PIAMONTINI, Giuseppe
– Nacque il 3 gennaio 1663 nella parrocchia di S. Michele Visdomini a Firenze, figlio del legnaiolo Andrea di Domenico e di Caterina Angiola Farsi (Bellesi, 1991, p. 34 nota 5).
In una nota autobiografica (Lankheit, 1962, p. 232, doc. 46) scritta nel 1718 e non nel 1714 (Zikos, 2005a, p. 37 nota 83) per l’edizione del 1719 dell’Abecedario pittorico di Pellegrino Antonio Orlandi, Piamontini informava di essere stato allievo di Giovan Battista Foggini (1652-1725) prima che Cosimo III, granduca di Toscana, lo inviasse a Roma, nel novembre del 1681, per continuare gli studi nell’accademia dal lui fondata nel 1673 in palazzo Madama.
Poiché Foggini tornò a Firenze nel 1676, dopo aver studiato nella stessa accademia, Piamontini dovrebbe essere entrato nella sua bottega tra il 1676 e il 1681, quando il maestro andava completando la Gloria di s. Andrea Corsini, pala d’altare marmorea messa in opera nel 1679 nella cappella Corsini in S. Maria del Carmine, ed è ragionevole supporre che Piamontini lo assistesse in questa impresa acquisendo una precoce conoscenza del linguaggio e delle tipologie del barocco romano comuni agli scultori toscani della sua generazione.
L’iniziale apprendistato presso Foggini è riferito anche nella biografia di Ercole Ferrata scritta da Filippo Baldinucci (1728, p. 528), in cui la promessa di scrivere «a suo luogo» sull’artista – ripetuta anche dal figlio Francesco Saverio (Baldinucci, 1725-1730 circa, 1975, p. 387) – non fu mantenuta. La voce di Orlandi (1719) e quella compilata nel 1739 da Francesco Maria Niccolò Gabburri (1739) sono gli unici resoconti sulla carriera dell’artista scritti durante la sua vita.
Gabburri è il solo a riferire di un’opera realizzata da Piamontini nel corso del suo apprendistato: un marmo scolpito a quattordici anni per il gran principe Ferdinando di Cosimo III (1663-1713), andato perduto, ma identificabile con il «bambino di marmo» presentato come dono dal padre di Giuseppe dopo qualche anno (1680) e per il quale il gran principe offrì una piccola somma a entrambi (Bellesi, 1991, p. 34 nota 7; Zikos, 2005a, p. 37; Bellesi, 2008, p. 13 nota 7). L’opera è probabilmente il «sehr artiges sitzendes Kind, welches Piamontini gemacht hat» («un bambino seduto, molto bello, fatto da Piamontini») che Nicodemus Tessin il Giovane vide nella villa di Pratolino durante il suo secondo soggiorno fiorentino, sul finire del 1687 (1673-77, 1687-88, 2002, p. 270).
Piamontini rimase nell’accademia di palazzo Madama fino al 1686 ed ebbe come insegnanti Ercole Ferrata (1610-1686) e Ciro Ferri (1633-1689). Sebbene egli ricordi soltanto il primo nella sua nota per Orlandi, le sessioni di disegno condotte da Ferri erano una parte essenziale dell’insegnamento accademico. Sembra anzi che con il maestro, del quale già nel 1685 aveva conquistato la stima (Lankheit, 1962, p. 267, doc. 247), avesse instaurato un rapporto di amicizia, tanto da condividere momenti conviviali con lui e Carlo Maratti (Baldinucci, 1725-1730 circa, 1975, p. 310). In seguito ne collezionò i disegni, come suggeriscono i documenti (Sacchetti Lelli, 2005, p. 323, n. 86; Zikos, 2005a, p. 38 nota 91; Sicca, 2008, p. 41).
Lo studio dell’«Antico grecho», vale a dire le antichità greche e romane, che Piamontini dichiarava di aver appreso con Ferrata (Lankheit, 1962, p. 232, doc. 46), era, nella prassi accademica, affiancato dallo studio e dalla copia delle opere degli old masters, motivo per cui l’œuvre dello scultore ha un carattere retrospettivo e include copie palesi da Raffaello e riferimenti alle sculture e ai dipinti di Michelangelo.
Nella prima categoria si annoverano i dodici medaglioni perduti con Storie dell’Antico Testamento tratte dalla loggia di Leone X in Vaticano, che nel Settecento si trovavano a Bologna (Zikos, 2005a, p. 38 nota 94). I modelli per sei di questi potrebbero essere gli stessi di altrettanti rilievi in stucco dorato apparsi sul mercato antiquario e attribuiti da Mara Visonà (Arredi…, 2002; M. Visonà, in Bellesi-Visonà, 2008, I, p. 69, p. 83 nota 21). Parimenti tratti dalla loggia sono altri due rilievi in bronzo di diverso formato, Salomone e la regina di Saba e Il ritrovamento di Mosè (Londra, Victoria and Albert Museum) riconosciuti a Piamontini da Jennifer Montagu (1974, pp. 8 ss.).
La prima prova autonoma che Piamontini si trovò a fronteggiare nell’ambito dell’accademia fu il modello di un bassorilievo, al pari degli altri allievi scultori. Un suo rilievo, di cui non è noto il soggetto, venne esposto a Roma, all’Accademia di S. Luca, il 18 ottobre 1682 (Lankheit, 1962, p. 262, doc. 190), probabilmente lo stesso che, secondo Filippo Baldinucci, vinse il primo premio (1728, p. 527). Due rilievi in cera, ugualmente perduti, furono spediti a Firenze il 3 novembre 1682 per testimoniare i progressi del giovane allievo (Lankheit, 1962, p. 262, doc. 192). Un anno dopo, il 6 novembre 1683, Piamontini aveva «formato un basso rilievo di un Giove, che è stimato cosa bella: vorrebbe fonderlo di cera, e, se poi fosse gusto del Padrone Serenissimo [Cosimo III], gettarlo di bronzo» (p. 262, doc. 202). Il soggetto sarebbe stato ricorrente nella carriera dell’artista, come pure l’abilità a lavorare indifferentemente in marmo e in bronzo, prerogativa che egli condivise con Foggini e con il loro comune maestro, Ferrata. Il proposito di produrre un bronzo aveva avuto un immediato precedente in Foggini: la Crocifissione (Firenze, Palazzo Pitti, Museo degli argenti) concepita per un marmo, ma poi gettata in bronzo dopo l’arrivo del modello in cera a Firenze nel febbraio del 1677 (pp. 253 s., docc. 103-104, 116-120), durante la permanenza di Piamontini nella bottega di Foggini.
Cosimo III rifiutò la proposta ed esortò il giovane a studiare «nuovi modelli» (p. 262, doc. 203). L’opportunità di iniziare un’importante scultura giunse poco prima del 21 ottobre 1684, quando Ferrata, avendo deciso che l’allievo era avanzato a un livello tale da affrontare un marmo, presentò al residente del granduca a Roma un preventivo di 57 scudi per il relativo blocco (p. 263, doc. 209). Del progetto non si hanno altri particolari. Dopo la morte di Ferrata, 11 luglio 1686, che suggellò la fine dell’accademia di palazzo Madama, Piamontini auspicava di continuare gli studi a Roma con Ferri (p. 266, doc. 240) proseguendo il lavoro alla statua fino all’inizio di settembre, mentre attendeva la decisione del sovrano. La statua si trovava nello studio di Ferrata, dalla cui eredità, che Piamontini ben conosceva per essere stato presente all’ultima fase della stesura dell’inventario dei beni (Roma, Archivio storico Capitolino, Archivio Urbano, sez. XIX, prot. 64, c. 23v), ricevette «molte belle cose» (Lankheit, 1962, p. 266, docc. 242, 244; Pascoli 1730).
All’incirca nel suo ultimo anno a Roma Piamontini fu coinvolto nella commissione di Cosimo III di 14 tondi di terracotta rappresentanti gli episodi della Via Crucis realizzati su disegni di Ferri e destinati al convento di S. Pietro d’Alcàntara a Montelupo Fiorentino. Il granduca volle che il rilievo dei tondi fosse molto basso (come nella Decapitazione di s. Paolo inserita da Alessandro Algardi nel paliotto dell’altare maggiore di S. Paolo Maggiore a Bologna), e poiché essi dovevano essere esposti all’aperto, entro tabernacoli lungo la strada che conduceva al convento, richiese che fossero invetriati ravvivando un’antica tradizione fiorentina, sebbene l’impresa si attuasse a Roma. Commissionati nel maggio 1685 (Lankheit, 1962, p. 263, doc. 212), vennero spediti il seguente 7 dicembre in Toscana (p. 265, doc. 225). A Piamontini furono assegnati i rilievi con l’Elevazione della croce, la Deposizione nel sepolcro (Montelupo Fiorentino, chiesa dei Ss. Quirico e Lucia all’Ambrogiana), la Terza caduta di Cristo (poi eseguita da Giovanni Camillo Cateni) e la Flagellazione di Cristo alla colonna. Di quest’ultima, ora dispersa, si conservano il calco in cartapesta (già mercato antiquario), ricavato dal modello originale o dalla terracotta invetriata, e un bozzetto in cera attribuito a Ciro Ferri (Visonà, 1976, pp. 65 ss.).
Filippo Baldinucci informava che Piamontini «ha in Roma di sua mano un gran modello di un Giove sopra un’aquila, in atto di comandare» (1728, p. 527). Sebbene dal riferimento si possa dedurre che fosse questa la statua alla quale Piamontini stava lavorando a Roma nel 1686, sembra più verosimile pensare al S. Giovanni Battista destinato al battistero fiorentino, iniziato a Roma e completato a Firenze, come testimoniava Francesco Bonazzini nel suo diario (Visonà, 1976, pp. 66, 69 nota 56 ). L’aver realizzato il S. Giovanni e il «gran modello» mentre era ancora studente è segno che egli combinò precocemente talento e ambizione.
Verso la metà di ottobre del 1686 Piamontini tornò a Firenze e, per quanto ne sappiamo, non l'abbandonò più anche se inviò opere fuori città, stando al suo abbozzo autobiografico, e scolpì marmi per Pistoia. Portò con sé una raccomandazione per Cosimo III da parte di Ferri (Lankheit, 1962, p. 267, doc. 247) e di Paolo Falconieri (Goldberg, 1983, pp. 171, 343 nota 131), attestati di stima forse favoriti dal carattere mite del giovane (Lankheit, 1962, p. 265, doc. 229). In risposta all’elogio di Ferri, Cosimo III scrisse che avrebbe favorito Piamontini (p. 267, doc. 248). Infatti, poco dopo, il 28 gennaio 1687, il granduca gli assegnò un modesto salario mensile di 2 scudi e uno spazio per lavorare (p. 286, doc. 364), ma già prima di questa data gli aveva commissionato la statua di un Cristo morto in alabastro «alla quale ha Sua Altezza fatto dar luogo sotto l’altare di sua privata cappella» (Baldinucci, 1728, p. 527). Il bozzetto era pronto il 24 gennaio (Lankheit, 1962, p. 286, doc. 363). L’opera, ora conservata in Palazzo Pitti (Bellesi, 2008, pp. 16 ss.), era ancora in lavorazione il 16 febbraio 1687, quando lo scultore, lamentando di doverla comporre con tre pezzi di differenti colori, propose di realizzarla piuttosto in marmo o in bronzo (Lankheit, 1962, p. 286, doc. 365). La proposta, che non ebbe seguito, anticipa una costante nella carriera dell’artista, che utilizzò frequentemente lo stesso modello per scolpire in marmo o fondere piccoli bronzi. Un mese dopo – il Cristo non era ancora completato – lo scultore si era già trasferito nei locali a lui assegnati dal granduca e stava lavorando al restauro di una statua antica per un collezionista privato (p. 286, doc. 366).
Nel 1688, alla vigilia della festa di S. Giovanni Battista, fu inaugurata la statua del santo, grande più del naturale (Visonà, 1976, p. 66), collocata nel battistero dove ancora è conservata.
Nel settembre 1688 lo scultore Damiano Cappelli morì e poco dopo, il 23 dello stesso mese, Piamontini presentò formale richiesta di utilizzare due stanze del suo studio situato nel complesso della Sapienza accanto al convento della SS. Annunziata (Zikos, 2005a, pp. 41, 61 ss., doc. 7), limitrofe agli spazi della propria bottega.
Già nel tardo 1687, visitando la bottega dello scultore, Tessin il Giovane vide «viele brontz Modellen zu kauff aber nichtes besonders» («tanti modelli in bronzo da comprare ma niente di particolare»), fusioni del nostro (1673-77-1687-88, 2002, p. 279; Montagu, 1974, p. 4 nota 8), informazione supportata da altre fonti (Bellesi, 2008, p. 20 nota 32).
Dopo l’inaugurazione del S. Giovanni Battista e l’assegnazione della bottega, Piamontini fu immatricolato nell’Accademia del disegno il 2 febbraio 1689 e divenne accademico il 27 dello stesso mese (Gli accademici del disegno, 2000; Bellesi, 2008, p. 20).
Da una lettera del 13 marzo 1689 indirizzata ad Apollonio Bassetti, si apprende che egli non solo stava per completare la nicchia, ora scomparsa, atta ad accogliere la statua del S. Giovanni, ma aveva anche quasi terminato quattro busti per il gran principe Ferdinando (Lankheit, 1962, p. 286, doc. 368). Nella stessa lettera l’artista pregava Bassetti di raccomandarlo al granduca per ottenere nuovi lavori perché non aveva «altre occasioni»: sintomatica denuncia di una committenza ufficiale latitante per la scultura sotto gli ultimi granduchi medicei.
Piamontini, tuttavia, sembra avesse trovato nel gran principe un mecenate attento, come dimostrano i suoi libri di conti contenenti diversi pagamenti riscossi tra il 1690 e il 1704, anche se non è sempre chiaro a quali lavori si riferiscano (Zikos, 2005a, p. 47).
I quattro busti in via di compimento sono stati messi in relazione con «i quattro bellissimi busti di femmine, vagamente ornate d’acconciature e pannicelli graziosissimi», menzionati da Filippo Baldinucci (1728, p. 527), tre dei quali identificati nei Busti muliebri su basi di marmo giallo di Siena in Palazzo Pitti (Bellesi, 1991, pp. 22 ss.; Id., 2003, pp. 500 s., nn. 22-24; Id., 2008, pp. 20 ss.). Primi esempi di un genere che in seguito conobbe ampia diffusione, questi busti ideali sono opere alle quali si adatta perfettamente la «pastosa tenerezza» con cui Gabburri (1739) caratterizzava lo stile dell’artista, e sono impensabili nella Firenze di quegli anni se non come frutto del mecenatismo del gran principe. Sandro Bellesi (2008, pp. 21-24) li ha collegati allo stile del pittore Pier Dandini (1646-1712), la cui cerchia di amici, artisti e studiosi, Piamontini frequentò prima della morte del pittore con il quale spesso condivise gli stessi committenti. La consistenza della produzione di opere simili da parte di Piamontini è ancora oggi oggetto di dibattito (Bellesi, 1991, pp. 23-26; Zikos, 2001, pp. 46-57; Bellesi, 2008, pp. 20-24, 31-35; M. Visonà, in Bellesi-Visonà, 2008, I, pp. 70 s., II, pp. 38 s., n. I.2 e passim).
Le opere successive furono due dei più ambiziosi marmi di Piamontini: le statue allegoriche della Fortuna nautica e del Pensiero, sedute ai lati del sarcofago alla parete nord della cappella Feroni nella SS. Annunziata. Completate prima del 21 marzo 1693, giorno dell’inaugurazione della cappella, richiesero due anni d’intenso lavoro, dal momento che il contratto per l’acquisizione della cappella fu sottoscritto dal marchese Francesco Feroni il 28 giugno 1691 (Visonà, 1990b, pp. 223, 227). La decorazione della più sfarzosa tra le cappelle private fiorentine del tempo fu commissionata dallo stesso Feroni, depositario generale del granduca, arricchitosi con il commercio navale, e fu compiuta sotto la soprintendenza di Foggini e con il coinvolgimento di molti scultori che avevano studiato nell’accademia di palazzo Madama (incluso Massimiliano Soldani, che realizzò il medaglione bronzeo retto dalla Fortuna nautica).
Lo stesso anno del completamento delle statue Feroni, il 27 aprile 1693, Piamontini firmò un contratto in cui si impegnava a scolpire in sei mesi la statua del S. Marco destinata alla navata della chiesa dei Ss. Michele e Gaetano (Chini, 1984, p. 304, doc. 40). Fu il primo di sei marmi, due statue di santi e quattro rilievi narrativi, con cui egli contribuì alla decorazione dello spazio interno della chiesa dei teatini. I due rilievi, pagati l’8 ottobre 1696, sono stati individuati da Ezio Chini in S. Marco in atto di predicare e S. Marco trascinato al supplizio (pp. 217-219, 305 s., doc. 41). Un anticipo per un terzo rilievo, recante la data 7 marzo 1697, si riferirebbe al Martirio di s. Bartolomeo, messo in opera nella navata della chiesa nel settembre 1698 (ibid.). Ancora del Piamontini, per ragioni di stile, sono il più tardo S. Giuda Taddeo e il relativo rilievo con il Martirio di s. Simone e s. Giuda Taddeo, completati probabilmente intorno al 1702 (ibid., pp. 218 ss.).
Nel 1695, il 2 settembre, nacque il figlio Giovanni Battista, che ereditò in seguito la bottega paterna (Bellesi, 2008, p. 42 nota 92).
Altre quattro grandi statue religiose risalgono al volgere del secolo, testimonianza del crescente apprezzamento del suo lavoro. Tradizionalmente riferito a Piamontini è il S. Francesco di Paola, oggi nel piazzale d’ingresso all’ex convento omonimo presso Bellosguardo, terminato entro il 5 luglio 1695 (Bellesi, 2008, p. 42 note 94-95), di cui esiste un’altra versione ora sulla facciata della chiesa della Misericordia di Pistoia (Di Zanni, 2004, p. 55; Ead., 2009, fig. a p. 474, con un’attribuzione a Giovannni Battista Piamontini). Al 1696 risale il completamento del S. Fiacre per il giardino della villa medicea della Topaia ([Bellesi], 1993, I, p. 94; Spinelli, 2003; Bellesi, 2008, pp. 43 ss.), che sembra essere stato commissionato da Cosimo III nel contesto del rinnovamento della villa diretto da Foggini. Siglata «G. Pia.» e datata 1700 (Casalini, 1973) è un’altra statua di S. Francesco di Paola, dal 1857 nella cappella Guadagni della SS. Annunziata, ma forse proveniente dal convento dei minimi di Pistoia (Bellesi, 2008, p. 43). Tutte e tre sono immagini piuttosto convenzionali e stereotipate, fissate in un leggero contrapposto. In nessun modo preannunciano il capolavoro della statuaria religiosa del Piamontini, il gruppo monumentale di S. Bernardo che calpesta il demonio eseguito su commissione dell’abate Lorenzo Citerni per il secondo chiostro del monastero cistercense di Cestello Nuovo, attuale sede del Seminario maggiore. Commissionato nel 1701, venne condotto con notevole celerità e inaugurato l’8 agosto 1702 (Bellesi, 1990, pp. 215, 220 nota 53; Conti - Niccolucci Cortini - Vadalà Linari, 1997, p. 60 nota 11, p. 95 nota 1, p. 163; Bellesi, 2008, p. 45).
Nel 1701 Giuseppe realizzò una perduta serie di dodici tondi in terracotta «grandi al naturale» di Imperatori romani, della quale un antiquario commissionò una versione in marmo con l’intenzione di venderla come antica dopo averla sottoposta a un processo di invecchiamento artificiale (Sacchetti Lelli, 2005, p. 270, n. 65, p. 306, n. 78). La serie potrebbe essere la stessa che compare documentata nel Settecento in una collezione bolognese (Zikos, 2005a, p. 39 nota 95; Bellesi, 2008, p. 52 nota 126). Tra simili ‘medaglie’, ovali o tonde, comuni nella scultura fiorentina tardo-barocca, la serie di Imperatori di Piamontini è la più antica documentata nota a chi scrive.
Con le sue opere religiose Piamontini sembrava destinato a diventare il più importante scultore fiorentino in marmo della sua generazione – favorito in questo dalle difficoltà di Foggini nello scolpire blocchi di grandi dimensioni e dai suoi innumerevoli impegni come direttore dei laboratori medicei –, ma la committenza di ambito ecclesiastico nei primi del Settecento a Firenze non offrì più occasioni simili. Sintomatico di una svolta nella produzione in marmo è il fatto che l’anno in cui completò il gruppo monumentale per i cistercensi Giuseppe diede inizio al suo primo marmo documentato di piccole dimensioni, un perduto «Giovanni Battista che scherza con un pecorino» terminato il 26 aprile 1703 per Gabburri (Zikos, 2005a, p. 63, doc. 9), il quale teneva in grande stima l’artista e possedette, oltre a questo gruppo, un perduto busto autoritratto in terracotta (Gabburri, 1739). Il citato marmo potrebbe essere identificato con il «San Giovannino coll’agnello aggruppato da tenere sopra un tavolino» montato su una base di legno di pero nero, registrato nell’inventario Gabburri del 1722 (Campori, 1870, p. 596), il cui materiale non è però specificato. È probabile che il modello di questo gruppo sia da riconoscere nel bronzeo S. Giovannino del Cleveland Museum of art, attribuitogli da Montagu (1974, p. 16) che lo ha messo in rapporto con quello esposto a Firenze, da un anonimo collezionista, alla mostra dell'Accademia del disegno del 1724 come opera di Piamontini (Zikos, 2005a, p. 51).
Lo scultore aveva già iniziato a produrre piccoli bronzi poco dopo il suo ritorno da Roma, ma è soltanto con le commissioni del gran principe che siamo in grado di identificare i modelli e di valutare il suo contributo alla storia del bronzetto fiorentino, qualitativamente non inferiore a quello di Foggini o di Soldani.
Nell’agosto del 1694 Piamontini acquistò il materiale per realizzare alcuni bronzi per Ferdinando e il 21 maggio 1695 terminò il piccolo monumento equestre del principe, oggi perduto, il cui aspetto è noto grazie a una tarda copia autografa nella collezione J. Tomilson Hill di New York, realizzata nel 1717 per Leonardo Tempi (Zikos, 2014, pp. 200-207, n. 16). Si tratta di un modello ambizioso che rappresenta il principe su un cavallo in corvetta, ultimo di una lunga tradizione fiorentina del genere. Due anni dopo, il 27 novembre 1697, lo scultore fu pagato per quello che potrebbe essere definito un bronzetto monumentale (59 cm di altezza) raffigurante un Fauno con capretto (Firenze, Museo nazionale del Bargello), copia liberamente tratta da un famoso marmo antico restaurato da Ferrata, così finemente cesellato da essere stato a lungo attribuito a Soldani (Bellesi, 1991, p. 27). A questo fece seguito il Fauno che porta un giovane satiro sulle spalle, forse concepito come pendant, pagato il 28 agosto 1698 (Zikos, 2005a, p. 48), e noto oggi in due versioni (Wellesley, Davis Museum at Wellesley College; Londra, collezione privata) e in un marmo più grande di cui si sono perse le tracce dal 1988 (ibid.), la prima di molte rappresentazioni di membri del tiaso dionisiaco che lo scultore era evidentemente compiaciuto di inventare. Questi tre sono tra i primi bronzetti del tardo barocco fiorentino, e si possono considerare alle origini della fioritura di un genere di grande fortuna nella Firenze del Settecento. Piamontini creò altri bronzetti per il gran principe che non possono essere datati con precisione a causa di lacune nella documentazione dopo il 1704, ma che sono descritti nell’inventario di Ferdinando post mortem (De Luca Savelli, 2004).
Il 15 giugno 1703 Piamontini ottenne «lo stato», ovvero la piena cittadinanza fiorentina (Archivio di Stato di Firenze, d’ora in poi ASF, Tratte, 67, c. 95r), che dava la facoltà di entrare nel Consiglio dei Duecento, di cui fece parte (ASF, Cittadinario, 12, c. 211r; Tratte, 147, ad ind. e c. 104v), al termine di un processo che era iniziato il 31 gennaio 1695 con l’iscrizione, per grazia di Cosimo III, al registro delle Decime (Bellesi, 2008, p. 42 nota 91).
Nello stesso anno, il 16 aprile, fu eletto per la prima volta console dell’Accademia del disegno, incarico che avrebbe ricoperto per altre cinque volte nei successivi anni (Gli accademici del disegno, 2000).
Piamontini cominciò a ricevere sempre più commissioni da privati a partire da questo momento. Per i Serristori, nel 1703, in previsione del matrimonio tra Averardo di Luigi e Giovanna Bourbon del Monte, celebrato l’8 gennaio 1704, restaurò un Crocifisso di bronzo e realizzò quattro busti marmorei delle Stagioni (Importanti dipinti…, 2007), collocati sopra degli «sgabelloni» (la cui doratura fu pagata prima del 24 novembre 1703 secondo le indagini di Daniela Smalzi), e presumibilmente da ricondurre ai pagamenti per opere non meglio specificate già resi noti (Bellesi, 2008, p. 47).
Entro il primo decennio del Settecento la critica (Bellesi, 2008, pp. 53 s.; Benassai, 2009, pp. 436-438) propende a datare le opere menzionate dalle fonti a Pistoia (Pistoia inedita, 2003, pp. 162, 165), coeve a quelle documentate per palazzo Marchetti nella stessa città (Sacchetti Lelli, 2005). Una più recente proposta di attribuirgli alcuni interventi nella cattedrale di Pistoia (Gai, 2009, pp. 42 s., 54), lascerebbe presumere un’attività più estesa di quanto finora rilevato.
In considerazione della mancanza di un’indagine sistematica sul mecenatismo artistico privato del tardo barocco fiorentino, l’attività dello scultore per questo tipo di committenza può essere parzialmente ricostruita su una serie di termini ante e post quem forniti dai cataloghi delle mostre promosse dall’Accademia del disegno nella SS. Annunziata.
Nel primo catalogo di questo genere, redatto per la mostra del 1705 che fu organizzata da Gabburri, Piamontini, uno degli unici due scultori a esporre le proprie opere, compariva con una Caduta dei Giganti, di materiale non specificato, da identificare con il grande rilievo in marmo firmato e datato 1705 (Firenze, Palazzo Spini Feroni), che Gabburri elogiò come «stupendo», ma che appare piuttosto come un’ostentata dimostrazione accademica di conoscenza anatomica e di abilità tecnica. Forse realizzato indipendentemente al fine di dimostrare queste qualità, fu poi acquistato da Silvio Feroni, i cui eredi ne sono i primi proprietari noti (Gabburri, 1739; Spinelli, 1995, pp. 197, 201-209, 213; Caneva, 1998, p. 36; Bellesi, 2008, pp. 50 s.). Nella medesima occasione espose tre modelli in cera: un Giove seduto su un’aquila (basata con ogni probabilità sul «gran modello» dello stesso soggetto fatto a Roma secondo Filippo Baldinucci) e una Giunone sul pavone, coppia della quale sono noti degli esemplari di bronzo (Zikos, 2005a, pp. 42-46; Id., 2011, p. 10), e quello del bronzetto equestre del gran principe. Questi concesse il patrocinio alla successiva mostra del 1706, a cui, tuttavia, Piamontini non partecipò.
Intorno alla metà del primo decennio del Settecento datano i primi busti ritratto in marmo documentati: quello «in mezza figura» di Giovan Matteo Marchetti (1647-1704), vescovo di Arezzo (Pistoia, Palazzo Marchetti), firmato e datato 1704 (Montagu, 1974, p. 18 nota 7), ma non ancora pagato dagli eredi nel 1706 insieme a un non rintracciato gruppo bronzeo del Cristo crocifisso con la Maddalena (Sacchetti Lelli, 2005, p. 12, p. 322, n. 85), e quello, firmato e datato 1706, di Benedetto Averani, professore di greco antico all’Università di Pisa, destinato al monumento funerario nel camposanto pisano, nei cui depositi è conservato (Freddolini, 2007, p. 95; Bellesi, 2008, p. 52 ss.). Per il monumento funebre di Vincenzo da Filicaia (1642-1707), compiuto due anni dopo per S. Pier Maggiore (dal 1785 nella basilica di S. Croce), Piamontini optò per un medaglione ovale in bronzo dorato dove il noto letterato, allievo dello Studio pisano, non è rappresentato di profilo come più comune in questo genere di ritratti, ma frontalmente (Freddolini, 2007, pp. 95 s.; Bellesi, 2008, p. 53 nota 131). A questi va aggiunto il ritratto, firmato, di Folco di Carlo Rinuccini (1636-1709; Milano, Palazzo Trivulzio), una delle sue migliori realizzazioni in questo genere.
Superbo è un piccolo marmo completato negli stessi anni per il gran principe: il gruppo allegorico firmato e datato (1707) di Eros e Anteros (Firenze, Palazzo Pitti, Museo degli argenti), e basato sull’Amor sacro e profano di François Duquesnoy (Roma, Galleria Doria-Pamphilj), è scolpito con grande perizia alternando superfici estremamente polite dell’incarnato a un intaglio nitido e preciso anche nella base, di un tipo che ritroviamo nei piccoli gruppi in bronzo (Zikos, 2011, pp. 20 ss.). Di poco successiva fu un’altra opera, tra le molte realizzate per il gran principe, il Monumento equestre del re Federico IV di Danimarca, bronzetto oggi perduto ma registrato nell’inventario postumo del committente (1713), e databile contestualmente alla visita del sovrano a Firenze nel 1709 (Zikos, 2005a, p. 47).
Meno raffinato nell’esecuzione è un altro piccolo gruppo di marmo, firmato e datato 1710, rappresentante un Piccolo fauno con un giovane satiro (Firenze, mercato antiquario; Bellesi, 2008, pp. 56-63), di cui è nota anche una versione in bronzo non datata (Madrid, Palacio de El Pardo), e accoppiata, nella stessa collezione, con il bronzetto di un Fauno e un satiro seduti su una capra che giocano con un pappagallo (Herrero Sanz, 2009, pp. 210 s., n. 48). Quest’ultimo è noto in tre versioni, una delle quali (Roma, Galleria Corsini) è stata a lungo attribuita a Gaspero Bruschi (Zikos, 2005a, p. 50; Id., 2005b, pp. 457 s., n. 308; Id., 2014, p. 56). Un’altra versione della coppia di Madrid dovrebbe essere quella descritta nella collezione Wlasoff nel 1819 (Catalogue…, 1819). Il marmo del 1710 è la prima rappresentazione di un gruppo bacchico di Piamontini dopo il bronzetto realizzato per il gran principe nel 1698, seguita, nel 1711, da un perduto «Baccantino che tiene un canestro in capo», rara commissione di un bronzetto da parte di Cosimo III, destinato a servire da modello per un avorio (Zikos, 2005a, pp. 49 s., 62, doc. 8).
Sempre al 1710 risale un altro gruppo marmoreo «di naturale che rapresenta Amore in braccio a Venere», così descritto dall’artista nel 1718 (Lankheit, 1962, p. 232, doc. 46), e stimato dal Gabburri, che lo vide presso gli eredi del senatore Pandolfo Pandolfini (Gabburri, 1739). L’opera, oggi conosciuta soltanto da una foto riprodotta in un catalogo d’asta del 1949 (Draper, 1974; Bellesi, 2008, pp. 63-66), rende possibile assegnare a Piamontini anche un bronzetto dello stesso modello noto in più versioni (per esempio, Washington, National Gallery of art) e chiaramente creato come pendant del Bacco e Arianna, di cui pure esistono diversi esemplari ritenuti di Foggini (Fogelman, 2002) nonostante che Bellesi ne abbia correttamente riconosciuto l’autografia piamontiniana (Bellesi, 1991, pp. 30 s.). Anche del modello del Bacco e Arianna è noto un marmo firmato e datato 1732 (collezione privata; Bellesi, 2008, p. 65; Bacchi, 2014). La distanza cronologica tra i due marmi suggerisce che l’artista non li previde necessariamente fin dall’origine come una coppia e, probabilmente, non pensò neppure di realizzare tale coppia di dimensioni ridotte (Zikos, 2005a, pp. 51 s.).
Il 1711 è anche la data dell’unica opera di oreficeria di Piamontini, il Reliquiario della testa di s. Caterina da Siena in S. Domenico a Siena (S. Hansen, 1992; Zikos, 2005a, p. 18).
Nella più volte citata nota autobiografica l’artista faceva riferimento a una produzione più ampia di quella oggi conosciuta, affermando di aver inviato «altri gruppi e statue di marmo e di bronzo» a Roma, a Bologna, in Prussia, a Londra, «al Reno», in Scozia e Inghilterra (Lankheit, 1962, p. 232, doc. 46). Nessun documento attesta tali destinazioni tranne il più antico catalogo della Galleria di Düsseldorf formata dal marito di Anna Maria Luisa de’ Medici, l’elettore palatino Johann Wilhelm. Lì si trovavano, infatti, tre bronzi di Piamontini: una Pietà, un Crocifisso, e un S. Giovanni (Karsch, [1719]), che non sono stati finora identificati. L’attività di Piamontini per l’elettore palatino, su ordine di Cosimo III, è ricordata anche nell’iscrizione del suo monumento funebre nella chiesa di S. Felice in Piazza.
A partire dal secondo decennio del secolo abbiamo esempi di nuove fusioni di bronzi di piccole dimensioni per committenti privati come i Tempi e i Martelli (Zikos, 2005a, pp.48 s.), eseguite su modelli di composizioni precedenti.
Il 1° marzo 1717 Piamontini consegnò sei candelieri di bronzo destinati all’altare maggiore della chiesa del monastero di Cestello Nuovo, commissionati quando era abate e amministratore della fabbrica lo stesso Citerni per il quale aveva scolpito il S. Bernardo, e oggi non rintracciati (Conti - Niccolucci Cortini - Vadalà Linari, 1997, pp. 172 s.; Bellesi, 2008, p. 68). Per il medesimo altare lo scultore eseguì entro la stessa data anche il paliotto di marmi commessi (ibid.) – opera, questa, che lascia suppore una più estesa attività di commettitore di pietre dure finora poco nota.
Il 1720 è il termine ante quem per il bronzetto, squisitamente cesellato, di Meleagro in piedi davanti a un altare con l’effigie di Diana (Firenze, Museo di Casa Martelli), acquistato quello stesso anno da Filippo Martelli, che possedeva altri tre bronzetti dello scultore (Zikos, 2005a, p. 53). La figura di Meleagro è ripresa dal celebre marmo dei Musei Vaticani.
Il 1721 vide Piamontini impegnato per la prima volta al servizio di Anna Maria Luisa de’ Medici, elettrice palatina, in alcuni modelli di cera per avori (Zikos, 2005a, p. 21). Per la stessa mecenate egli realizzò due gruppi bronzei di soggetto sacro, parte di una serie di dodici opere che fu la più importante commissione scultorea degli ultimi anni della dinastia medicea: il Sacrificio di Abramo (Milano, collezione Girolamo Etro), firmato e datato 1722, è l’unico tra quattro gruppi posti su sfarzose basi di bronzo dorato e lapislazzuli ad averla conservata; il S. Luigi con la corona di spine (Firenze, Museo nazionale del Bargello), similmente firmato e datato, è dell’anno successivo (Zikos, 2005a, pp. 30 s., 60, doc. 3-4; Id., 2006).
Nella mostra dell’Accademia del disegno del 1724 furono esposti diversi bronzetti dello scultore, tra cui un Meleagro (forse quello acquistato quattro anni prima da Martelli) e un «Giove e Ganimede» (Borroni Salvadori, 1974, p. 110). Nell’ultimo gruppo è da riconoscere il Ganimede con l’Aquila di cui esistono due versioni, una nella Galleria Corsini di Roma e una nel Minneapolis Institute of art, dove è accoppiata con una Leda col cigno chiaramente ideata come pendant (Bliss, 1997). Gran parte della critica è propensa a considerare questi pezzi come opera di Antonio Montauti (Montagu, 1975, p. 20; Ead., 1996; M. Visonà, in Bellesi - Visonà, 2008, I, p. 83 nota 21; Bellesi, 2012). Tuttavia, dal momento che già nel 1733, negli appartamenti del marchese Giovanni Gerini (1685-1751), venivano registrati come opere di Piamontini un «Giovane con un Aquila» insieme a una «Venere con Giove in figura di cigno», vale a dire una Leda col cigno (Ingendaay, 2013, II, p. 231; entrambi rimasti presso gli eredi fino al 1825; Catalogo…, 1825), appare più che plausibile riconoscervi l’autografia di Piamontini, come già Klaus Lankheit (Zikos, 2005a, p. 54).
Nel 1724 erano esposti anche due rilievi identificati da Hugh Honour (1965, p. 89) con quelli ora nel Museum of fine arts di Boston, la Caduta dei Giganti – una variante in scala ridotta del marmo – e il Massacro degli Innocenti, apparentemente concepiti in coppia, un «ritratto di marmo di S.A.R.» (Borroni Salvadori, 1974, p. 110), vale a dire del granduca, forse identificabile con un busto di Gian Gastone (1671-1737), succeduto al padre proprio nel 1724, agli Uffizi (Lankheit, 1962, p. 166, fig. 189; di diverso parere Bellesi, 2008, pp. 53 s.), e il perduto Autoritratto in terracotta posseduto da Gabburri (Gabburri, 1739).
L’analoga mostra tenutasi nel 1729, l’ultima alla quale Piamontini prese parte, documenta una serie di marmi, come la coppia Giove seduto sull’aquila e Giunone seduta sul pavone (già Londra, Daniel Katz Gallery; Zikos, 2011), e il Milone, che dovrebbe essere lo stesso modello del piccolo bronzo oggi noto in tre versioni (Zikos, 2014, pp. 220-225, n. 19). Era incluso anche un Busto di Lorenzo Magalotti oggi perduto.
Altre due statue e due busti datano al quarto decennio. Del 1732 (data del Bacco e Arianna) è la statua monumentale di S. Luca, firmata e datata, per la basilica di Mafra in Portogallo (Vale, 2002; Pereira, 2003); il convenzionale e inespressivo Ritratto di Giuseppe del Papa nel monumento funerario in S. Felice in Piazza è del 1735 (Meoni, 1993, pp. 149-151, 155; Bellesi, 2008, pp. 73-75), mentre il firmato Don Carlos di Spagna (ubicazione ignota, già Londra, Heim Gallery), è secondo Bellesi (2008, p. 72) del 1732, contestuale alla designazione del giovane principe al trono di Toscana e alla sua visita a Firenze.
Del 1737 è l’ultima partecipazione di Piamontini all’allestimento di apparati effimeri, con la realizzazione di quattro statue allegoriche per le esequie del granduca Gian Gastone. In questo tipo di attività egli era stato impiegato più volte a partire dal 1711 (Riederer-Grohs, 1978, pp. 303 s.; Bellesi - Visonà, 2008, II, pp. 292, 294).
Nel 1739 Piamontini era uno dei dodici maestri dell’Accademia del nudo presso l'Accademia del disegno (Gabburri, 1739).
Fu completato entro il febbraio 1740 il grande Giove stante in pietra che corona l’arco trionfale eretto a porta S. Gallo per l’ingresso a Firenze del nuovo granduca, Francesco Stefano di Lorena, e della sua consorte Maria Teresa d’Austria. Esso non può essere basato sul modello in grande del periodo romano dello scultore (Roani Villani, 1986, p. 55, p. 61 nota 5, p. 63 nota 19; Bellesi, 2008, p. 76).
Recentemente è riemerso un Milone in marmo, firmato e datato 1740, che potrebbe essere l’opera esposta alla mostra accademica del 1729 (a condizione che fosse stato completato molto più tardi), acquistato da Andrea e Carlo Francesco Gerini, dopo la morte dello scultore, dal figlio Giovan Battista, che realizzò per gli stessi committenti un Fauno con capretto come pendant (Ingendaay, 2013, I, p. 142, II, pp. 98 s., docc. 136-137), già a Roma, Fondazione ecclesiastica marchesi Gerini (I, p. 148 nota 265), ora a Londra, Trinity fine art.
Piamontini ebbe una profonda conoscenza della scultura antica e potrebbe aver prodotto copie dall’antico come più tardi fece suo figlio. Anton Francesco Gori commissionò allo scultore il primo calco in gesso del cosiddetto Idolino (bronzo di età romana, oggi Firenze, Museo Archeologico; Gori, 1737, p. 207) molto probabilmente tra il 1734 e il 1737, dato che non c’è nessuna allusione a questa copia nel suo Museum florentinum (1734) laddove tratta dello stesso bronzo. Non è chiaro se Piamontini eseguisse anche un calco dell’Ermafrodito e almeno di un’altra statua antica delle collezioni medicee (Zikos, 2005a, p. 38). Il busto in marmo di Caracalla oggi in collezione privata, siglato e datato 1695 (Bellesi, 2008, p. 34), potrebbe essere una copia del genere.
Lo scultore svolse anche attività di restauro di marmi antichi, come assicurava Filippo Baldinucci (1728, p. 527), dopo il suo ritorno a Firenze. Giuseppe Pelli Bencivenni (1779, I, p. 296) gli riferisce interventi sulle sculture della Galleria datandole genericamente «qualche tempo dopo» che Ercole Ferrata svolse analoghi lavori nel 1680, il che ha fatto ritenere molto precoce questo tipo di attività (Visonà, 1990a). In collezione Gabburri è menzionato «un bacco di marmo greco restaurato dal Piamontini» (Campori, 1870, p. 596; Zikos, 2005a, p. 50). Bellesi gli attribuisce la testa della statua antica di Igea (Firenze, Palazzo Pitti), restaurata però nel 1715 da Foggini (Bellesi, 2008, p. 34; M. Visonà, in Bellesi-Visonà, 2008, I, pp. 71, 83 nota 28; S. Bellesi, ibid., II, p. 145, n. 64).
Stando a Gabburri, Piamontini (chiamato «scultore et architetto» da Gori, 1737, p 207) realizzò «disegni di fabbriche diverse» per «oltramontani personaggi» (Gabburri, 1739), nessuno dei quali è stato finora rintracciato.
I suoi più importanti allievi furono Giovacchino Fortini (1670-1736), Antonio Montauti (1683-1746?) e il figlio Giovannni Battista (1695-1762). Gabburri ricorda anche l’argentiere Ferdinando Noccioli (nato nel 1701) e il poco conosciuto Lorenzo Migliorini (1673-1737). Tra gli allievi risulta anche, nel 1703, Francesco Formigli (Bellesi, 2008, p. 47), scultore di bronzi e non di marmi.
Piamontini morì a Firenze il 13 febbraio 1744 secondo l’iscrizione del suo monumento funebre in S. Felice in Piazza dove fu seppellito il giorno successivo secondo il libro dei morti della chiesa (Meoni, 1993, pp. 153, 254, n. 186), mentre i registri del Magistrato della Grascia (Bellesi, 1991, p. 22 nota 6) e dell’Arte dei medici e speziali (ASF, Arte dei medici e speziali, 264, c.168r) indicano il 18 febbraio come giorno della sepoltura. Poco dopo morì la moglie Lucia Vangelisti (Bellesi, 2008, p. 76 nota 186). Il busto ritratto postumo che orna il monumento funebre in S. Felice in Piazza – vicino all’abitazione di via Romana (Fantozzi, 1843) – fu scolpito dal figlio, che lo rappresentò «di vista lusco», come lo ricordava Bonazzini (Visonà, 1990b, p. 232).
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