Giuseppe Parini: Poesie e prose – Introduzione
Giuseppe Parini nacque a Bosisio, nella Brianza, da Francesco Maria Parini, commerciante in seta, e Angiola Maria Carpani, il 22 o 23 maggio 1729. Le sue origini popolane e campagnole ebbero un peso non indifferente nella formazione del suo carattere e contribuirono a radicargli quelle virtù di rude schiettezza, di vivace ardore, d’istintiva moralità, che poi, moderate e affinate dall’educazione letteraria ed artistica, costituiranno gli aspetti più cordialmente simpatici e suggestivi della sua personalità. Non si hanno notizie sicure sulla sua infanzia, ma sembra probabile che la sua prima istruzione sia stata affidata a due parroci del paese natale: Carlo Giuseppe Cabiati, morto nel 1736, e Carlo Giuseppe Gilardi, suo successore. A dieci anni fu mandato dal padre a Milano per proseguire gli studi, secondo quanto aveva disposto una vecchia prozia del poeta, Anna Maria Parini, che appunto nel 1739 aveva già espresse le sue volontà testamentarie, in virtù delle quali una parte dei suoi beni era destinata al padre del Parini e una rendita annua era promessa al nipote Giuseppe, a condizione che quest’ultimo continuasse a frequentare le scuole e divenisse sacerdote. A Milano il Parini superò l’esame di ammissione alle scuole Arcimbolde dei Barnabiti, nel settembre 1740, e negli anni 1740-52 frequentò le varie classi di grammatica, umanità, logica, teologia speculativa e morale. Ebbe come insegnante, tra gli altri, il padre Onofrio Branda, con cui più tardi disputò aspramente nel corso di una celebre polemica. Alle Arcimbolde il Parini non si mostrò certo un allievo modello. Ripeté, infatti, alcune classi, e negli ultimi anni trascurò addirittura di assistere alle lezioni, accontentandosi di ottenere il certificato di frequenza. Ma le ragioni, che giustificano questo noviziato cosi poco brillante, sono molte: la istintiva antipatia del Parini per i mediocri e antiquati metodi pedagogici in uso nelle scuole ecclesiastiche del tempo; le sempre più disagiate condizioni economiche della famiglia, che lo costrinsero a procurarsi denaro copiando carte forensi e impartendo lezioni private; e infine, verso i vent’anni, la salute medesima che cominciò ad affliggere il poeta con i primi sintomi di quel male artritico che doveva poi recargli tormento per tutta la vita. Ma se poco veniva approfittando degl’insegnamenti scolastici, è anche vero che in quegli anni il Parini non mancò comunque di compiere privatamente con le proprie forze una personale esperienza culturale, leggendo liberamente, e sempre con avidità curiosa e partecipe, i classici latini (Orazio e Virgilio, soprattutto) e italiani, educandosi sin da allora al gusto e all’amore della poesia. Nel 1752 terminava gli studi alle Arcimbolde e contemporaneamente pubblicava un gruppetto di versi giovanili con il titolo di Alcune poesie di Ripano Eupilino. Questi versi servirono a divulgare il suo nome tra i letterati milanesi e gli valsero ben presto l’ingresso nell’Accademia dei Trasformati.
Le poesie di Ripano Eupilino (novantaquattro componimenti in tutto, tra poesie serie e piacevoli: sonetti petrarcheschi d’amore e religiosi, sonetti berneschi, capitoli ed egloghe piscatorie) sono un documento assai importante, pur coi loro evidenti limiti di forza inventiva e stilistica, della prima educazione letteraria del poeta. Esse ci confermano, infatti, che il giovane Parini non aveva del tutto perduto i suoi anni, qualunque fosse l’opinione dei suoi maestri barnabiti, e che anzi, al contrario, aveva già saputo avviare e condurre innanzi, sia pure con prudenza e senza slanci avventurosi, un proficuo esercizio poetico, un’attiva sperimentazione dei vari moduli della poesia arcadica, sfoggiando uno stile classicheggiante ancora impersonale, è vero, ma quasi ovunque improntato ad una sostenutezza ferma e sicura, sotto cui si avverte ad ogni passo la fruttuosa lezione dei cinquecentisti. Ha pertanto ragione il Carducci quando definisce Ripano «un arcade arretrato al Cinquecento», perché questi versi giovanili del Parini dimostrano effettivamente una maggiore consonanza con i più lontani modelli dell’Arcadia che non con i suoi esemplari contemporanei. Sotto questo punto di vista, perciò, la giovanile raccolta del 1752 rappresenta un momento senza dubbio positivo, anche per quanto di incondito e irresoluto recava ancora in sé, nell’itinerario artistico del Parini (che è un itinerario di continua e coerente maturazione stilistica), dal momento che proprio con essa il nostro poeta ha pagato il suo tributo ad un clima letterario non facilmente elusibile e nello stesso tempo, sia pure episodicamente, ha saggiato le sue forze e ne ha già dato anche qualche interessante saggio in certa scioltezza di linguaggio, in talune sottili ed eleganti inflessioni di tono, nelle frequenti quanto vivaci espressioni di un umore bizzarro e risentito. Ma soprattutto queste rime di Ripano dimostrano che sin dall’inizio il Parini era venuto stabilendo quel legame, tra la sua opera e la tradizione linguistica e la disciplina classica, che costituirà poi una tipica «costante» della sua poetica e della sua arte, nonostante l’esuberanza di certe sue successive polemiche antiaccademiche e antipuristiche.
Nel 1753 il Parini entrava a far parte dell’Accademia dei Trasformati, rinata a nuova vita per iniziativa del conte Giuseppe Maria Imbonati. Questa Accademia, di cui fecero parte numerosi letterati di grido, tra cui il Balestrieri, il Baretti, il Beccaria, il Passeroni, il Tanzi, ed anche uomini di scienza, cercò di conciliare la continuità della tradizione letteraria classica, secondo lo spirito più genuino dell’Arcadia, alla quale si sentiva idealmente collegata, con il rispetto, anzi l’amore, per la letteratura lombarda, la quale, dal Maggi al Balestrieri, aveva già dato segni di ricca vitalità. Quest’Accademia non s’interessava soltanto a problemi strettamente letterari, ma sceglieva i temi delle sue adunanze con libera e spregiudicata varietà. Fra i Trasformati, infatti, si discusse e si scrisse, in versi e in prosa, sul decadimento delle lettere, sulla guerra, sulla carità, sull’ignoranza, sui bachi da seta, sui viaggi, sulla giustizia, sulla botanica, sulla disuguaglianza di stato degli uomini, sulla fisica, sugli arricchiti ecc. In questo ambiente, partecipando con assiduità alla vita dell’Accademia, il Parini trovava modo di conciliare l’originario classicismo e la fedeltà alla tradizione, così evidenti nel suo esordio poetico, con la sua istintiva curiosità, in via di approfondimento e di maturazione, per i vari aspetti della vita contemporanea, con il suo interesse umano per la modernità. All’ombra dell’Accademia dei Trasformati, che ebbe vita fino al 1768, il Parini sostenne due vivaci polemiche linguistiche contro il padre Alessandro Bandiera (1756) e contro il padre Onofrio Branda (1760), entrambi accusati dal poeta di intendere la continuità della tradizione linguistica italiana in maniera eccessivamente pedantesca e di farsi difensori, soprattutto il Branda, d’un toscanismo scipito e artificioso. Ricorderemo che alla seconda polemica, la quale si risolse nella difesa della lingua milanese contro le denigrazioni del Branda, presero poi parte molti altri uomini di lettere tra cui i principali Trasformati. Intanto il Parini, che nel 1754 era stato ordinato sacerdote (conducendo così a compimento quella che era stata la volontà della prozia più che una sua intima vocazione), entrò come precettore nella casa del duca Gabrio Serbelloni, trovandovi la protezione della duchessa Vittoria, donna di molte virtù e di singolare temperamento. Alle dipendenze di casa Serbelloni il poeta rimase dal 1754 al 1762, sino a quando cioè se ne allontanò volontariamente in seguito ad un contrasto con la duchessa, la quale aveva schiaffeggiato, in un impeto d’ira, la giovane figlia del maestro di musica Sammartino. L’episodio dello schiaffo e lo sdegno pariniano sono stati forse un po’ troppo drammatizzati dai biografi del Parini, soprattutto da quelli a cui non è dispiaciuto dipingere il poeta con un’aureola vagamente «giacobina». In realtà non si trattò di cosa grave, nulla che trascendesse una reciprocità d’impulsi repentini (biasimevole quello della signora, generoso quello del poeta), tanto è vero che il Parini si riconciliò ben presto con la duchessa, alla quale continuò ad essere legato, per molti anni ancora, da cordiale amicizia e alla quale dedicò un’ode rimasta incompiuta (Spesso de’ malinconici sapienti). Ma, indipendentemente dal brusco congedo, la lunga permanenza in casa Serbelloni giovò grandemente al Parini perché lo mise direttamente a contatto con la vita aristocratica del tempo, con le sale fastose dei palazzi, i graziosi salotti delle conversazioni intime, i lieti svaghi delle villeggiature, i costumi preziosi e raffinati, la bellezza suggestiva delle donne e il perfetto cerimoniale dei cavalieri. La posizione del Parini rispetto a questo mondo, ricco indubbiamente di fascino e di attrattiva, era quella di un uomo diviso tra due opposti sentimenti. Da un lato egli non riusciva ad evitare di sentirsi istintivamente attratto dalla composta eleganza, dalla disinvolta misura, dal sapiente equilibrio, che tralucevano da quell’ambiente chiaro e luminoso; d’altro lato egli avvertiva una naturale ritrosia ad aderire sentimentalmente a quella vita, che gli si rivelava vuota ed oziosa sotto gli ameni inganni della superficiale leggiadria, una sorta di intima repugnanza ad associarvisi con fiducia e con candido abbandono. Perché quel mondo e quella società potevano, sì, lusingare in vario modo i sensi e il gusto artistico del Parini, fingendo agli occhi suoi un’immagine di classica armonia; e nondimeno non potevano non risvegliare in lui, con l’arida noia e il tetro disinganno che si celavano dietro le loro pure e terse parvenze, il suo generoso e severo spirito morale, la sua coscienza ricca di fermenti umanitari e sollecita della giustizia e della uguaglianza. Da questo stato d’animo, maturatosi tra il 1754 e il 1762 (in parte attraverso l’esperienza personale a cui si è accennato, e in parte attraverso l’assorbimento, per altro moderato, delle idee innovatrici provenienti dalla Francia e diffusesi rapidamente nell’ambiente milanese), è nato il Giorno, preceduto idealmente da quel Dialogo sopra la nobiltà (1757), in cui la polemica antinobiliare è espressa nella sua forma più energica e violenta, sfiorando talvolta l’acrimonia libellistica.
Il Giorno vide la luce parzialmente negli anni 1763 (Mattino) e 1765 (Mezzogiorno). Dalla dedica, premessa al Mattino, appariva che il poeta aveva in animo, in un primo tempo, di completare presto l’opera sua con una terza parte, la Sera. Ma poi questa terza parte si venne sdoppiando in altre due (Vespro e Notte), alle quali il Parini non cessò mai di lavorare, così come non smise di correggere e mutare anche le prime due parti già pubblicate, senza tuttavia decidersi mai a stampare per intero il suo poemetto, nonostante le numerose sollecitazioni ricevute e le sue stesse promesse. Il Vespro e la Notte videro perciò la luce soltanto dopo la morte del poeta, per iniziativa dell’amico Francesco Reina. Questa laboriosa gestazione dell’opera, protrattasi per anni e anni e rimasta senza una risoluzione definitiva, ci rivela almeno due cose: il progressivo esaurirsi nel Parini dell’iniziale stimolo polemico, della giovanile accensione moralistica (così fervidamente esplosa nel Dialogo sopra la nobiltà), e la sua costante insoddisfazione stilistica, il suo desiderio di una sempre più assoluta perfezione poetica. Non solo, infatti, il confronto tra le prime due parti pubblicate e gli autografi delle ultime due, ma anche un esame delle correzioni e varianti che risultano inserite dal Parini nei manoscritti del Mattino e del Mezzogiorno, ci confermano lo spostamento dell’interesse pariniano dalla polemica antinobiliare, che pur aveva costituito il primo impulso dell’opera, alla descrizione artistica, nitida e controllata, in perfetto equilibrio ed armonia di toni e di sviluppi, di quel mondo settecentesco. Non è casuale, del resto, che tutte le correzioni del Giorno denuncino l’intento, da parte del poeta, di smorzare o almeno di attenuare in parte quanto vi era di più decisamente acceso nella prima stesura, di ricondurre il discorso poetico ad una linea rappresentativa più fluida e coerente. Questo non significa che il Parini non avvertisse più, col passare del tempo, l’antica antinomia tra la vuotezza morale della società aristocratica (ormai sorpresa dal suo occhio vigile di moralista e non facilmente obliabile) e l’eleganza delle sue apparenze, ma piuttosto che l’atteggiamento del poeta si era fatto più distaccato e lucido rispetto alla materia che trattava, che l’artista aveva ormai preso il sopravvento sul polemista e che la sua aspirazione non era tanto rivolta alla efficacia pedagogica dell’opera quanto alla evidenza, alla precisione e alla perfetta riuscita della sua forma artistica. Non gioverà quindi cercare nel Giorno (in questa elegantissima favola, in questa sapiente sceneggiatura della commedia che il giovane signore del tempo recitava mirabilmente ogni giorno con raro sincronismo di atteggiamenti) né un documento di poesia civile né la creazione fortemente incisiva, se non addirittura drammatica, di un carattere. Per questa via il Giorno minaccerebbe di frantumarsi tra le nostre mani in una miriade di scaglie luminose, tanto attraenti quanto disutili o stucchevoli, e potrebbe anche ingenerare l’impressione, che alcuni hanno voluto criticamente suffragare, di un meccanismo arido e intellettualistico, di un puro giuoco e di una marionettistica vicenda. È necessario in sostanza non chiedere al Giorno ciò che esso non può darci, perché incompatibile con la natura per nulla rivoluzionaria ma appena riformistica del suo autore, limitandoci invece a interpretarlo per quello che effettivamente esso è o almeno per quello che esso è sempre più divenuto con gli anni nelle mani consapevoli del suo autore: cioè un’opera essenzialmente letteraria, tutta compenetrata di quell’ideale umanistico dell’arte che costituì il maggiore ideale del Parini. In questo modo molte riserve, già avanzate sul suo conto, verranno a cadere e il poemetto pariniano ci apparirà come uno specchio, quasi perfetto, del mondo settecentesco, ritratto con estrema perizia e con gusto sottile, con inimitabile virtù di mimesi, da una posizione che si è venuta via via disacerbando, permettendo al poeta, proprio per il distacco raggiunto e l’attenzione vigile alla rappresentazione artistica, la diversa e tuttavia duttile e sciolta alternativa della caricatura morale, se non anche della sanzione mordente, con gli indugi compiaciuti, le minuzie descrittive, i dorati arabeschi.
Nel Giorno il poeta ha descritto la vita oziosa e corrotta della nobiltà milanese del suo tempo, con l’intendimento evidente di ironizzarla sotto l’apparenza di farne invece una glorificazione seria e convinta. Il Mattino contiene la proposizione del poema e quindi l’apostrofe al giovane signore, che è il protagonista del poema e al quale il Parini si offre come precettore d’amabil rito. Segue la descrizione del risveglio dell’eroe, quando il sole è già alto, delle volubili conversazioni coi maestri di ballo, di canto, di violino e di francese, della prima vestizione e della lunga e laboriosa pettinatura, dell’abbigliamento e dell’ornamento, a cui seguono infine l’uscita dal palazzo del giovane signore e la lunga e frenetica corsa della carrozza che lo conduce al palazzo della dama prediletta. Nel Mezzogiorno l’ambiente si fa più vario e ricco, i personaggi si moltiplicano intorno al protagonista. Siamo alla tavola della dama e le conversazioni s’intrecciano, nei modi più impensati, intorno a vari argomenti: all’arte, al commercio, all’industria e alle scienze, con molta fatuità e con una diffusa ostentazione di spregiudicatezza e di modernità. Tra i tipi più interessanti che siedono a questa mensa, accanto alla felice coppia dei due giovani amanti, e alla figura comicamente paciosa e rassegnata del marito, si distinguono soprattutto il filosofo vegetariano e il carnivoro impenitente. Dal contrasto di questi due personaggi, dal cozzare delle loro opposte disposizioni sentimentali (una, languida e filantropica, che ignora gli uomini e trasforma in idoli le bestie; e una, sanguigna e cinica, soltanto paga di soddisfare l’appetito) scaturisce l’episodio della «vergine cuccia», che è certo tra i più belli e meglio concertati di tutta l’opera. Dopo il pranzo, ecco il caffè; e intanto, fuori dal palazzo, a contrasto e irrisione di quella obliosa leggerezza, una turba d’infelici e di deformi s’accalca, attratta dalle lusinghe dei profumi e fiduciosa di confortare qui la propria fame. E dopo il caffè, subentra il giuoco fragoroso del tric-trac, suggerito un tempo da Mercurio per permettere i segreti colloqui d’amore tra gli amanti e per eludere la gelosia del marito, ma divenuto poi un puro e disinteressato giuoco di società, almeno da quando la gelosia è stata bandita dal mondo come uno dei tanti inutili pregiudizi che la nuova civiltà condanna. Qui ha termine il Mezzogiorno, ma nella stampa del 1765 esso continuava con la descrizione del tramonto e del corso, passata poi ad arricchire la terza parte del poema, il Vespro. In questa terza parte, che si apre con la bellissima scena dell’imbrunire, assistiamo alla corsa della carrozza dei due amanti attraverso la città per le visite di dovere o di curiosità agli amici e alle amiche; e quindi alla descrizione del corso e alla sfilata dei cocchi. È una interessante mostra dei tipi più diversi: dal bellimbusto al nuovo titolato, dalle vecchie madri, che conducono a passeggio le figlie da marito, alle dame della più alta nobiltà. Nel turbine fragoroso e sempre crescente dei cocchi, il poeta sofferma il suo sguardo su quello del suo eroe e ci dipinge il giovane signore intento a passeggiare solitario o a discorrere con una nuova dama, mentre la sua compagna inganna l’attesa circondata dalle premure di altri vagheggini. Nell’ultima parte infine, nella Notte, l’oscurità incalza e il poeta coglie l’occasione per improvvisare un pezzo di grande bravura e di gusto apparentemente preromantico. Al «tenebroso» esordio subentra poi la descrizione del ridotto notturno, della folla d’eroi che lo frequenta e lo anima, delle conversazioni. E infine, a notte alta, l’apparizione delle carte, la sapiente disposizione delle coppie, la varietà dei giocatori; mentre, a coronamento di una così intensa giornata, circolano, tra gli ospiti, i gelati ristoratori.
A proposito del Giorno. gioverà anche osservare che il poemetto pariniano si ricollega, per quanto riguarda lo schema e la materia, alla poesia didascalica del settecento, e anzi fu considerato per molto tempo uno splendido esempio di quel particolare genere letterario. Ma è altrettanto evidente che, a parte la comune esigenza di restituire all’arte un contenuto didattico e un intento educativo, oltre che di rinnovare il tradizionale linguaggio poetico con l’adozione di una materia più seria e concreta e di una terminologia scientifica o addirittura tecnica, l’opera del Parini si distingue risolutamente dalla varia produzione letteraria del suo tempo per un accento morale più netto e profondo, e per un’eleganza e perfezione stilistica, dietro la quale intravedi lo studio indefesso dei classici assai più che la lezione dei contemporanei. Lo stesso si dica per i rapporti con la poesia satirica dell’epoca, che ha in comune con il Giorno.molti temi e motivi (la vita frivola dei nobili, la moda, il cicisbeismo, l’ignoranza presuntuosa, i giochi ecc.), ma gli resta poi tanto lontana per vigore rappresentativo, felicità di descrizioni e di scorci, umanità e inventiva.1
Dopo la pubblicazione delle prime due parti del Giorno. nel 1768, il Parini accettò l’incarico, offertogli dal conte Carlo Giuseppe di Firmian, Ministro imperiale, di redigere la Gazzetta di Milano, e nell’anno seguente, sempre per iniziativa del Firmian, fu chiamato a ricoprire la cattedra di eloquenza nelle Scuole Palatine. Dal 1773, soppressa la Compagnia di Gesù e trasformate le Scuole Palatine nel Ginnasio di Brera, il Parini tenne la cattedra di «principi generali di belle lettere applicate alle belle arti». Durante i molti anni d’insegnamento, al quale sempre attese con grande fervore e illuminata intelligenza, suscitando ammirazione e affetto tra i discepoli, il Parini venne stendendo vari scritti in prosa che videro la luce soltanto dopo la sua morte, nella edizione delle Opere curata dal Reina. Questi scritti (raccolte di lezioni, come i Principi generali e particolari delle Belle Lettere applicati alle Belle Arti, discorsi accademici, relazioni e programmi didattici, scritti critici su autori contemporanei) ci testimoniano nel Parini un assiduo e coerente sviluppo della sua poetica classicistica, non aliena dalle innovazioni, ma sempre intesa ad armonizzare le moderne esigenze, alle quali il poeta non chiudeva l’animo suo, con il rispetto, che egli sentiva vivissimo, della tradizione letteraria e linguistica. Non c’è nulla dunque, in questi scritti pariniani di teoria e di ammaestramento, proprio nulla di impetuosamente rivoluzionario e spregiudicato. Il Parini vi si dimostra, anzi, piuttosto alieno dalle posizioni troppo ardite e recise; senza apparire, per questo, un pedante, tanto in lui risulta sempre vigile e appassionata la difesa del lavoro poetico secondo una concezione nobile e severa dell’arte, in cui la moralità e il gusto si associano e si compenetrano vicendevolmente. È del resto evidente che nell’insegnamento del Parini si riflettevano, con grande fedeltà e per accordo spontaneo, tanto le istanze moderate dell’illuminismo italiano quanto lo spirito riformista da cui era animato lo stesso governo austriaco e da cui, in quegli anni, era confortato di speranze l’animo di molti intellettuali milanesi. Se si esaminano, infatti, con una certa attenzione anche le pagine più ardite e polemiche di questi scritti pariniani, come quelle sui motivi della decadenza delle lettere o sui programmi didattici, così ricche fra l’altro di attacchi veementi contro la pessima educazione impartita negli istituti ecclesiastici, si dovrà convenire che quelle pagine trovavano nella legislazione governativa del tempo non un termine di contrasto, un argine o una censura, bensì una piena rispondenza, quando non addirittura una sollecitazione.
Nel 1777 il Parini venne accolto nell’Arcadia di Roma con il nome pastorale di Darisbo Elidonio e contemporaneamente divenne membro della Società patriottica di Milano. Nel 1791, oltre all’insegnamento, ebbe l’incarico di soprintendente delle Scuole pubbliche con un compenso finalmente dignitoso che gli permise di uscire da quelle ristrettezze economiche che lo avevano sempre angustiato. In quello stesso anno il Gambarelli pubblicò la prima raccolta delle Odi, allo scopo di evitare che questi componimenti pariniani continuassero a circolare separatamente, spesso guasti o male racconci. L’edizione del Gambarelli, che raccoglieva ventidue odi, non dovette però accontentare il Poeta che, a quanto dichiara il Reina, pensava di provvedere egli stesso a un libro delle sue migliori poesie. E forse lo avrebbe fatto se non fosse intervenuta la morte. La volontà del poeta fu poi attuata dal Reina e più tardi dal Bernardoni, con due raccolte (la prima di venti odi e la seconda di diciannove, essendo state escluse Le nozze) ordinate cronologicamente, in cui non figurano alcuni componimenti che il Gambarelli aveva incluso nella sua silloge, mentre ve ne apparvero altri che il Parini aveva scritto dopo il 1791. Il lavoro delle Odi pariniane si estende dal 1757 (La vita rustica) al 1795 (Alla Musa) e ci rivela la medesima costante insoddisfazione già rilevata a proposito del Giorno. Anche per le Odi, infatti, ci accade di osservare che il poeta non si decise mai a pubblicarle personalmente in un libro organico che recasse la sua sanzione definitiva (nel caso del Gambarelli si trattò, tutt’al più, di un tacito consenso), mentre le varie stampe e i manoscritti denunciano, nell’ambito di ogni ode, l’esercizio più o meno esteso della lima, le tracce dei pentimenti e delle variazioni. Come per il Giorno (la cui revisione interna s’intreccia appunto con la stesura delle grandi liriche pariniane), anche per le Odi si può dire che l’arte del Parini si sviluppi secondo una linea ascendente di sempre maggiore maturità e perfezione, con una inclinazione evidente verso un temperamento dei toni, verso un linguaggio sempre più sereno e pacato, nello sforzo di realizzare un sicuro equilibrio tra occasione sentimentale e forma espressiva. Anche in seno alle Odi, dunque, il moralista e l’umanista, l’uomo e il letterato, hanno cercato di realizzare un comune accordo, di bilanciare, senza sopraffarsi a vicenda, le reciproche istanze: l’intento didattico, cioè, e l’amore della parola. L’incontro di queste due esigenze, non contrastanti tra loro ma complementari (riflessi ugualmente schietti e naturali della personalità pariniana), non poteva realizzarsi felicemente, sulla pagina, se non attraverso il rifiuto delle molli cadenze arcadiche e l’assorbimento delle definizioni morali in un discorso poetico vigorosamente espressivo, i cui ritmi non obbedissero più soltanto esternamente ad una troppo facile e spiritualmente esangue cantabilità, ma si sforzassero piuttosto di raggiungere una musica più alta e sostenuta, oppure si snodassero in modi teneramente affabili, sobrii e commossi. Anche nelle prime odi tuttavia, come nelle prime parti del Giorno. queste due esigenze non si rivelano sempre armoniosamente fuse. Accade spesso, al contrario, che le sentenze vi si allineino un po’ troppo seccamente, con un accento forzatamente perentorio, senza riuscire a disciogliere certa loro durezza e senza filtrare interamente i loro residui polemici. E questo è visibile, più o meno, non solo nelle odi più giovanili ma in quasi tutte quelle dichiaratamente sociali e civili (dalla Salubrità dell’aria all’Impostura, dalla Educazione all’Innesto del vaiuolo, dal Bisogno alla Caduta ecc.), anche se è vero che il poeta ha cercato di non venire mai meno, neppure in questi casi, al suo ideale di misura e di saggezza, costringendosi a contenere l’espressione in forme pacate ed esatte, mitigando la sua eloquenza in toni affettuosi e temperati. E anche quando la polemica sembrerebbe prendergli la mano e minacciare di esagitarne il linguaggio, il freno dell’arte contribuisce a conservare alle parole una rara precisione, un lucido rilievo, al di là dei risentimenti e dello sdegno morale. Ma è certo, comunque, che il Parini ha dato la migliore prova delle sue singolari virtù liriche, soprattutto nelle odi intime o personali: in quelle ispirate dalla bellezza femminile (Il pericolo, Il dono, Il messaggio) e in quella dedicata Alla Musa, che è stata giustamente considerata come il suo testamento morale e poetico. Particolarmente nel Messaggio, quell’equilibrio tra ispirazione, tono e linguaggio, costantemente perseguito dal Parini come la vera fedele misura di se stesso, è più che altrove felicemente raggiunto. Qui infatti, dietro l’eleganza e il nitore delle immagini, brilla un fuoco sapientemente frenato, mentre il gioco galante, reso con una perizia estrema d’arcade consumato, si anima di una vibrazione interiore che nasce dall’amore intenso della bellezza, illeggiadrito da un’ombra di virile melanconia.
Nel 1796, con la venuta dei Francesi a Milano, il Parini fu chiamato a far parte della nuova Municipalità, nel cui seno rappresentò la parte moderata con quella dignità e quella dirittura che sempre egli pose in ogni atto della sua vita. Essendosi più volte opposto a tutti quei provvedimenti che gli sembrassero contrastare con la sua coscienza e dignità di cittadino, oppure che apparissero al suo spirito equilibrato e riflessivo come atti di intollerabile demagogia, fu ben presto esonerato dall’ufficio. Si ritirò pertanto in sdegnosa solitudine, sgomento di fronte all’incalzare di avvenimenti che egli non riusciva a comprendere nelle loro più profonde ragioni e che minacciavano di lacerare, ai suoi occhi, quell’ordine e quell’equilibrio che egli aveva sempre sognato come condizione essenziale del vivere sociale e come norma indispensabile del suo lavoro di artista. Quando nel 1799 gli Austriaci fecero ritorno a Milano era ormai troppo avanzato in età ed infermo per riprendere la vita pubblica. La morte poi lo colse, di lì a poco, nella mattinata del 15 agosto 1799.
Dopo il giudizio del De Sanctis, inteso a dar rilievo soprattutto all’accento morale dell’opera pariniana e a circoscriverne la pura forza poetica, gli studi del Carducci hanno contribuito a ricondurre entro limiti assai più moderatamente eroici la personalità del Parini, sostituendo l’immagine di un impetuoso e ardito rinnovatore con quella di un letterato peritissimo e sapiente. Sulla traccia del Carducci si è poi venuta facendo sempre più viva tra gli studiosi l’esigenza di superare o almeno di equilibrare i termini dell’antitesi tra il Parini uomo e il Parini artista, evitando di porre l’uno a contrasto con l’altro, e mostrando invece, da vicino, che quel dissidio può essere soddisfacentemente sanato a condizione che si rinunci a forzare, oltre i suoi termini effettivi, il moralismo pariniano, limitandolo ad una costante e profonda aspirazione alla misura, alla moderazione e al buon senso: ad una sorta, insomma, di illuminata saggezza. Sotto questo punto di vista la poesia del Parini appare perfettamente in accordo con tale necessità interiore, costantemente commisurata ad essa. Perché la vera inclinazione del nostro poeta non fu certo quella di sovvertire la società né la tradizione letteraria del suo tempo, ma tutt’al più quella di rinnovare seriamente dall’interno l’una e l’altra, liberandole da ciò che di caduco e di artificioso le immiseriva, di comporre anzi, nella sua coscienza, le antitesi vivaci di un’età quanto mai problematica, per poterla poi riflettere nitidamente, sia pure con arguto e talvolta anche amaro sorriso, oppure con fervida eloquenza o con commossa partecipazione, nel cristallo, sempre limpido e terso, dei suoi versi perfetti.
In questo volume, oltre alle opere pariniane, il lettore troverà una scelta di poeti satirici e didascalici del settecento, i cui testi sono stati qui pubblicati appunto per mostrare da vicino certe effettive «incidenze» reciproche, tra essi e il Giorno. e per documentare nello stesso tempo la novità sostanziale dell’opera del Parini nei confronti dei «generi» letterari a cui essa si apparenta.