, la primogenita Paolina e due maschi, di cui l’ultimo, Ciro, nato agli inizi del 1867. Lavorò come capomastro, entrando in contatto con i circuiti cospirativi e affiliandosi a una setta carbonara nei primi anni Sessanta. Le fonti lo descrivono come «uomo di belle forme», dall’espressione virile e di buon carattere, indefesso nel lavoro e modesto. Nell’autunno 1867 lavorava in una fabbrica nelle vicinanze della Longara. La sua fama è legata all’attentato, compiuto insieme a Gaetano Tognetti a Roma, il 22 ottobre 1867, contro la caserma Serristori, in Borgo Santo Spirito, abitata dagli zuavi pontifici, nell’immediata vigilia dell’insurrezione capitolina.
Il 23 ottobre una settantina di garibaldini, guidati da Giovanni ed Enrico Cairoli sbarcarono sul Tevere in una villa di proprietà Glori, ai Parioli, con un carico di armi destinato ai cospiratori romani: scoperti, furono affrontati l’indomani da un reparto di svizzeri e nello scontro perì Enrico Cairoli, mentre il fratello morì due anni dopo in seguito alle ferite riportate. Altro combattimento si verificò, il 25 ottobre, nei pressi del lanificio di Giulio Ajani, in via della Lungaretta: tra i cospiratori asserragliati con armi ed esplosivi perse la vita anche Giuditta Tavani Arquati, vivace incitatrice dei rivoluzionari.
Facendo saltare in aria la caserma Serristori si toglieva un presidio nevralgico alle milizie pontificie e si intendeva agevolare la conquista dell’area da parte dei rivoltosi, che si sarebbero potuti facilmente impadronire della zona vaticana. L’operazione richiedeva particolare audacia e fu Monti, una volta che i congiurati riuscirono ad introdursi in un magazzino sottostante la caserma e a collocare due barili di polvere esplosiva, a innescare la miccia. L’esplosione provocò un boato dirompente e distrusse un’intera ala dell’edificio: l’opera di soccorso continuò per diverse ore e coinvolse la stessa popolazione del posto. L’attentato provocò complessivamente 27 vittime, di cui 23 militari (nove soldati italiani della fanfara del reggimento, otto francesi, uno belga e uno austriaco, più altri militi deceduti in seguito alle ferite riportate) e quattro civili. Subito arrestati, Monti e Tognetti furono processati dal tribunale della Sacra Consulta per delitto di lesa maestà: condannati a morte, non fecero domanda di grazia ma l’esecuzione, sotto la spinta delle polemiche innescate dall’opinione pubblica liberale e di una lettera di Vittorio Emanuele II, scritta con tono amaro e di rimprovero, venne rimandata per diversi mesi. Pio IX esitava nell’esecuzione, ma alla grazia si opposero molteplici considerazioni.
Reclamavano giustizia le famiglie romane delle vittime e i commilitoni dei francesi caduti. La lettera del sovrano italiano, scritta il 19 novembre 1868, era stata presentata dal conte Alessandro Fè d’Ostiani, il quale avrebbe dovuto implorare la grazia per i due carcerati, ma non lo fece. La stampa liberale si scagliò violentemente contro Pio IX e lo stesso Carducci si unì al coro, presentando il pontefice come «belva assetata di sangue». Particolarmente diffusa era negli ambienti vaticani la preoccupazione che il perdono potesse essere interpretato come concessione al radicalismo laico e massonico, in considerazione anche dei numerosi condannati politici rinchiusi nelle carceri romane. Tuttavia, sembra che si rivelarono decisive argomentazioni di carattere religioso, tipiche di quella religiosità propria degli ambienti curiali e figlia della cultura della restaurazione, cui il papa era stato educato, che non distingueva «il piano politico e quello religioso, necessità politiche obiettive e valori soprannaturali » (Martina, 1990, p. 47). È stata, infatti, raccolta (e divulgata dal confratello padre Martino del Volto Santo) la testimonianza del passionista padre Giuliano della Madre di Dio – al secolo Antonio Brezza (1816-84), uomo semplice e ardente, abituato a predicare ai militari pontifici – che assistette al patibolo Monti e gli disse che il papa avrebbe voluto concedere la grazia, ma per salvare l’anima sua e di Tognetti aveva creduto meglio negarla.
Monti scrisse una lettera a Pio IX in cui domandò perdono «della Fellonia e Assassinio da me commesso» e gli affidò il più piccolo dei suoi figli, di soli 20 mesi: il pontefice, sulla base dei desiderata del condannato, fece pubblicare la missiva solo dopo l’esecuzione. Il 16 ottobre 1868 i due rivoluzionari furono condannati «alla morte d’esemplarità». Secondo le fonti ecclesiastiche sia Monti, «soprastante muratore», sia Tognetti, «garzone muratore», dopo aver ricevuto la notizia della pena, furono assistiti da un gesuita e da un passionista, si confessarono, assistettero a due messe e ricevettero la comunione, «con compunzione ed edificazione di tutti gli astanti». Ascoltarono, infine, una terza messa e poi furono condotti sul luogo del patibolo, in piazza dei Cerchi. Monti fu il primo ad affrontare la morte e il suo ultimo atto fu quello di chiedere perdono al colonnello degli zuavi Athanase de Charette «pei danni, per l’eccidio e per l’offesa recata al suo Corpo», imitato in ciò dal compagno (Cronaca contemporanea, 1868, p. 618). La sentenza venne eseguita per decapitazione con ghigliottina alle sette di mattina del 22 ottobre 1867.
In carcere Monti aveva scritto alla moglie, al figlio Ciro e ai genitori e realizzato un breve manoscritto sugli eventi che lo avevano portato al supplizio, manoscritto consegnato al carceriere Colombo Pozzi affinché lo facesse avere agli amici; il testo giunse alla fine nelle mani dell’Associazione fra i processati e condannati politici dell’ex governo pontificio e lo storico Giuseppe Leti fu tra i primi a utilizzarlo e a riprodurlo.
Subito dopo l’esecuzione i patrioti napoletani affissero sul muro esterno del convento di S. Maria Nuova un’iscrizione dettata da Paolo Emilio Imbriani. Il presidente del Consiglio italiano, Luigi Federico Menabrea, affermò che la notizia della sentenza «ci aveva dolorosamente contristati», avendo sperato sino alla fine in un atto di clemenza per risparmiare la vita «a quei due infelici» (Leti, 1911, p. 714). Gli ambienti laici e patriottici fecero subito di Monti e Tognetti due eroi, anche in seguito all’ode composta, il 30 novembre 1868, da Carducci in onore dei «martiri del diritto italiano» e alla pubblicazione, nel 1869, del romanzo di Gaetano Sanvittore I misteri del processo Monti e Tognetti. Più in generale, l’episodio è stato correlato alle forti critiche di cui è stato oggetto il pontificato di Pio IX. A Senigallia, il 13 maggio 1894, allorché si festeggiò con due anni di ritardo, il primo centenario della nascita del Mastai, l’imponente folla che, dopo la solenne funzione in Duomo, attendeva lo scoprimento di una lapide per ricordare il famoso concittadino, si trovò di fronte a un’epigrafe, preparata dai sovversivi locali, nella quale il pontefice veniva definito «carnefice di Monti e Tognetti e del suo concittadino Girolamo Simoncelli», leader politico e militare della Senigallia repubblicana, ingiustamente condannato a morte con accuse pretestuose e fucilato il 2 ottobre 1852.
La vicenda è tornata in auge in seguito all’uscita del magistrale film di Luigi Magni (In nome del papa re, 1977, che mescola realtà storica e fantasia) e alle polemiche che hanno accompagnato, nel 2000, la conclusione del lungo processo di beatificazione del pontefice senigalliese. Da una parte, lo scrittore cattolico Vittorio Messori ha ribadito la regolarità del processo e della condanna, sottolineando che il papa era propenso a concedere la grazia, ma ne fu impedito dalla ferma protesta «dei francesi e dai parenti delle innocenti vittime romane»; dall’altra, Indro Montanelli, pur confermando la liceità giuridica della condanna, ha sottolineato la particolarità di una sentenza di morte emessa dallo Stato pontificio e la definizione di «forca anticristiana», poiché solo «Dio ha il potere di concedere e di togliere» la vita (Montanelli - Messori, 2000). Questa posizione ricalca quella dell’avvocato e scrittore Carlo Snider (1992, p. 151) che ha evidenziato come l’impressione determinata dalla condanna di Monti e Tognetti risieda non già nella «negazione della grazia ai condannati», bensì nella difficoltà a comprendere e ad accettare oggi la figura di un pontefice che «come sovrano temporale dispone del potere di vita e di morte» (Tornielli, 2004, p. 470).
Fonti e Bibl.: Archivio di Stato Roma, Tribunale S. Consulta, b. 281; Biblioteca Civica Romolo Spezioli Fermo, Fondo Fracassetti, scheda biografica di G. D.; Cronaca contemporanea, in Civiltà Cattolica, s. VII, IV (1868), pp. 616- 618; G.G. Franco, Relazione degli ultimi giorni di G. M. e G. Tognetti giustiziati a Roma il dì 24 novembre 1868, ibid., pp. 723-741; G. Carducci, Per G. M. e Gaetano Tognetti martiri del diritto italiano, 30 novembre 1868, in Id., Poesie, Bologna 1937, pp. 430-437; G. Sanvittore, I misteri del processo M. e Tognetti, Milano 1869; G. Leti, Roma e lo Stato Pontificio dal 1849 al 1870, Ascoli Piceno 1911, ad nomen; M. Rosi, Il processo M. e Tognetti, in Dizionario del Risorgimento Nazionale, I, I fatti, Milano 1933, pp. 713-714; P. Pirri, Pio IX e Vittorio Emanuele II dal loro carteggio privato, Roma 1945-61, III, I, pp. 193-194; Storia del Fermano. Dalla Restaurazione alla Comune, Venezia 1971, pp. 232-233; Fermo leggenda di una città. Antologia storica fermana, Fermo 1974, passim; G. Martina, Pio IX, III, Roma 1990, pp. 42- 47; C. Snider, Pio IX alla luce dei processi canonici, Città del Vaticano 1992, p. 151; I. Montanelli - V. Messori, M., Tognetti, Pio IX e la pena di morte, in Corriere della Sera, 16 settembre 2000; A. Tornielli, Pio IX. L’ultimo papa re, Milano 2004, pp. 468-470; M. Gasparrini, Invocato il santissimo nome, Roma 2005; M. Severini, Girolamo Simoncelli, La storia e la memoria, Ancona 2008, p. 71; Id., La Repubblica romana del 1849, Venezia 2011, p. 184.