PARINI, Giuseppe
– Suddito lombardo dell’impero asburgico, nacque il 23 maggio 1729 a Bosisio, sul lago di Pusiano nei pressi di Erba in Brianza, da Francesco Maria e Angiola Maria Caspani.
Il padre era un piccolo (e, sembra, non particolarmente fortunato) commerciante di seta, mentre la madre aveva già dato alla luce altri nove figli. Dopo aver ricevuto la prima formazione dai parroci del paese – don Carlo Giuseppe Cabiati e don Carlo Giuseppe Gilardi – ancora novenne il piccolo Giuseppe venne condotto a Milano per essere iscritto alle scuole di Sant’Alessandro (le Arcimbolde) tenute dai barnabiti dove, una volta superato l’esame di ammissione, seguì per dodici anni il regolare corso di studi pur senza mai eccellere. A Milano prese stanza presso una prozia, Anna Maria Parini vedova Latuada, alla quale era stato affidato dalla famiglia e che si era impegnata a mantenerlo agli studi affinché prendesse gli ordini sacerdotali. Questi suoi primi anni di giovane chierico e di studente inurbato dovettero essere, tuttavia, particolarmente difficili, specie dopo che i genitori, versando sempre in gravi ristrettezze, lo raggiunsero in città anche a seguito della morte della prozia (1741) che pure gli lasciò in eredità un modesto peculio.
Il giovane Parini, proprio nell’anno in cui conseguì il diploma alle Arcimbolde, riuscì, grazie all’aiuto di amici e conoscenti della ristretta cerchia provinciale, a pubblicare un libretto poetico cui, come era prevedibile, non dovette arridere un gran riscontro di pubblico.
Si trattava di un volumetto uscito per i tipi chiaramente apocrifi di un improbabile stampatore e con l’indicazione altrettanto improbabile di «Londra» (Alcune poesie di Ripano Eupilino, Londra, presso Giacomo Tomson, 1752). In realtà indagini recenti hanno messo in luce l’origine ticinese della stampa ed è ormai certo che il libretto uscì dalla storica tipografia dei fratelli Agnelli di Lugano (mentre Carducci si persuase che fosse uscito a Milano dai torchi di Giovan Battista Bianchi). Per quanto l’autore sembrasse restio a rivelare pubblicamente la propria identità (nascondendosi dietro uno pseudonimo di facile decifrazione: Ripano è anagramma del cognome del poeta mentre Eupilino ricalca il nome latino del lago di Pusiano), il suo libro, che pure riuniva gli esercizi di un principiante, non risultò affatto avaro di proposte e materiali poetici, composto com’era di ottantasette sonetti (fra gravi e piacevoli), di tre capitoli, di un’epistola e infine di tre egloghe pescatorie, il tutto per un totale di ben duemilatrecento versi.
Due anni dopo, nel 1754, Parini fece il suo ingresso nelle fila dell’ordine sacerdotale: una decisione presa, con ogni probabilità, più che per rispondere a una autentica vocazione, per non rinunciare all’eredità della prozia. Con il sacerdozio il giovane si avviava pure a una occupazione confacente con il nuovo suo status e cioè quella di precettore, nel suo caso – previa la preziosa intermediazione fornita dall’amico Gian Domenico Soresi – svolta presso i duchi Serbelloni, nella cui dimora milanese egli entrò proprio in questo stesso anno per poi restarvi per altri otto. Dapprima ripetitore di Gian Galeazzo, figlio primogenito del duca Gabrio, fu quindi, a partire dal 1760, senza mansioni particolari ma godendo della protezione della padrona di casa, la duchessa Maria Vittoria, nata Ottoboni Boncompagni, donna coltivata e di gusti raffinati in fatto di arte e letteratura (a differenza del marito dal quale però si separò nel 1756, per intrecciare una relazione con un uomo di ben altra tempra intellettuale come Pietro Verri).
Già dal 1753, tuttavia – auspici gli amici fra i quali il canonico del Duomo Giuseppe Candido Agudio e don Ambrogio Fioroni curato di Canzo che provvidero alla sua presentazione–, al giovane poeta si erano schiuse le porte dell’Accademia dei Trasformati, un’antica istituzione cinquecentesca risorta a nuova vita grazie a Giuseppe Maria Imbonati. Indubbiamente la frequentazione piuttosto assidua dell’Accademia, nonché il quotidiano contatto e l’osservazione diretta del mondo dell’aristocrazia lombarda che l’ufficio ricoperto gli concedeva, incisero non poco nella formazione intellettuale e culturale del giovane: si pensi, ad esempio, alla possibilità di interloquire con poeti di rango come Gian Carlo Passeroni, Carlo Antonio Tanzi o Domenico Balestrieri, o ascoltare gli interventi di studiosi e letterati, giuristi e scienziati provenienti anche da altre parti d’Italia. È un fatto, insomma, che quel classicismo un poco scolastico, libresco e legato a certa tradizione bernesca, di cui aveva dato prova nel suo libretto poetico d’esordio, venne progressivamente ridimensionato e corretto alla luce di una cultura più aperta, vagamente cosmopolita e a tratti quasi spregiudicata (si rammenti che anche i Verri e il Beccaria per qualche tempo, prima di fondare la loro Accademia dei Pugni, frequentarono i Trasformati).
Protetto da quel senso di intellettuale solidarietà che l’Accademia milanese sembrava accordargli quasi con premurosa sollecitudine, Parini si decise in questo torno di tempo a prender parte a un pubblico dibattito indirizzando nel 1756 all’amico e consocio Soresi una Lettera intorno al libro intitolato I pregiudizi delle umane lettere, lettera poi data alle stampe nella tipografia milanese della Regia Ducal Corte. Quel libro da lui preso in esame (Dei pregiudizi delle umane lettere per argomenti apertissimi dimostrati, spezialmente a buon indirizzo di chi le insegna) era stato pubblicato a Venezia un anno prima da Bettinelli ed era opera di un servita senese, padre Alessandro Bandiera, il quale aveva sostenuto la necessità di rimediare allo stile del Segneri, a suo dire poco attento alla tradizione del toscano trecentesco, addirittura non peritandosi di riscrivere «alla boccaccevole» le prediche dell’insigne prosatore secentesco. Legato a un’idea della lingua semplice e naturale, tendenzialmente intesa come strumento di laica comunicazione, un’idea in ultima analisi non molto difforme da quell’ideale linguistico ispirato al razionalismo e al pragmatismo anticruscante che di lì a poco gli scrittori del Caffè presero a promuovere, Parini, qualche tempo dopo, rinnovò il suo impegno di polemista in tema di lingua rivolgendo questa volta la propria critica contro il barnabita padre Onofrio Branda, già suo professore nelle scuole di S. Alessandro e uomo di scuola tutt’altro che conservatore. Questi, in due suoi dialoghi intitolati Della lingua toscana pubblicati presso il Mazzucchelli a Milano rispettivamente nel 1759 e nel 1760, aveva sostenuto il primato della lingua fiorentina che proprio nell’uso quotidiano e quindi anche nel parlato era in grado più di ogni altra di manifestare una naturale e profonda solidarietà morfologica e semantica con la grande tradizione della lingua letteraria dei grandi trecentisti. Parini dal suo canto ai dialoghi del Branda rispose prontamente (quanto con piccata vis polemica), dapprima con una lettera Al padre D. Paolo Onofrio Branda milanese C. R. di S. Paolo e Professore di Retorica nella Università di S. Alessandro (Milano 1760) e quindi, nello stesso anno, con un Avvertimento e una seconda lettera (indirizzata a un amico) prendendo le difese del dialetto milanese nonché dei programmi dell’Accademia dei Trasformati, vale a dire dell’istituzione che più di ogni altra in Milano aveva portato avanti la tradizione di una letteratura specificamente dialettale.
Per il poeta il dialetto per virtù della sua naturalissima ascendenza poteva vantare pregi tali da inferire una sorta di purismo suo proprio: esso infatti, come ogni altra lingua autenticamente vivente e d’uso fra i parlanti, poteva esibire «le sue natie grazie e bellezze». Ne consegue per il Parini che il dialetto interpreta con la maggiore aderenza possibile il carattere di una popolazione e proprio per questa sua originaria e incorrotta naturalezza esso dovrà impiegarsi per raggiungere «la vera eloquenza» che non consiste tanto in una mera esibizione verbale (o in quelle che comunemente venivano chiamate «le lascivie del parlare toscano»), bensì risiede «nella robustezza delle ragioni e nella bellezza de’ pensieri».
Non sono pochi (quasi una cinquantina) i testi sia in poesia sia in prosa che il Parini destinò alle periodiche riunioni dell’Accademia dei Trasformati, la maggior parte dei quali è possibile che l’autore abbia letto personalmente in tali occasioni. Fra i capitoli in endecasillabi sciolti di intonazione satirico-didascalica, volti a tracciare un quadro critico e a tratti spietato della società contemporanea, vi sono brani piuttosto estesi che è possibile considerare una sorta di banco di prova del poema maggiore (Sopra la guerra, 1758 e L’auto da fè, 1761), mentre fra i componimenti in terzine a rima alternata corre l’obbligo di segnalare Il trionfo della spilorceria (1754), Il teatro (1754), La maschera (1757), Al canonico Candido Agudio (1762).
In questo genere di composizioni il poeta seppe quasi sempre astenersi dal modello della cicalata logorroica e inconcludente della tradizione tosco-cinquecentesca, spesso intesa come mero esercizio di virtuosismo linguaiolo e priva di una struttura argomentativa ragionevolmente motivata, riuscendo invece a mettere in luce la propria attitudine nel rappresentare lo stile di vita non già di uno specifico gruppo sociale (come sceglierà di fare di lì a qualche anno nel poema maggiore) ma di un più indistinto vulgo municipale, al fine di saggiarne la probità e l’autenticità dei comportamenti e al vaglio di una morale tanto pubblica quanto privata, non di rado assumendo il ruolo di satirico e impietoso fustigatore che, proprio dal genere letterario prescelto, traeva spunti (talvolta solo meri stereotipi di materia retorica) per una osservazione il più possibile caustica e aggressiva della realtà circostante.
Fra le opere di questo periodo, peraltro non ancora compiutamente individuate e analizzate da un punto di vista critico, spicca il Dialogo sopra la nobiltà che, databile all’incirca al 1757, non è possibile dimostrare se sia stato proposto o recitato presso i Trasformati. Anche il Dialogo si rifà a modelli cinquecenteschi seppure, per l’esplicita impostazione ideologica, esso si riallaccia anche ai grandi pensatori dell’Illuminismo francese (da Montesquieu a Voltaire e a Rousseau).
In effetti, questa volta sono posti uno di fronte all’altro, titolari di un vivace scambio dialettico, un nobile e un poeta entrambi giunti al termine della loro esistenza e anzi già deceduti e ospiti di una contigua sepoltura. Anche in questa sede il nobile, fedele a quell’abito di albagia e supponenza tipico della sua classe sociale, pretenderebbe di imporre la propria superiorità mentre il poeta ha buon gioco nello smontare i falsi convincimenti di quel preteso privilegio. Di fronte all’alterigia inconcludente dell’aristocratico, Parini ha buon giuoco a utilizzare le armi di un’appuntita razionalità e della critica storica: l’esito della discussione coincide con la resa del nobile, costretto a riconoscere l’erroneità delle proprie convinzioni, dal momento che la vera nobiltà – fuor dall’appartenere a una antica e gloriosa casata o nell’avere natali più o meno illustri – risiede nelle virtù e nei talenti che ogni uomo può manifestare nei suoi atti e guadagnare attraverso le proprie azioni, soprattutto in quelle spese a favore dei propri simili.
Da ricondurre all’ambiente dell’Accademia dei Trasformati sono anche le Odi, composte fra gli anni Cinquanta e Sessanta, ma stampate solamente in un secondo tempo: dapprima nel tomo XIII delle Rime de gli Arcadi (Roma 1780) e quindi riunite in volume (Milano 1791). Si tratta di testi di spiccata ispirazione sociale e riformatrice – si rammentino almeno: La salubrità dell’aria (1759), L’impostura (1761), La musica (1761-64), L’innesto del vaiuolo (1765), e ancor prima La vita rustica (1758) – laddove la volontà di un’austera denuncia morale, se non proprio di protesta, e l’interesse sollecito e sincero per il bene pubblico si sposano con una scrittura poetica alla ricerca di un realismo quasi mai prima d’ora praticato attraverso il linguaggio lirico.
Si trattava infatti di interpretare quello spirito di collaborazione intellettuale e quel movimento di riforma che allora aleggiava soprattutto in alcune zone del territorio della Penisola rese più permeabili all’influsso delle idee di progresso e di rinnovamento antioscurantista di cui era portatrice nell’Europa più colta la filosofia dei lumi. La Lombardia (e Milano in particolare) era una di queste zone e, pur con tutti i suoi limiti (che Parini anni dopo seppe interpretare con un tono accorato di rimpianto nell’ode intitolata La tempesta), a partire dalla metà del secolo, conobbe un impulso straordinario verso la programmazione di un più moderno assetto economico-amministrativo dello Stato imperiale, cui gli uomini di cultura, gli studiosi di economia e i giuristi più impegnati dettero un contributo in talune circostanze determinante.
Parini per suo conto, come pochi altri letterati e poeti del suo tempo, fu capace di indirizzare questo moto di ideologia indubbiamente progressiva nell’alveo di un genere poetico che si collegava strettamente con la recente tradizione arcadica, nonché con le convenzioni e le procedure letterarie che si erano venute sviluppando dalla melica e dal melodramma metastasiani. In effetti, è sulla base dell’impegno culturale e civile ch’egli, in quel particolare contesto storico, interpreta un ruolo (il proprio, e dunque un mestiere) che divenne esso stesso un tema vero e proprio della sua scrittura poetica. Proprio nelle odi Parini trovò modo di sollevare una nutrita serie di temi (mai astratti) e di questioni capaci di coinvolgere (e non solo virtualmente) strati sempre più larghi di cittadinanza, nell’intento di una razionale promozione di un sapere che non fosse estraneo allo sviluppo delle scienze: dal lusso come possibile vettore di sviluppo economico alla salute dei cittadini rispetto alle nuove tecniche di coltura applicate sui terreni suburbani, dalle evirazioni dei giovani avviati alla carriera teatrale all’inoculazione del vaiuolo, fino al bisogno e al disagio economico come movente di devianza e di reato (tema prettamente alla Beccaria), donde l’implicita condanna di ogni forma di più clamorosa diseguaglianza sociale e invece il pregio morale assegnato a un tenore di vita improntato a toni di moderazione e sobrietà.
Nel Milanese, peraltro, sono anni questi che vedono realizzarsi le maggiori riforme dell’assolutismo teresiano sia in campo economico sia nel settore dell’organizzazione dello Stato che pure resta fortemente centralizzato ed eterodiretto dalla capitale viennese. Parini, dal canto suo, non rimase estraneo a questo, per taluni aspetti, straordinario processo riformatore licenziando i due (poi celeberrimi) poemetti del Mattino (composto di 1083 sciolti e uscito anonimo nel 1763 presso lo stampatore Antonio Agnelli di Milano) e del Mezzogiorno (uscito nel 1765 sempre anonimo a Milano per i tipi questa volta di Giuseppe Galeazzi) che, pur presentandosi come il risultato di una disamina acremente satirica della società contemporanea, ambiscono sotto traccia alla promozione di un atteggiamento più collaborativo e impegnato da parte di quell’aristocrazia lombarda apparsa fino a quel momento meno coinvolta (se non proprio distratta o assente) in tali processi. I due poemetti, che per l’indiscutibile e subito riconosciuta eccellenza letteraria segnano il definitivo accredito del loro autore come uno dei maggiori poeti milanesi, avrebbero dovuto far parte di un progetto poematico (Il Giorno) comprendente anche un terzo poemetto (La Sera) che, pur annunciato un anno dopo in una lettera del poeta del 10 settembre 1766 a Paolo Colombani, libraio di Venezia, e forse in gran parte già elaborato, non venne poi mai più dato alle stampe.
Le condizioni economiche del Parini, nel frattempo, nonostante i riconoscimenti e la fortuna arrisa alla sua ultima poesia, non parvero migliorare granché. Lasciata casa Serbelloni nel ’62, anche a seguito di un diverbio con la duchessa, il poeta passò momentaneamente al servizio dell’Imbonati che lo assegnò come precettore del figlio Carlo ancora adolescente. Specie dopo la morte di Giuseppe Maria Imbonati (1768) e dopo il venir meno delle attività dell’Accademia che proprio nel suo palazzo di città venivano organizzate, Parini si decise a trarre vantaggio dalle opportunità che potevano presentarglisi nel quadro della vasta riforma dell’insegnamento superiore promosso in Lombardia dal governo imperiale. E se dapprima, nel 1767, egli non si era sentito di accettare l’offerta del ministro del duca di Parma Guillaume Du Tillot a ricoprire una cattedra di eloquenza e logica nell’Università di Parma, in seguito e di buon grado egli intese partecipare attivamente al rinnovamento dell’intero sistema dell’istruzione pubblica.
Notevole, a questo proposito, l’impulso dato dalle autorità governative a tutto il settore: oltre allo sviluppo dell’ateneo di Pavia, si provvide anche a incrementare il numero delle cattedre delle scuole Palatine di Milano che nel corso del 1769 furono portate a dodici. Fra queste, venne creata anche una cattedra di eloquenza e belle lettere affidata proprio a Parini (così come accadde ad altri illustri studiosi: ad esempio Cesare Beccaria ricoprì la nuova cattedra di economia e commercio, mentre Paolo Frisi quella di meccanica idraulica e architettura). In qualità di regio professore, il 6 dicembre 1769, tenne la sua prolusione quasi subito passata alle stampe con il titolo Discorso recitato nell’aprimento della nuova cattedra delle belle lettere dall’abate G. P., regio professore nelle pubbliche scuole Palatine di Milano (Milano 1769). Tre anni più tardi le Palatine, dapprima allogate nella loggia dei Mercanti, furono trasferite nel palazzo di Brera assumendo pertanto il nome di regio ginnasio di Brera e qui Parini, a partire dal 1777, all’interno di quel vasto palazzo un tempo collegio della Compagnia di Gesù, poté occupare un appartamento dove abitò fino in ultimo, avendo continuato nel suo insegnamento (dal 1786 esteso pure agli studenti dell’Accademia di Belle Arti) anche dopo la sua nomina a sovrintendente delle scuole di Brera.
Per più di un quindicennio il poeta, a far data dai mesi successivi alla pubblicazione del Mezzogiorno, preferì impegnarsi in vari incarichi pubblici (alcuni dei quali piuttosto delicati e di indubbio prestigio), incarichi e commissioni che il governo imperiale (e in specie il ministro plenipotenziario Carlo di Firmian che a lui guardava con molta stima e fiducia) volle assegnargli. E ciò anche di là dalle sue specifiche competenze didattiche, di fatto trascurando (o, se si vuole, non curando come un tempo) l’esercizio letterario e la privata e più ispirata scrittura poetica. Più di recente è stato Gennaro Barbarisi (cui si deve fra l’altro l’allestimento di una edizione critica finalmente affidabile delle prose pariniane) a dare un quadro sinteticamente esauriente di queste svariate e spesso misconosciute attività.
La carriera era iniziata all’indomani della pubblicazione del Mezzogiorno, fra il 1766 e il 1767, con alcune consulenze al Supremo Consiglio di economia, che toccano delicati problemi come l’organizzazione del lavoro nelle fabbriche e la distinzione fra istruzione artistica e professionale, ed era proseguita senza soluzione di continuità: i piani per l’Accademia delle belle arti di Mantova per l’Accademia di agricoltura e manifatture; la nomina a poeta e a revisore di testi del teatro Ducale nel 1768 e alla fine dello stesso anno la redazione della Gazzetta di Milano svolta per tutto l’anno seguente, quando subentrò l’assegnazione per l’insegnamento di belle lettere alle scuole Palatine, svolto anche dopo il trasferimento nel palazzo di Brera (1773) e la fusione con il regio ginnasio (1786); la stesura nel 1770 del Piano per l’ordine e il metodo dell’insegnamento e l’indicazione dei libri «elementari» per lo studio dell’eloquenza; la stesura dell’Ascanio in Alba per le nozze arciducali nel 1771 e la Descrizione delle relative feste; la partecipazione, dal 1774, alla commissione per la riforma dei libri «elementari» scolastici, e nel 1775 alla commissione esaminatrice presso le scuole di retorica, umanità e grammatica di Cremona e Como; l’assegnazione nel 1776 dell’insegnamento presso l’Accademia di Brera e la collaborazione con Cesare Beccaria alla stesura del piano e delle leggi di un’Accademia di agricoltura e manifatture (la futura Società patriottica, per la quale egli poi si occupò, tra l’altro, anche del conio del sigillo, della patente, del regolamento per i soci corrispondenti). A questo si erano sempre aggiunti l’esame di manoscritti e la correzione di testi governativi, il parere sui libri scolastici, le varie consulenze, di cui non ci sono rimasti i documenti, la presenza in varie commissioni di concorso.
Completa questo denso panorama di attività professionali la collaborazione con gli artisti di Brera, particolarmente intensa dopo la dettatura del soggetto per il telone del teatro alla Scala nel 1778, e che lo vide impegnato per un paio d’anni nel palazzo di Corte, e poi successivamente nei palazzi Greppi e Confalonieri (1780), nel palazzo Belgioioso (1782), nel nuovo palazzo Belgioioso (poi Villa reale, 1790): un lavoro che andava oltre la semplice dettatura dei soggetti, concepiti all’interno di un discorso unitario secondo criteri di decoro morale e con intenti celebrativi di modelli di vita esemplare, e che prevedeva una costante presenza al fianco degli esecutori, come si può dedurre dalla lettura sincronica dei testi e delle relative immagini (v. G. Barbarisi, in Storia della letteratura italiana, VI, Il Settecento, Roma 1998, pp. 630-633).
Per quanto la musa pariniana mai avesse cessato del tutto di farsi viva, il nostro visse con piena soddisfazione umana e professionale gli anni posti sotto l’egida del moderato riformismo teresiano. Dopodiché, nel decennio successivo, fino al 1790, salito al soglio imperiale Giuseppe II e quindi in un clima di rapidi (e spesso azzardati) cambiamenti e di riordino dell’apparato statale, egli temette, come altri funzionari del governo asburgico, di perdere il suo ruolo e le prerogative così faticosamente conquistate (timore di cui è riflesso la studiata allegoria che regge l’ode La tempesta). Ma non accadde niente di irreparabile e così il poeta poté riprendere con rinnovata energia assieme alle proprie cariche anche la sua attività letteraria recuperando fra l’altro le stampe dei suoi primi due poemetti del Giorno con l’intenzione di portare a compimento l’intera struttura poematica, ma non più articolata in tre parti (Il Mattino, Il Mezzogiorno, La Sera) bensì in quattro (Il Mattino, Il Meriggio, Il Vespro, La Notte): un disegno che, come è noto, non giunse mai a buon fine.
Trascorsero dunque molti anni prima che il poeta si inducesse a riprendere il lavoro intorno al poema: almeno un quindicennio, dal 1765 al 1780, impiegato e vissuto da un Parini soprattutto interessato a rivestire un ruolo istituzionale di un certo prestigio che gli avrebbe consentito, fra l’altro, lui ancora angustiato da provinciale e scontrosa riservatezza, di acquistare quell’autostima sociale e quel minimo di agiatezza economica cui la fama letteraria raggiunta gli faceva ormai legittimamente aspirare.
Questa seconda e ancora incompiuta redazione del Giorno (elaborata a partire dai primi anni Ottanta e mai data alle stampe e perciò affidata esclusivamente ai frammentari manoscritti autografi poi diventati patrimonio della Biblioteca Ambrosiana di Milano) rispondeva ora a criteri di poetica non più in linea (come quei due primi poemetti) con un’ideologia tendenzialmente progressiva e riformatrice, improntata cioè a quella forma di impegno collaborativo (tra intellettuali di orientamento illuminista e uomini di governo) tipica di certa intellighenzia milanese degli anni Sessanta. In questa seconda redazione il testo, pur senza cedere di un ette nella denuncia antinobiliare che già caratterizzava il ‘primo’ Giorno, fu assai più decisamente orientato a un criterio di letteraria elezione di sapore neoclassico.
Donde l’impossibilità di procedere, da parte dei postumi editori, posti di fronte al compito di offrire dei quattro poemetti una compagine poematica finalmente completa (se non proprio organica), a tentativi di contaminazione o addirittura di integrazione fra il testo di questa seconda redazione e quello della precedente (costituito, come si è visto, dalla stampa dei due primi poemetti). Non così si comportarono per la verità gli editori (nessuno escluso) i quali, a partire proprio dalla tempestiva edizione andata in stampa a soli due anni dalla morte del poeta (Opere di G. P., pubblicate ed illustrate da Francesco Reina, I-II, Milano, 1801-04), si mossero in direzione opposta contaminando, se pur in misura diversa, il Giorno delle stampe con quello dei manoscritti e confidando illusoriamente, in tal modo, di poter offrire un testo il più organico e completo possibile.
Chi pose su più corrette basi metodologiche un’edizione del Giorno filologicamente affidabile fu Lanfranco Caretti nel 1951 in un breve intervento comparso in Studi di filologia italiana (poi in Id., Filologia e critica: studi di letteratura italiana, Milano-Napoli 1955, pp. 151-160). Bisognò tuttavia attendere fino al 1969 per disporre di una vera edizione critica, che apparve per la collana «Documenti di filologia» dell’editore Ricciardi (G. Parini, Il Giorno, edizione critica, I-II, a cura di D. Isella, Milano-Napoli 1969): Dante Isella, in sostanziale concordia d’intenti con l’impostazione data da Caretti al problema filologico, fornì per la sua edizione due distinti volumi rispettivamente dedicati, il primo alle stampe dei primi due poemetti, e il secondo alla redazione quadripartita dei manoscritti.
Con il nome di Darisblo Elidonio, già dal 1777 Parini era stato accolto nella romana Accademia dell’Arcadia, facendo stampare qualche tempo dopo, nel XIII tomo delle Rime de gli Arcadi (Roma 1780), un’ode (La vita rustica) e quindici sonetti, alcuni dei quali tratti dal suo antico libretto di Ripano Eupilino. Intanto anche il novero delle Odi venne allargandosi fino a formare un vero e proprio volume che uscì a stampa dapprima con ventidue pezzi per le cure dell’allievo e amico Agostino Gambarelli (Milano 1791) e quindi, per le cure altrettanto affettuose dell’altro discepolo Giuseppe Bernardoni (Milano 1795), in un’edizione finalmente esaustiva comprendente – oltre alle odi già menzionate afferenti agli anni Cinquanta-Sessanta e a un certo numero di testi celebrativi che denunciano una loro studiata e a volte esorbitante compagine retorica – tre canzoni di intonazione alta e quasi pindarica (La Laurea, datata 1777, La Magistratura, del 1788 e La Gratitudine, del 1791), nonché poche altre poesie disposte su di una linea compositiva più leggera, sonante e occasionale (v. Il piacere e la virtù, del 1771, o Il Brindisi e Le nozze, del 1777).
Si è soliti riconoscere a molte fra le odi restanti dell’ultimo periodo (rispetto ai componimenti degli anni Sessanta) una disposizione più aperta alla sfera personale, anche in virtù di un dettato meno compassato. Da sempre Parini non si era peritato di rendere omaggio alla bellezza muliebre di alcune amiche (come Teresa Angiolini Fogliazzi, Teresa Mussi, Francesca Castelbarco Simonetta) indirizzando loro componimenti talvolta piuttosto espliciti nelle espressioni di una passionalità non propriamente platonica, ma poi negli ultimi tempi quella sua più accesa vena amorosa viene stemperandosi in un sentimento di più elegante e rasserenata (ma mai superficiale) galanteria, come risulta evidente nelle sue tre ultime odi (Per l’inclita Nice, 1793; A Silvia e Alla Musa, 1795), da sempre considerate, a ragione, l’apice della sua lirica più ispirata.
Nel 1796, al momento dell’ingresso delle truppe francesi in Milano, istituita che fu la Municipalità, Parini venne chiamato a farne parte insieme con altri insigni esponenti della intellettualità milanese; fra questi Pietro Verri con cui, in gioventù, nei primi anni Sessanta e al tempo della pubblicazione del Caffè, non era corso buon sangue. Ormai anziani e non convinti del tutto di un incarico ricevuto per chiara fama, entrambi parteciparono ai lavori del Terzo comitato al quale era affidata fra l’altro la sovrintendenza delle scuole, degli archivi e dei teatri. Ben presto però, acuendosi le antiche difficoltà di salute, l’anziano poeta chiese e ottenne di essere esonerato e di tornare alle proprie occupazioni di insegnante.
A pochi mesi dal pur effimero ripristino in Lombardia del potere asburgico, a seguito della campagna condotta nell’alta Italia dalle truppe austro-russe della seconda coalizione antinapoleonica, Parini morì a Milano, nel proprio appartamento di palazzo Brera, il 15 agosto 1799.
Per sua esplicita disposizione la cerimonia funebre fu particolarmente austera e la sepoltura frugale. Tuttavia, stante la nuova disciplina in materia cimiteriale (contro la quale Ugo Foscolo si pronunciò nei celeberrimi versi dei Sepolcri), ben presto le sue ossa non furono più individuate nel cimitero di Porta Comasina dove erano state tumulate e la sua tomba pertanto venne fatalmente dimenticata. Con un testamento redatto il 15 ottobre 1798 il poeta aveva lasciato ai nipoti ogni suo avere compresi i propri manoscritti che però, all’indomani della sua morte, vennero in gran parte messi all’asta (quando non dispersi o dati alle fiamme come i numerosi carteggi fra i quali quello prezioso intrattenuto con Innocenzo Frugoni), cosicché Francesco Reina, uno degli allievi più fedeli (in quel torno di tempo imprigionato per opera degli occupanti austro-russi), solo con grande fatica riuscì ad acquistarne una parte, dando così avvio, una volta liberato, all’edizione integrale delle opere (quella uscita tra il 1801 e il 1804 in sei volumi presso il Genio tipografico di Milano) che, insieme alla biografia ivi compresa, decretò definitivamente la grande fortuna primottocentesca di Parini quale riconosciuto maestro di un’intera generazione di scrittori. I manoscritti pariniani, alla morte di Reina (1825), passarono nelle mani di Felice Bellotti e da questo ai suoi eredi fino a che, nel 1910, Cristoforo Bellotti non ebbe a donarli alla Biblioteca Ambrosiana di Milano dove, riordinati una prima volta da Guido Mazzoni in vista della sua edizione pariniana (Tutte le opere edite e inedite de G. P., raccolte da G. Mazzoni, Firenze 1925), sono tuttora conservati.
Opere. Le principali edizioni d’autore in volume sono: [G. Parini], Alcune poesie di Ripano Eupilino, Londra [i.e. Milan] 1752; [G. Parini], Al Padre Onofrio Branda milanese C.R. di S. Paolo e professore della Rettorica nella Università di S. Alessandro, Milano 1760; Il Mattino: poemetto, Milano 1763; Il Mezzogiorno: poemetto, Milano 1765; Odi dell’abate G. P. già divolgate, Milano 1791; Odi di P. Ultima ed. accr., Milano 1795.
La prima edizione complessiva delle opere è la celeberrima e già citata Opere di G. P., pubblicate ed illustrate da Francesco Reina…, I-VI, Milano 1801-04; dopodichè si veda: Tutte le opere edite e inedite di G. P., raccolte da G. Mazzoni, Firenze 1925. Fra le principali edizioni delle opere pariniane si ricordino almeno: Poesie di G. P., a cura di G. Carducci, Firenze 1858; Versi e prose di G. P., con un discorso di Giuseppe Giusti, Firenze 1860; Prose, I-II, a cura di E. Bellorini, Bari 1913-15; Poesie, a cura di Id., Bari 1929; Poesie e prose, con appendice di poeti satirici e didascalici del Settecento, a cura di L. Caretti, Milano-Napoli 1951; Opere di Giuseppe Parini, a cura di E. Bonora, Milano 1969; Il Giorno, edizione critica, I-II, a cura di D. Isella, Milano-Napoli 1969 (rist., con il commento di M. Tizi, Parma 1996); Le odi, ed. critica a cura di D. Isella, Milano-Napoli 1975. Altre importanti edizioni: La Gazzetta di Milano (1769), a cura di A. Bruni, Milano-Napoli 1981; Prose, I, Lezioni, Elementi di retorica, ed. critica a cura di S. Morgana - P. Bartesaghi, Milano 2003, e Prose, II, Lettere e scritti vari, ed. critica a cura di G. Barbarisi - P. Bartesaghi, Milano 2005; Alcune poesie di Ripano Eupilino; seguite dalle scelte d’autore per le rime degli arcadi e le Rime varie, con il saggio di G. Carducci…, a cura di D. Isella, Parma 2006; Le odi, a cura di N. Ebani, Parma 2010; Alcune poesie di Ripano Eupilino, a cura di M.C. Albonico, introduzione di A. Bellio, Pisa-Roma 2011; Lettere, a cura di C. Viola, Pisa-Roma 2013 (in collab. con P. Bartesaghi - G. Catalani). Fra le principali edizioni commentate: Le odi dell’abate G. P. riscontrate su manoscritti e stampe, prefazione e note di F. Salveraglio, Bologna 1881; Le odi di G. P., illustrate e commentate da A. Bertoldi, Firenze 1890 (poi, con presentazione di R. Spongano, Firenze 1970); Il Giorno e Odi scelte, a cura di R. Spongano, Torino 1947; Opere di G. P., a cura di E. Bonora, Milano 1967 (poi Il Giorno e le Odi, a cura di E. Bonora, Milano 1984); Il Giorno, Le Odi, a cura di G. Nicoletti, Milano 2012.
Fonti e Bibl.: Una prima, cospicua sistemazione del materiale bibliografico pariniano si trova in G. Carducci, Saggio di bibliografia pariniana (rispett. 1892 e 1903), poi in Id., Studi su G. P.: il P. minore, in Edizione nazionale delle Opere, XVI, Bologna 1937, pp. 371-432, cui segue, idealmente, da un lato la bibliografia contenuta in Tutte le poesie edite e inedite di G. P. raccolte da G. Mazzoni, cit., pp. XLI-LV, dall’altro G. Bustico, Bibliografia di G. P., Firenze 1929. Più di recente: L. Clerici, Bibliografia della critica e delle opere di G. P. (1947-1997), in Interpretazioni e letture del “Giorno”. Atti del convegno, Gargnano del Garda… 1997, a cura di G. Barbarisi - E. Esposito, Milano 1998, pp. 621-672. Fra le antologie di storia della critica si vedano inoltre: L. Caretti, P. e la critica, Firenze 19622; G. Petronio, P., Palermo 19622.Fra gli studi biografici: C.G. Scotti, Elogio dell’Abate G. P., già pubblico professore…, Milano 1801; Della vita e degli scritti di G. P., milanese lettere di due amici [L. Bramieri e P. Pozzetti], Milano 18022; L. Reina, Vita di G. P. (1801; da ultimo per cura di G. Nicoletti, Milano 2013); G. Fumagalli, Albo pariniano ossia Iconografia di G. P. raccolta e illustrata, Bergamo 1899 (rist., a cura di C. Marcora, Como 1979); V. Bortolotti, G. P.: vita, opere e tempi, con documenti inediti e rari, Milano 1900; A. Giulini, I manoscritti pariniani e l’edizione del Reina da carteggi del tempo (1929), in Id., Curiosità di storia milanese, Milano 1933, pp. 195-208; C.A. Vianello, La giovinezza di P., Verri e Beccaria, con scritti, documenti e ritratti inediti, Milano 1933; A. Vicinelli, P. e Brera. L’inventario e la pianta delle sue stanze. La sua azione nella scuola e nella cultura milanese del secondo Settecento, Milano 1963; R. Negri, Il P. e una serata dei Trasformati: il “Discorso sopra le caricature”, in Lettere italiane, XVII (1965), pp. 191-205; M. Zolezzi, Sulle relazioni di Pietro Verri con i Trasformati e il P. (1757-1765), in Aevum, XL (1967), pp. 114-152; G. Gaspari, L’Accademia dei Trasformati e G. P., in Storia illustrata di Milano, V, Milano moderna, a cura di F. Della Peruta, Milano 1983, pp. 81-97.
Fra i contributi critici, si vedano: U. Foscolo, G. P., in Saggio sulla letteratura contemporanea in Italia (1818), in Id., Edizione nazionale delle Opere, XI, parte 2ª, Firenze 1958, pp. 500-513; F. De Sanctis, G. P. (1871), in Id., Saggi ciritici, a cura di L. Russo, II, Bari 19794; A. Momigliano, P. discusso (1926), in Id. Studi di poesia, Bari 1938, pp. 105-111; G.B. Salinari, Una polemica linguistica a Milano nel sec. XVIII, in Cultura neolatina, IV-V (1944-45), pp. 61-92; L. Caretti, Nota sul testo del “Giorno” del P., in Studi di filologia italiana, IX (1951), poi in Id., Antichi e moderni. Studi di letteratura italiana, Torino 1976, pp. 213-222; P. Citati, Per una storia del “Giorno” , in Paragone, V (1954), pp. 3-28; W. Binni, P. e l’illuminismo (1956), in Id., Carducci e altri saggi, Torino 19672, pp. 79-92; S. Antonielli, Il gusto figurativo del P. (a proposito del “Messaggio”), in Belfagor, XXIV (1969), pp. 1-18; M. Fubini, Elementi scientifici del lessico poetico del P. (1969), in Id., Saggi e ricordi, Milano-Napoli 1971, pp. 78-120; N. Jonard, Guerre et paix dans l’œuvre de Parini à la lumière des relations internationales au XVIII siècle, in Riviste di letterature moderne e comparate, XXII (1969), n. 3, pp. 165-180; P.G. Beltrami, Appunti e ricerche sul metro della “Caduta”, in Giornale storico della letteratura italiana, CXLVIII (1971), pp. 334-371; D. De Robertis, Aurora pariniana (1973), in Id., Carte d’identità, Milano 1974, pp. 227-252; L. Sozzi, Petit-Maître e “giovin signore”: affinità fra due registri satirici, in Id., Saggi e ricerche di letteratura francese, XII (1973), pp. 153-230; W. Binni, La sintesi pariniana, in Id., Preromanticismo italiano, Bari 1974, pp. 17-47; F. Felcini, Dell’ordinamento e del canone delle “Odi” pariniane, in Studi e problemi di critica testuale, XVI (1978), pp. 99-127; S. Romagnoli, G. P. “primo pittor del signoril costume” (1980), in Id., La buona compagnia. Studi di letteratura italiana del Settecento, Milano 1983, pp. 178-202; H. Grosser, La cultura degli automi e i suoi riflessi nel “Giorno”, in Giornale storico della letteratura italiana, CLX (1983), n. 509, pp. 1-39; R. Martinoni, Per la protostoria del “Giorno” pariniano, in Filologia e critica, XIV (1989), pp. 223-232; E. Esposito, Aspetti stilistici dell’ironia pariniana, in Id., Studi di critica militante, Milano 1994, pp. 64-81; G. Carnazzi, Berneschi e satirici nella Milano del P. tra lingua tosca e “cruschell de Beltramm”, in Acme, I (1997), pp. 127-146; G. Nicoletti, Prove di satira nei sermoni pariniani (2000), in Id., Dall’Arcadia a Leopardi. Studi di poesia, Roma 2005, pp. 77-91 (ivi anche Per un’interpretazione della “Notte”, pp. 55-75).
Per le raccolte di studi critici e monografie: G. Agnelli, Precursori e imitatori del «Giorno» di G. P., Bologna 1888; E. Bellorini, La vita e le opere di G. P., Livorno 19262; E. Bertana, Saggi pariniani, L’Aquila 1929; G. Carducci, Studi su G. P.: il P. minore (1902), cit.; Id., Studi su G. P.: il P. maggiore, in Edizione nazionale delle Opere, XVII, Bologna 1937; D. Petrini, La poesia e l’arte di G. P. (1930) in Id., Dal Barocco al Decadentismo. Studi di letteratura italiana raccolti da V. Santoli, Firenze 1957, pp. 58-245; R. Spongano, La poetica del sensismo e la poesia del P., Bologna 19643; G. Petronio, P. e l’illuminismo lombardo, Bari 19722; N. Bonifazi, P. e il Giorno, Urbino 1966; L. Poma, Stile e società nella formazione del P., Pisa 1967; R. Amaturo, Congetture sulla «Notte» del P. In appendice i manoscritti ambrosiani criticamente ordinati, Torino 1968; D. Isella, L’officina della «Notte» e altri studi pariniani, Milano-Napoli 1968; S. Antonielli, G. P., Firenze 1973; E. Bonora, P. e altro Settecento. Fra Classicismo e Illuminismo, Milano 1982; N. Jonard, Introduzione a P., Roma-Bari 1988; R. Leporatti, Per dar luogo alla notte. Sull’elaborazione del «Giorno» del P., Firenze 1990; M. Tizi, La lingua del «Giorno» e altri studi, Lucca 1997; Interpretazioni e letture del «Giorno», cit.; L’amabil rito. Società e cultura nella Milano di P., I-II, a cura di G. Barbarisi et al., Milano 2000; C. Annoni, La poesia di P. e la città secolare, Milano 2002; G. Carnazzi, Forse d’amaro fiel. P. primo e satirico, Milano 2005; P. Gibellini, P.: l’officina del «Giorno», Brescia 2010.