PIERMARINI, Giuseppe
PIERMARINI, Giuseppe. – Figlio di Pietro, gestore di una fabbrica di cera di proprietà del letterato Claudio Seracchi, e di Crispolda Ubaldini, nacque a Foligno il 18 luglio 1734. Giovanissimo studiò matematica e astronomia e coltivò una grande passione per la meccanica: disegnava macchine e costruiva serrature e congegni esplosivi «di tanta grandezza che dagli abitanti dei vicini paesi furono creduti straordinarie meteore» (Fabri Scarpellini, 1844, p. 96). L’incontro con il matematico, geodeta e astronomo gesuita Ruggero Giuseppe Boscovich, citato da tutti i biografi di Piermarini, sembra abbia rivestito notevole importanza per la formazione del giovane Giuseppe e, malgrado l’assenza di documentazione al riguardo, appare avvalorato da riscontri storicamente attendibili (Giuseppe Piermarini tra barocco e neoclassico…, 2010).
Dal 1750 al 1752 Boscovich era stato impegnato in una «expeditione» (p. 19) per la misurazione dell’arco di meridiano tra Rimini e Roma. È probabile pertanto che, conosciuto in quell’occasione il giovane folignate con la passione per la meccanica che aveva realizzato un globo terracqueo del diametro di venti palmi (p. 20), questo stesso abbia in seguito persuaso Pietro Piermarini dell’opportunità che il figlio perfezionasse gli studi di matematica e astronomia presso il Collegio romano.
Differenti ipotesi sussistono in merito all’anno dell’arrivo a Roma di Piermarini. Per alcuni vi sarebbe giunto nel 1760 (Fabri Scarpellini, 1844; Annoni, 1935), mentre Enrico Filippini (1936, p. 17) ha ipotizzato, più plausibilmente, che il periodo di formazione romana abbia avuto luogo tra il 1755 e il 1759, anno in cui Boscovich lasciò la città per stabilirsi a Londra.
Introdotto alla corte pontificia, Piermarini conobbe il cardinale Girolamo Colonna di Sciarra, subentrato (1756) al defunto cardinale Valenti Gonzaga nel ruolo di camerlengo e, per tramite di questo, Paolo Posi, architetto dei Colonna di Paliano. Fu in quel medesimo periodo che, con tutta probabilità, gli studi di Piermarini conobbero un decisivo mutamento di indirizzo: abbandonate la matematica e l’astronomia, egli entrò come apprendista nello studio dell’architetto senese.
Durante la permanenza presso Posi, dal 1756 impegnato nei lavori al palazzo ai Ss. Apostoli, Piermarini si dedicò essenzialmente alla copia e alla rielaborazione grafica delle opere del maestro: ne è testimonianza il corpus di disegni conservati presso la Biblioteca comunale di Foligno, raffiguranti progetti architettonici e allestimenti effimeri di Posi. Secondo quanto si desume da una lettera indirizzata in quell’anno dallo stesso Piermarini al cardinale Colonna, l’apprendistato ebbe fine certamente nel 1761.
Piermarini vi affermava infatti che, mentre si trovava a Foligno «per la villeggiatura d’ottobre», Posi aveva rimandato al corrispondente commerciale di suo padre, che aveva un ufficio in Roma, «tutti i [suoi] strumenti di architettura facendomi sapere di non volermi più nel suo studio attesa l’amicizia che passa fra me e il signor don Ignazio [probabilmente don Ignazio Muratori, architetto e rivale del Posi] dopo averla generalmente proibita a tutti i suoi scolari […]. In questo stato di cose non so appigliarmi a miglior consiglio che di eseguire quel bando che l’Eminenza Vostra stava per prescrivermi rispetto al proseguimento dei miei vecchi studi che dovrò riprincipiare al mio ritorno…» (Subiaco, Archivio Colonna, Carteggi, lettere indirizzate a Gerolamo II Colonna nel 1761, in Girolamo Piermarini…, cit., p. 22). La lettera costituirebbe conferma a proposito della differente natura degli studi intrapresi da Piermarini appena giunto a Roma.
La rielaborazione del lessico barocco operata nel corso dell’apprendistato presso Posi non lasciò segni rilevanti nel codice stilistico che il giovane andava predisponendo, se si esclude forse la conoscenza approfondita del progetto, elaborato dal maestro, della villa Farsetti a Santa Maria di Sala presso Padova, «importante precedente culturale per la progettazione della villa Reale di Monza» (p. 35) e degli architetti vicini al maestro come Ferdinando Fuga. Il periodo romano coincise con la fase di profondo mutamento artistico e culturale che si colloca tra i pontificati di Benedetto XIV (1740-58) e Clemente XIII (1758-69), durante la quale la «permanenza della tradizione barocca» veniva minata da una «tensione formativa» (p. 19) volta alla graduale elaborazione di un linguaggio architettonico nuovamente ispirato alle forme classiche.
Contravvenendo alle disposizioni del «bando» di cui si parlava nella lettera al Colonna, Piermarini proseguì la propria formazione come architetto presso Carlo Murena, «luogotenente a Roma di Luigi Vanvitelli che si era trasferito a Napoli come architetto regio» (p. 38). Nello studio di Murena Piermarini, stilisticamente ormai distante dal primo maestro, intraprese i primi incarichi in maniera autonoma nel mentre studiava e annotava nei suoi zibaldoni, taccuini di disegni ora conservati presso la Biblioteca comunale folignate, particolari stilistici e soluzioni progettuali tratti da Vanvitelli, Filippo Juvarra, Fuga. Alla morte di Murena, nel 1764, Piermarini si trasferì a Napoli presso Vanvitelli; l’anno seguente, insieme al figlio di questo, Carlo, eseguì il rilievo e la restituzione grafica dell’anfiteatro di Santa Maria Capua Vetere e dell’arco di Traiano a Benevento.
Nel 1769 partì alla volta di Milano per accompagnare il maestro, chiamato alla corte degli Asburgo per il restauro del Palazzo ducale. Quasi subito dopo il trasferimento nel capoluogo lombardo, l’architetto napoletano lasciò il lavoro nelle mani di Piermarini il quale, nel novembre dello stesso anno, fu nominato imperial regio architetto e ispettore delle fabbriche per la Lombardia.
La Milano del XVIII secolo vedeva compiersi, per volontà del governo centrale austriaco, un processo di laicizzazione di strutture e pubblici servizi «frutto della diffusione del pensiero illuminista, e del favore che le idee su un nuovo modello di Stato che governa, amministra ed eroga servizi, incontrava[no] alla corte di Vienna» (Denti - Mauri, 2000, p. 67). Gli ordini religiosi furono in gran parte soppressi, e i beni immobili trasferiti allo Stato che li avviò a un uso pubblico e sociale, come il collegio gesuita di Brera (1768) e gli ospedali dei Pellegrini a Porta Romana e di S. Giacomo a Porta Nuova (1770). Giuseppe II d’Asburgo, figlio dell’imperatrice Maria Teresa salito al trono nel 1780, completò l’opera di riforma con la soppressione degli ordini religiosi contemplativi: «nel giro di un decennio vennero demoliti o destinati ad altro uso 253 tra chiese e conventi; i capitali ricavati dagli espropri vennero assegnati a scuole e ospedali» (p. 67). La zona centrale della città subì essa stessa modifiche di natura strutturale, trasformandosi gradualmente «in un organismo che individuava nei servizi pubblici i punti nodali della propria struttura, con una minore concentrazione della proprietà edilizia e fondiaria…» (p. 67). Scuole, biblioteche, teatri acquisirono una nuova connotazione di emergenza architettonica e urbana prima assoluta prerogativa dei luoghi di culto. Tali tipologie edilizie, inserite nel tessuto viario esistente in maniera quasi indolore, cambiarono profondamente l’immagine della città, ridisegnandola e mutandone in maniera consistente le relazioni spaziali.
In virtù della nomina conferitagli, Piermarini assunse un ruolo di assoluto rilievo nei piani di trasformazione della città. Nel 1774 fu incaricato della progettazione dei lavori di completamento del complesso del collegio gesuita di Brera, divenuto proprietà dello Stato; l’intervento riguardò la ristrutturazione e l’ampliamento della Biblioteca, quindi la sistemazione dell’Osservatorio, dell’Orto botanico e dell’edificio stesso dell’Accademia. Tra il 1778 e il 1795 furono completati il cortile e il fronte principale su via Brera, al quale Piermarini conferì una particolare connotazione con l’arcone monumentale inquadrato da colonne che ne evidenzia l’ingresso principale. Ancora negli anni Settanta lavorò alla ristrutturazione del palazzo reale, già sede viscontea e palazzo dell’Arengo.
Con la demolizione del braccio nord-ovest Piermarini interruppe la tessitura a blocchi chiusi del complesso, ricavando un nuovo spazio, la piazzetta Reale, delimitata su tre lati da altrettanti fronti continui dell’edificio e contigua alla piazza del Duomo; in tal modo si mutavano «gli equilibri del sistema di vuoti contigui alla Cattedrale, pur continuando a riflettere la complessità delle giaciture storiche» (p. 67). Eliminate le cortine di mattoni della reggia viscontea, Piermarini conferì un nuovo ritmo alle facciate: la continuità dei tre fronti venne scandita dalla sequenza delle paraste ioniche poggianti sull’alto basamento a bugne lisce che ingloba per intero il primo ordine. La trabeazione fu sormontata da un cornicione con modiglioni collocati seguendo la medesima sequenza ritmica delle paraste sottostanti. Semplicissime le bucature, di forma quadrangolare, sormontate alternativamente, solo nel piano nobile, da timpani triangolari e semicircolari. Al settore centrale, ove è collocato l’ingresso principale, fu impresso un più marcato movimento chiaroscurale tramite un leggero aggetto rispetto al resto del fronte e ricorrendo a bugne in maggior rilievo e a semicolonne in luogo delle paraste; il parapetto di colonnine lapidee del balcone marcava ulteriormente l’avancorpo in senso orizzontale.
Analoghe soluzioni Piermarini adottò in numerose realizzazioni successive, come i palazzi Belgioioso (1772-80), Casnedi (1776) e Greppi (1772) o nella nuova sede del Monte di pietà (1783-86) nell’area dell’ex convento di S. Chiara.
Sebbene gli elementi ricorrenti del linguaggio piermariniano siano riconducibili al lessico vanvitelliano e in quanto tali riscontrabili in tutta evidenza nella stessa reggia di Caserta, le sue invenzioni presentano elementi di novità rispetto al maestro. Il gioco degli aggetti, il differente ricorso al chiaroscuro e una generale maggiore linearità unita al ritmo meno serrato fanno ritenere le opere di Piermarini in certo modo anticipatrici del gusto neoclassico.
Ancora nel quadro degli interventi di rinnovamento urbano di cui fu artefice e coordinatore, grande importanza assunse l’incarico, nel 1776, della realizzazione del nuovo teatro da erigersi nel luogo ove sorgeva la chiesa di S. Maria della Scala. Nel febbraio 1776 il teatro ducale era stato distrutto da un incendio, forse di natura dolosa, definito da Ugo Foscolo «regolare e forse utile» (Barigazzi, 2010, p. 9) in quanto aveva eliminato una struttura ormai fatiscente senza provocare vittime né danni agli edifici vicini; dopo febbrili trattative tra Milano e la corte di Vienna, nel mese di marzo l’arciduca Ferdinando incaricò Piermarini della realizzazione di ben due teatri pubblici, il Grande e il Piccolo (la Canobbiana, poi teatro Lirico, oggi intitolato a Giorgio Gaber), quindi della struttura provvisoria – l’Interinale – allestita nel giardino dell’ex palazzo di Bernabò Visconti in via S. Giovanni in Conca e già pronta nell’agosto 1776: «tre ordini con 32 palchi ciascuno, tutto in legno, tetto di rame, e ogni comodità, quelle possibili» (Barigazzi, 2010, p. 10).
L’edificio del teatro Grande costituisce uno dei primi esempi di tipologia con pianta di forma ovoidale tronca – il ferro di cavallo – la stessa riportata nell’Encyclopédie pubblicata in quegli anni anche in edizione italiana; il prospetto principale ripropone gli elementi consueti: il bugnato a caratterizzare anche cromaticamente il basamento e le paraste – binate – a inquadrare le bucature del livello superiore. Il timpano centrale triangolare reca al suo interno una decorazione scultorea a bassorilievo raffigurante il Carro del Sole inseguito dalla Notte. Piermarini conferì movimento al prospetto attraverso il lieve aggetto della parte centrale e in specie con l’inserimento del volume porticato con semplici arcate lisce sulla parete bugnata che consentiva la fermata delle carrozze; soluzione che non piacque a Pietro Verri il quale, in una lettera da questi inviata al fratello Alessandro, giudicava l’avancorpo eccessivamente profondo (Barigazzi, 2010).
Le relazioni spaziali con il contesto urbano dell’epoca dovettero costituire una questione complessa, considerata la necessità di inserire il teatro Grande in un ambito di ridotta larghezza quale era la corsia del Giardino; la sua collocazione, in asse con l’attuale via Manzoni, pose tuttavia le basi per i successivi interventi urbanistici a seguito dei quali venne aperta la piazza della Scala. Progettato e realizzato in tempi assai brevi, il teatro venne inaugurato il 3 agosto 1778 con L’Europa riconosciuta, dramma per musica di Antonio Salieri.
Situato alle spalle del Palazzo reale lungo l’attuale via Larga, il teatro Piccolo, inaugurato nell’anno successivo, fu eretto su una parte del sedime delle Scuole Canobbiane e più precisamente su quella, a occidente della via o contrada omonima, che ospitava la «casa della lettura per la Canobbiana» (Bossi, 2008, pp. 141 s.); la volontà di preservare il resto del complesso dalla demolizione emerge dai contenuti del carteggio tra il cancelliere austriaco Wenzel Anton Kaunitz-Rietberg e Carlo Gottardo conte di Firmian, ministro plenipotenziario della Lombardia, il quale riporta come lo stesso Piermarini fosse stato interpellato fin dal 1770 sul tema dell’accorpamento delle scuole pubbliche in merito a un eventuale adeguamento delle Scuole Canobbiane (p. 142).
L’edificio subì in seguito pesanti interventi di modifica che hanno reso illeggibile l’originaria struttura conferitale da Piermarini; attualmente è riconoscibile la sola facciata, caratterizzata da un accentuato verticalismo dato dai larghi risalti di bugnato dai quali si slanciano, nel secondo ordine, coppie di paraste composite che sorreggono la trabeazione e l’attico di coronamento.
Tra il 1777 e il 1780 Piermarini lavorò alla villa reale di Monza. Nell’ideazione del complesso ebbe certo a mente le opere dei maestri, dalla villa Farsetti di Sala alla reggia borbonica di Caserta.
L’organismo ha il proprio fulcro nel corpo centrale cui due ali di minore altezza conferiscono una forma a «U». All’estremità dei corpi ortogonali sono due volumi a pianta quadrata – la cappella e la ex cavallerizza – posti in posizione traslata a delimitare l’estensione del cortile d’onore. Lateralmente si dipartono i due fabbricati delle cucine e dell’orangerie (il cosiddetto Serrone); la sala detta della Rotonda affrescata da Andrea Appiani funge da cerniera tra le prime e gli appartamenti privati. I lunghissimi fronti presentano la consueta scansione modulare a griglia con paraste e semicolonne nella parte centrale, lievemente in risalto nel lato verso il cortile d’onore, più aggettante in quello rivolto al parco e alla capitale dell’impero.
Nel 1779 Piermarini diede inizio ai lavori di sistemazione dei giardini reali nei quali volle inserire numerosi elementi cari alla tradizione europea, conferendo all’impianto una «forte valenza geometrica» (Zanzottera, 2012): l’idea di collocarvi il giardino all’inglese, solo successivamente oggetto di studio da parte di storici e trattatisti come Ercole Silva (Dell’arte de’ giardini inglesi, Milano 1813), lo rese in assoluto un precursore nel campo della progettazione del paesaggio.
All’architetto si deve, nei medesimi anni, la realizzazione di alcune tra le più prestigiose dimore gentilizie del periodo: tra queste le ville Scotti a Robecco sul Naviglio, Cusani Tittoni Traversi a Desio, Borromeo a Cassano d’Adda, le quali, seppure caratterizzate da un impianto compositivo di gusto ancora settecentesco, come l’articolazione a «U», evidenziano nuove configurazioni formali.
Sempre a Milano si rammenta la trasformazione (1789) del più antico tratto dei bastioni dall’Arena alla porta Orientale (l’attuale porta Venezia); intervento che dotò la città di pubblici giardini con ampi viali alberati aperti in corrispondenza dei tracciati murari, zone verdi e aiuole in corrispondenza delle scarpate esterne; e ancora il palazzo Moriggia (1775), attuale sede del Museo del Risorgimento, la risistemazione del complesso delle scuole Palatine (1774), la sistemazione del palazzo arcivescovile e dell’antistante, attuale, piazza Fontana, nella quale fu collocata la fontana allora detta del Verziere (1782), disegnata anch’essa da Piermarini in forme composite, con vasche situate a differenti altezze e sculture raffiguranti Sirene e Delfini.
Tra le opere fuori Milano sono da citare il rifacimento della chiesa dei Ss. Gervaso e Protaso a Parabiago (1780); l’ospedale di S. Maria delle Stelle a Melzo (1773), realizzato mediante un intervento di adeguamento del cinquecentesco monastero dei carmelitani, e la nuova facciata dell’ospedale Maggiore di Lodi (1765); a Pavia, la ristrutturazione del complesso conventuale dei francescani, l’attuale collegio Cairoli e la risistemazione della sede dell’ateneo.
Recatosi a Foligno nel 1788 a motivo dei lavori in corso nel duomo, poco dopo Piermarini fece ritorno a Milano dove allestì gli apparati funebri allestiti in occasione della morte di Giuseppe II e di Leopoldo II rispettivamente nel 1790 e nel 1792. Nel 1798, con l’avvento della Repubblica Cisalpina, venne rimosso dalla carica di regio architetto e sostituito da Luigi Canonica, suo allievo a Brera. Lasciata l’Accademia, nella quale era stato docente di architettura dal 1776, fece ritorno nella città natale ove si dedicò nuovamente alla meccanica. Tra il 1803 e il 1805 fornì i disegni per un teatro condominiale a Matelica, nel territorio di Macerata (Giuseppe Piermarini: i disegni di Foligno..., 1998); nel medesimo periodo ideò e costruì un apparecchio per estinguere gli incendi, l’‘idrobalo’, in seguito adottato dai pompieri dello Stato pontificio (Mezzanotte, 1982).
Tra i suoi allievi, oltre al citato Canonica, figura il viennese Leopold Pollack, che lo affiancò in alcune realizzazioni.
Morì a Foligno il 18 febbraio 1808.
Un consistente corpus di disegni piermariniani è custodito, unitamente agli zibaldoni, presso la Biblioteca comunale di Foligno; suoi progetti si conservano nella raccolta di disegni e stampe della Biblioteca nazionale viennese e, in Milano, presso l’Archivio storico civico e nell’Archivio Cagnola della Civica raccolta delle stampe Achille Bertarelli. Un ritratto di Piermarini, opera di Martin Knoller, è esposto al Museo teatrale alla Scala.
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