NICOLOSI, Giuseppe
NICOLOSI, Giuseppe. – Nacque a Roma, il 14 dicembre 1901, secondogenito di Venerando e di Elena Lugari, donna sensibile e devota (era terziaria francescana) che trasmise ai figli l’interesse per il pensiero e l’arte oltre che profondi valori umani e religiosi.
Compì studi umanistici e conseguì la maturità classica presso il collegio S. Maria in viale Manzoni. Nel 1924 si laureò a pieni voti alla Regia Scuola di ingegneria e l’anno successivo intraprese la carriera accademica come assistente volontario di Gustavo Giovannoni alla cattedra di Composizione architettonica, ruolo che mantenne continuando a collaborare, dal 1926 al 1937, con Arnaldo Foschini.
Furono questi i suoi maestri: dal primo mutuò l’attitudine all’ascolto attento dei luoghi e apprese la nozione di ambiente urbano, quale palinsesto sviluppatosi nel corso del tempo attraverso una coralità di apporti differenti; dal secondo derivò la propensione per un linguaggio architettonico improntato a un estremo rigore e all’astrazione della forma.
Nel 1924 avviò la pratica professionale entrando a collaborare nello studio di Alberto Calza Bini, che avendone constatato le doti artistiche e le capacità operative, gli affidò l’incarico del restauro della chiesa e del collegio di Alvito (Caserta), per poi introdurlo, l’anno successivo, all’interno dell’ICP (Istituto per le case popolari), del quale era direttore. In questa sede, dapprima come dipendente e a partire dal 1936 come consulente esterno, ebbe modo di portare avanti una approfondita indagine attorno al tema della residenza popolare, vero e proprio fulcro attorno al quale avrebbe dipanato larga parte della propria ricerca progettuale.
Nel 1926 redasse il progetto per un fabbricato intensivo in via degli Ausoni e nel 1928 portò a termine, all’interno del lotto 51 della Garbatella – la borgata costruita negli anni Venti sul modello delle garden-cities d’Oltremanica – l’edificazione di un complesso di cinque edifici residenziali.
In questi interventi, come nel precedente progetto messo a punto in occasione della partecipazione al concorso per la Casa dei dipendenti comunali in via Terni (1925) e nella costruzione del villino Ramazzotti sulle pendici dell’Aventino (1927), si mosse nel solco di quel classicismo sintetizzato che rileggeva il portato della tradizione, distillandone le forme e astraendone gli elementi. Sulla scorta della lezione di August Choisy, continuava a concepire il manufatto edilizio come un organismo architettonico del quale esaltava il valore della massa muraria e l’articolazione struttiva.
Con la partecipazione, nel 1928, alla I Esposizione italiana di architettura razionale, dove presentò un progetto per ‘La casa moderna’, abbandonò definitivamente ogni riferimento al linguaggio classico, per adottare con convinzione gli elementi dell’architettura funzionale. L’impiego delle nuove tecnologie costruttive e quindi la scissione tra lo scheletro strutturale in calcestruzzo armato e le tamponature leggere in mattoni forati, l’utilizzo di superfici vetrate e di elementi lineari in ferro per i parapetti delle solette in aggetto costituirono gli elementi di una rinnovata poetica che innervò gli edifici residenziali portati a termine nel 1930 all’interno del lotto 27 della Garbatella e presentati nel 1933 alla V Esposizione triennale internazionale delle arti decorative industriali e dell’architettura moderna di Monza.
Nel 1931 a seguito dell’accesissima polemica scoppiata attorno all’architettura razionale e all’incresciosa vicenda del ‘Tavolo degli orrori’ – l’irriverente collage, presentato alla II Esposizione di architettura razionale, con il quale i giovani avanguardisti sbeffeggiarono le opere degli accademici, additandole pubblicamente come negative – aderì al RAMI (Raggruppamento architetti moderni italiani), sorto in aperta opposizione alle radicali proposte avanzate dal MIAR (Movimento italiano architettura razionale), e con Luigi Ciarrocchi, Mario De Renzi, Mario Marchi, Luigi Moretti, Mario Paniconi, Giulio Pediconi, Concezio Petrucci, Mario Serio, Mosè Tufaroli firmò l’articolo Per la nuova architettura italiana (apparso sulle pagine de Il Tevere il 2 maggio 1931), a tutti gli effetti il manifesto programmatico del gruppo.
Coniugando le istanze e i temi portati avanti in ambito europeo con i fondamenti della cultura architettonica romana – chiarezza dell’impianto e simmetria della composizione – approntò con Paniconi e Pediconi la proposta di concorso per il palazzo degli uffici del ministero dei Lavori pubblici bandito a Bari nel 1931 (dove ottenne il 1° premio ex aequo) e mise a punto con Carlo Roccatelli il progetto per un gruppo di villini a Ostia Lido (1932).
La sua adesione al razionalismo fu sempre mediata da una profonda riflessione sui problemi reali legati all’abitare e ai termini concreti della produzione edilizia. Oltre ogni sterile standardizzazione e ogni equivoco legato a una malintesa accezione di economia, affermò sempre con convinzione i valori insiti nel fare architettonico, la varietas e la forma: «Nei casi in cui una pluralità di tipi possa non nuocere alla bontà, all’economia e alla commerciabilità della produzione, l’uniformare a pochi tipi non risponde più ad una necessità reale, ed il perseguirla e il predicarla è il segno che alla mentalità realistica del tecnico si è sostituita quella letteraria e simbolica che crea necessità e opportunità inesistenti al solo scopo di confermare teorie aprioristiche» (La standardizzazione, 1936, p. 5).
Alla metà degli anni Trenta portò a termine a Latina e a Guidonia, le città nuove dell’Agro pontino e romano, un consistente numero di case per alloggi popolari, diversificando gli impianti tipologici e variando l’articolazione degli impaginati prospettici. Di Guidonia stese anche il piano di fondazione in collaborazione con Giorgio Calza Bini e Gino Cancellotti (1936). Fu quello l’esito operativo di un’intensa attività svolta in campo urbanistico a partire dal 1927 quando, aderendo al GUR (Gruppo urbanisti romani) prese parte a numerosi concorsi nazionali per la redazione dei piani regolatori di varie città, i nuovi strumenti per il controllo e lo sviluppo del territorio, riportando vittorie e riconoscimenti (Brescia, 1927: 2° premio; Arezzo, 1929: 1° premio; Pisa, 1931: 3° premio; Perugia, 1934: 3° premio; Cagliari, 1939: 1° premio).
A Guidonia, facendo riferimento al modello classico delle piazze italiane che Giorgio De Chirico aveva traslato in una dimensione metafisica, mise a punto con Giorgio Calza Bini l’impianto generale della piazza del Comune e progettò il municipio (1936), trasfigurando l’impaginato prospettico del palazzo ducale di Venezia: la massa muraria alleggerita dalla tessitura diagonale del rivestimento lapideo sospesa al di sopra di una profonda fascia d’ombra.
Con Roberto Nicolini portò a termine alcune delle borgate destinate ad accogliere la massa di sfollati prodotta dalle demolizioni avviate per il risanamento del centro urbano: il Tiburtino III (1935-37), il Trullo (1939-40) e il villaggio Breda (1940-42 e completato poi nel 1948).
Ribaltando le proposizioni antiurbane e le propensioni ruraliste espresse dal fascismo, recuperò i topoi della città consolidata – il viale con la continuità delle quinte murarie, l’invaso della piazza, allineamenti e fondali prospettici – e, in luogo della varietas che connotava le borgate giardino, improntò gli impaginati prospettici al più assoluto rigore: nette superfici d’intonaco ritmate dalla reiterazione delle bucature.
Nel secondo dopoguerra dette seguito all’indagine e alla sperimentazione nel campo dell’edilizia residenziale pubblica avviando una prolungata collaborazione con l’INA Casa; facendo uso di ridottissime risorse economiche riuscì a dimostrare come «l’organismo costruttivo, anche se costituito di soli elementi della necessità e dell’utilità, diviene architettura (anche se nel piano della più modestia edilizia) allorché tutto il suo complesso diviene attuazione di un sentimento» (Estetica e storiografia, 1950, p. 16). Nei modesti ma sapienti edifici che portò a termine agli inizi degli anni Cinquanta presso il quartiere Tuscolano, soluzioni costruttive, schema distributivo e definizione formale trovarono il punto di equilibrio nella loro perfetta e reciproca interrelazione. Nell’edificio per abitazioni e uffici a Cassino (1953) esplicitò la differenziazione funzionale dell’organismo architettonico e, facendo riferimento alla ricerca di Le Corbusier, predispose una via pensile al primo piano per l’accesso agli appartamenti, di cui alcuni ripartiti su due piani.
A cavallo degli anni Cinquanta impresse una radicale svolta alla ricerca progettuale. Lasciate le astratte certezze del razionalismo, tornò a sottolineare il gioco del peso e delle forze che innervano le costruzioni, riscoprendo la solidità della muratura e la scabrosità della materia.
«Nel periodo razionalistico la fede in una idealità astratta, a priori, nei principi di razionalità teorica, ha compromesso la piena aderenza alla vita e alla tecnica, che pur era nei programmi enunciati. La pretesa di inquadrare razionalmente le esigenze così complesse e vaste della vita ha provocato l’espediente di sostituire alla realtà troppo complessa una sua immagine semplificata e di porre questa, anziché quella, più remota, di una compiuta rispondenza umana, come ha reso paghi della produzione in serie, dell’uniformità anonima, così ha consentito l’insorgere della poetica del volume puro e gelido, della geometria rigorosa, della continuità tra spazio interno e spazio esterno, trascurando l’esigenza che lo spirito – se non la respirazione e l’igiene – reclama, della chiusa difesa dell’interiorità e dell’individualità irripetibile della casa […]. A questo distacco dalla vita corrisponde, nel razionalismo, analogo distacco dalla verità costruttiva: l’astrazione geometrica riduce ad un semplice piano l’intradosso delle strutture orizzontali, ripudia il tetto anche nei climi che lo richiedono, e predilige l’intonaco che, velando i materiali e nascondendone le differenze, pone in maggior evidenza la unità e purezza stereometrica e geometrica» (Nuove tecniche, 1961, p. 8).
Questa palingenesi coincise con l’avvio di una profonda indagine attorno al tema del sacro. Nel 1946, a Frascati, conformò la solida facciata della chiesa di S. Giuseppe Calasanzio, esaltando, con afflato romanico, i valori della gravitas e della concinnitas. Ripropose la dicotomia tra la solidità litica della facciata e il congegno strutturale di elementi cementizi all’interno dell’invaso anche nei progetti per la chiesa parrocchiale di S. Giovanni Battista a Sant’Angelo in Theodice (1946-47), risolta nei termini minimi dell’architettura minore, e per la chiesa del Ss. Salvatore nel rione Tre Molini a Reggio Calabria (1948), connotata da una sobria magniloquenza di ascendenza novecentista. Nel 1953, a Spoleto, realizzò l’impianto cultuale a navata unica della chiesa parrocchiale di S. Sabino, all’interno del quale travalicò ogni rigidità stereometrica: sagomò le forme inclinando piani e rivestì le superfici di solida pietra per poi fenderle in profondità attraverso tagli verticali. A Terni, nella chiesa dell’Immacolata Concezione, rielaborò i termini dell’aula basilicale a tre navate ricorrendo alle tecnologie più avanzate. Articolò l’invaso dall’accentuato sviluppo verticale attraverso una duplice fila di alti setti cementizi. Coprì le basse navate minori con spioventi poggiati su mensole incastrate ai pilastri mediani così da illuminarle attraverso un’asola continua di luce. Nella chiesa di S. Policarpo, eretta a Roma tra il 1960 e il 1967, mise a punto un sofisticato organismo architettonico a pianta centrale – ossessione figurativa per decenni indagata da Saverio Muratori – impostato sulla figura geometrica dell’esagono.
Cooptato dal rettore dell’Università di Perugia, Giuseppe Rufo Ermini, nella realizzazione dell’ambizioso programma edilizio che prevedeva la realizzazione di tutte le strutture necessarie all’Ateneo umbro, in aperta opposizione rispetto all’atopia promossa dalle visioni utopiche procedette per singoli interventi circoscritti e delimitati, sempre ricercando con pervicacia le intime ragioni del radicamento nel territorio: restaurò e riconverti antichi edifici del capoluogo umbro per adeguarli alle inedite funzioni – la facoltà di magistero (1965), l’istituto di archeologia in via dell’Aquilone (1967) – e inserì, quali preziosi cammei, nuovi fabbricati – biblioteca universitaria (1950), facoltà di scienze matematiche fisiche e naturali (1959), aula di anatomia patologica (1963) – negli interstizi del fitto tessuto edilizio. Nell’edificio dell’Aula Magna trasfigurò l’immagine della basilica ecclesiastica per conferire una dimensione aulica alle solenni riunioni e ai rituali fondanti dell’istituzione accademica.
Ebbe modo in più occasioni di intervenire all’interno degli antichi centri urbani della provincia italiana, dimostrando come il rispetto del luogo fosse nettamente distinto dal mimetismo, ma passasse per una profonda comprensione dell’ambiente antropizzato.
La sommatoria di quegli interventi disseminati per lo più lungo le colline umbre rappresentò sostanzialmente la lezione romana riguardo all’inserimento del nuovo all’interno di contesti urbani consolidati, parallela all’impianto teorico delle preesistenze ambientali messo a punto da Ernesto Nathan Rogers in ambito lombardo e propagandato sulle pagine di Casabella-Continuità.
A Spoleto, nel 1953 portò a termine con consumata maestria e estrema accortezza la sistemazione di piazza Duomo e di via dell’Arringo. Nell’albergo dei Duchi (1957) rilesse la stratificazione diacronica del tessuto edilizio, riuscendo a restituirne l’immagine nella razionale esplicitazione dell’impianto distributivo dell’edificio, che attraverso il sapiente uso degli elementi costruttivi (apparecchiatura muraria in pietra, ossatura in calcestruzzo armato, tamponature di mattoni, superfici vetrate) e il loro sofisticato accostamento inserì organicamente nel clima ambientale della cittadina.
A Pavia, nel 1962, seppe inserirsi con intelligenza all’interno della piazza grande dominata dall’emergenza monumentale del Broletto: sottrasse all’edificio della Banca popolare di Novara ogni principio di frontalità prospettica rispetto all’antistante vestigia dell’età signorile e ne articolò la facciata con una fitta reiterazione di bucature in continuità con edilizia minore circostante, affermando così «l’idea di un valore emergente dall’insieme di fatti anche insignificanti se considerati singolarmente» (Posizioni ed esperienze sulla questione dei centri storici, 1966, p. 46).
Alla copiosa attività professionale affiancò un intenso magistero didattico: conseguì la libera docenza di Urbanistica nel 1931. Nel 1934 venne incaricato del corso libero di Elementi costruttivi e applicazioni presso la facoltà di ingegneria di Roma, nel 1936 del corso di Tecnica urbanistica, presso l’Ateneo bolognese, dove nel 1939 divenne professore ordinario di Architettura e composizione architettonica.
Morì a Roma il 27 ottobre 1981.
Altre opere e progetti: concorso per quattro edifici scolastici, Roma 1925 (2° classificato per la scuola a Monte Mario); caserma dei Carabinieri, Guidonia 1936; borgata Tiburtina, Roma 1937; concorso per il progetto di casetta isolata a due piani e due alloggi per piano, Roma 1949; complesso di case cooperative Teate in via Lattanzio e nucleo edilizio in via del Quadraro al Tuscolano, Roma 1950; edificio in via Valerio Corvo, Roma 1951; sistemazione del piazzale antistante la basilica di S. Maria degli Angeli, Assisi 1952; casa a torre presso Torrespaccata, Roma 1956; chiesa ad Ancona, 1957; piazza antistante la basilica di S. Francesco, Assisi 1959; chiesa a Torrespaccata, Roma 1962; casa di riposo per le suore della Sacra Famiglia, Spoleto 1962; concorso per la sistemazione della collina di Sidi Bel Massene e memoriale dei caduti, Tunisi 1962; sistemazione del cimitero Monumentale dei martiri, Biserta 1965; scalone in via degli Innamorati, Perugia 1971.
Tra gli scritti si ricordano: Abitazioni provvisorie e abitazioni definitive nelle borgate periferiche, in L’Ingegnere, X (1936) 9, pp. 443-465; La standardizzazione nell’abitazione collettiva. Organizzazione industriale del cantiere edile, in Atti del XIII Congresso internazionale architetti... 1935, Roma 1936, pp. 395-420; Storicismo e antistoricismo in architettura, Roma 1938; Caratteri permanenti nelle architetture italiche, in Augustea, XV (1940), 19-20, pp. 9-12; La tradizione della moderna architettura italiana, in Relazioni della XXVIII Riunione della Società italiana per il progresso delle scienze, Pisa 1939, III, Roma 1940, pp. 299-326; L’edilizia popolare e l’urbanistica moderna, Roma 1941; La città italiana nel Medioevo, Roma 1950; Estetica e storiografia dell’architettura, in Rassegna critica di architettura, VII (1950), pp. 3-19; Formazione dell’architetto, Roma 1953; Architettura e urbanistica, Torino 1958; Tecnica e civiltà, Milano 1960; Nuove tecniche e materiali. Loro influenza sull’architettura, relazione al VI Congresso dell’Unione italiana architetti, Londra, luglio 1961 (dattiloscritto); L’architetto nella società, in Rassegna dell’Istituto di architettura e urbanistica, I (1965), 1, pp. 7-15; La formazione dell’architetto, ibid., 2, pp. 7-18; Posizioni ed esperienze sulla questione dei centri storici, ibid., II (1966), 4, pp. 19-48.
Fonti e Bibl.: G. N.: figura, opere, contesto, in Rassegna di architettura e urbanistica, XIX (1983), 55, numero monografico; G. N., ibid., XXXVI (2002), 106-108, numero monografico; G. N. (1901-1981). Architettura università città, Atti del Convegno, Perugia 2006, Melfi 2008.