VEROI, Giuseppe Pietro
VEROI, Giuseppe Pietro. – Nacque il 19 luglio 1888 a Pognacco, un piccolo centro non lontano da Udine, figlio di Augusto e di Lucia Tonini.
Il padre, stando all’Annuario d’Italia amministrativo-commerciale del 1888, vi svolgeva l’attività di pizzicagnolo. A Pognacco frequentò le scuole elementari; proseguì poi i suoi studi a Udine, frequentando la scuola tecnica, dove ottenne il diploma di primo grado. Iniziò a lavorare presso un parente, un commerciante di granaglie, per il quale, oltre a svolgere alcune transazioni presso le banche locali, trattava la vendita del grano con gli emigranti stagionali che per i loro acquisti usavano le lire e non le corone austriache. Grazie a questi contatti svolse un tirocinio presso la Cassa di risparmio di Udine, diretta in quegli anni da Giovanni Merzagora. Il suo primo contratto con la banca arrivò nel 1903, quando aveva solo quindici anni. Dopo questo primo impiego lavorò per qualche tempo alla Banca del Friuli. Nonostante la giovane età doveva avere notevoli doti, se Merzagora, passato al Credito italiano, lo volle con sé quando la banca milanese lo mandò a dirigere la nuova sede di Napoli nel 1906. Veroi ebbe l’incarico di seguire le pratiche legate al commercio con l’estero e alle rimesse degli emigrati.
Dopo avere svolto il servizio militare si stabilì a Milano, dove la banca lo assegnò all’ufficio borsa della sede centrale. Sia le attività svolte a Napoli sia le prime a Milano dovevano essere in qualità di avventizio: l’assunzione vera e propria porta infatti la data del 1° novembre 1909. Dall’anno successivo si occupò di un nuovo servizio appena creato presso la sede centrale della banca, l’ufficio sviluppo, che cercava di individuare nuovi clienti, facendone una sorta di screening di carattere economico e finanche psicologico prima di avviare una relazione di tipo commerciale e finanziario. Tale modello venne diffuso presso altre sedi della banca dopo un paio d’anni e Veroi venne posto alla testa di tale organismo. Nel 1912 fu promosso vicedirettore di sede e il suo stipendio, fino ad allora di 2500 lire all’anno, passò dal luglio a 2800; l’anno dopo, a partire da aprile, ebbe un nuovo aumento a 3400 lire e ottenne i poteri di procuratore.
Nel 1914 fu inviato in Sicilia, a Catania, per aprirvi una nuova sede del Credito italiano, che si stava espandendo nella regione. Ricoprì le funzioni di vicedirettore, mantenendo anche i poteri di procuratore. Rimase nella città etnea fino al momento in cui l’Italia entrò in guerra, quando venne richiamato alle armi e inviato al fronte. Per quanto impegnato nelle operazioni militari, nell’agosto trovò il modo di inviare una cartolina da Gorizia, appena liberata, all’allora amministratore delegato Federico Ettore Balzarotti, forse anche un modo per non farsi dimenticare dai vertici della banca. E, in effetti, all’indomani della costituzione dell’Istituto nazionale per i cambi con l’estero (INCE), voluto nel dicembre del 1917 dal ministro del Tesoro Francesco Saverio Nitti per introdurre un sistema organico di controllo dei cambi capace di far fronte agli squilibri crescenti della bilancia dei pagamenti, venne richiamato con decreto ministeriale per andare a lavorare a Roma presso il nuovo istituto, su indicazione della banca di cui continuava peraltro a essere dipendente (il Credito italiano, insieme alle altre maggiori banche del Paese, faceva parte del Consorzio di gestione dell’INCE).
Veroi ebbe un atteggiamento molto professionale, ma altrettanto critico circa il lavoro svolto dall’INCE. In una lettera indirizzata il 29 luglio 1918 al direttore centrale Carlo Orsi segnalava le scelte speciose effettate dall’Istituto, sottolineando che certe rigidità tecnico-formali rischiavamo di danneggiare chi commerciava con l’estero, un vizio che era «l’effetto della concezione manchevole ch’esso [l’INCE] ha sempre avuto dei compiti e dei doveri conferitigli dall’esercizio di monopolio» (Milano, Archivio storico Unicredit, Direzione centrale, Segreteria alta direzione, Cassaforte riservata della direzione centrale, b. 89). Rientrato ufficialmente nei ranghi del Credito italiano sul finire del 1918, rimase a Roma con le mansioni di vicedirettore, una posizione che, avendo egli appena compiuto trent’anni, faceva di lui uno dei più giovani dirigenti della banca. Dalla nuova posizione, grazie ai contatti che aveva mantenuto con gli ambienti dell’INCE, poté fornire informazioni di prima mano sui programmi dell’Istituto, una volta abolito il monopolio di cambi. Nel 1919 venne nominato condirettore della sede di Roma, e nel 1921 direttore. I vasti contatti con il mondo economico-finanziario e politico romano, in un certo senso obbligati nella sua posizione, furono la premessa per una svolta importante nella sua vita professionale.
Nei primi anni Venti due erano le questioni attorno alle quali ruotavano le iniziative nel mondo bancario: il fallimento della Banca italiana di sconto (BIS) nel 1921 e le crescenti difficoltà del Banco di Roma, divenute drammatiche nel 1923-24. Il Banco di Roma, per i suoi legami con gli ambienti dell’aristocrazia nera e in genere con il mondo politico e dell’associazionismo cattolico, divenne uno dei problemi – ma anche delle opportunità – più importanti per il primo governo di Benito Mussolini. Le difficoltà della banca avevano molteplici cause, in parte legate alla congiuntura economica, in parte ai finanziamenti concessi ai giornali cattolici, ma anche per una gestione quantomeno opinabile da parte dei suoi amministratori. Tra il 1923 e il 1924 attorno alla banca si giocò una partita molto complessa con la quale Mussolini cercò di costruire un nuovo rapporto tra il fascismo, il mondo cattolico e il Vaticano.
Dopo avere esaminato diverse opzioni, compresa quella della fusione con la Banca nazionale di credito, l’istituto risorto dalle ceneri della BIS, il programma di risanamento prese altre strade. Dopo avere trasformato la Società finanziaria industriale (che deteneva le partecipazioni più rischiose del Banco di Roma per un valore complessivo di oltre 1,125 miliardi di lire) nella Società finanziaria per l’industria e il commercio (Sfi), un ente capace di operare oltre che in tutti i campi economici, anche all’estero, dopo avere messo da parte tutto il gruppo dirigente che aveva portato la banca in quella drammatica situazione, il piano elaborato dai nuovi amministratori del Banco di Roma ebbe il via libera del governo e della Banca d’Italia. Alla testa della Sfi venne posto Oscar Sinigaglia, con vicepresidente Giovan Battista Clementi; Orlando Silvestri, già direttore centrale del Banco, fu nominato amministratore delegato. Tra le prime decisioni che presero vi fu quella di chiamare Veroi come direttore generale per fargli seguire giornalmente la sistemazione delle partite più complesse del Banco di Roma. Veroi lasciò infatti il Credito italiano il 15 giugno 1924, fresco di nomina come direttore centrale (probabilmente per consentirgli di avere un riconoscimento economico adeguato alla sua nuova funzione), divenendo subito operativo.
Tra il 1924 e il 1925 si definirono i dettagli del passaggio delle partite immobilizzate alla Sfi. La cifra finale fu di oltre 1,743 miliardi di lire, compresi avalli e fidejussioni. In totale si trattava di partecipazioni in oltre duecento società che avevano evidentemente valori e dimensioni diverse, ma anche prospettive differenti: qualcuna era destinata a fallire, mentre altre, strutturalmente più solide, potevamo avere un nuovo avvenire.
Nei tre anni successivi il lavoro di riordino svolto da Veroi fu imponente. Nella sua posizione aveva una visione ad ampio raggio non solo della situazione delle imprese tradizionalmente legate al Banco di Roma, ma anche del sistema economico nazionale. Nel frattempo, il sostanziale risanamento del Banco pose le premesse per un suo definitivo rilancio. Tra le varie ipotesi affacciate (un nuovo inizio, depurato da ogni debito, sotto la guida del Credito italiano; una ripartizione delle sue azioni in parti uguali tra la Società mobiliare, la Banca nazionale di credito e il Credito italiano; il riscatto del pacchetto azionario depositato presso la Banca d’Italia attraverso un mutuo a lunga scadenza e il coinvolgimento di ambienti industriali sotto la guida di Antonio Stefano Benni, in quel momento presidente della Confindustria) il governo accolse l’ultima e nominò Benni presidente del Banco di Roma. Il nuovo direttore centrale capo, dal novembre del 1928, sarebbe stato Veroi, che evidentemente si era guadagnato l’apprezzamento per il suo lavoro in diversi ambienti, tanto da essere nominato direttore generale nell’aprile del 1929, sebbene per la sua adesione al Partito nazionale fascista (PNF) si sarebbe dovuto attendere il 1933, quando sarebbe divenuta un requisito fondamentale per accedere a molte posizioni di spicco, oltre che per partecipare a concorsi pubblici. La sua scalata ai vertici del Banco si completò nel marzo del 1930, quando venne dapprima eletto in consiglio d’amministrazione e poi nominato amministratore delegato.
Nella nuova funzione si scontrò subito con il sindacato dei bancari e con il personale, che richiese l’intervento dei fiduciari del PNF a seguito di alcune proposte di riorganizzazione del trattamento economico. Tuttavia, Veroi ne uscì rafforzato anche perché la banca, seguendo le sue direttive, stava cambiando, diventando più attenta alla clientela dei risparmiatori rispetto a quella industriale e commerciale, una scelta strategica e autonoma che anticipava il quadro economico-giuridico successivo alla nascita dell’Istituto per la ricostruzione industriale (IRI) e alla nuova legge bancaria del 1936.
Nonostante qualche incomprensione e diverse critiche ai programmi ricevute dal ministero delle Finanze al momento della sistemazione delle banche miste, il Banco di Roma non si indebolì. Nella difficile situazione che attraversò l’intero sistema bancario nei primi anni Trenta con il passaggio delle banche miste sotto il controllo dell’IRI e la successiva emanazione della nuova legge bancaria, il Banco di Roma paradossalmente ne uscì meglio rispetto alla Banca commerciale italiana (che vide i vertici profondamente rinnovati) e al Credito italiano (che dopo avere condotto bene le operazioni più importanti riguardanti il settore elettrico, che più stava a cuore ai suoi maggiori azionisti privati – Carlo Feltrinelli e Alberto Pirelli –, si riprese con fatica dalla morte del suo presidente, Feltrinelli, avvenuta in circostanze in parte misteriose nel novembre del 1935). Ovviamente i vertici vennero rinnovati, ma la continuità garantita dalla presenza di Veroi come amministratore delegato fu un punto decisivo, cui si univa un ottimo standing negli ambienti bancari internazionali di Londra e Parigi. Del resto, la banca romana poteva vantare fattori che la ponevano in una posizione diversa rispetto ai due istituti milanesi: oltre ai rapporti speciali con il Vaticano, una rete estera nel Mediterraneo (in Turchia, Siria, Palestina, Egitto, Malta e Libia, mentre aveva allo studio nei primi anni Trenta un’espansione verso l’Arabia Saudita, in particolare a La Mecca, lo Yemen e l’Iraq) perfettamente allineata con gli interessi politico-diplomatici del regime. Non a caso l’istituto di Veroi fu in prima fila nelle operazioni bancarie al momento in cui venne annessa l’Etiopia, inviando un proprio funzionario a studiare la situazione prima dell’inizio delle operazioni militari. Era chiaro il segnale: il Banco di Roma voleva una sorta di investitura per la nuova stagione ‘imperiale’ e fece di tutto per combattere l’inflazione di sportelli bancari – in realtà sportelli della concorrenza – che rischiava di scatenarsi in Africa orientale. Non sorprende, peraltro, che la sua vicinanza al regime comportasse spesso atti di accondiscendenza (donazioni, finanziamenti e così via) e attività di facciata che offrivano supporto operativo alla politica mediterranea del fascismo.
Con lo scoppio della seconda guerra mondiale sorsero nuove difficoltà. Tuttavia, nonostante tutto Veroi e Felice Guarneri, presidente del Banco di Roma dal 1940 al 1944, credevano fermamente nella vittoria italiana e nella possibilità che esso diventasse la grande banca dell’impero, con interessi in tutto il Mediterraneo, tanto da predisporre programmi di espansione fino all’Ucraina, la Transilvania e il Mar Nero. Nel 1943, con la guerra ormai in casa e con Mussolini destituito, diversamente da Guarneri (che aveva già cominciato a prendere le distanze dal capo del fascismo), Veroi ribadiva la sua fiducia nella capacità delle truppe italiane di respingere quelle angloamericane. Anche per questo insistette perché la direzione della banca rimanesse a Roma, dopo che l’Italia era stata divisa in due dalle vicende belliche. Il suo piano fallì a seguito delle decisioni del governo di Pietro Badoglio che imponeva a tutte le banche di portare gli organi dirigenti al Nord. In tal modo Veroi, preferendo restare a Roma, perse le funzioni di amministratore delegato nel giugno del 1944. «Se anche lui fosse partito per il Nord – scrive Luigi De Rosa (1984) – forse la sua sorte sarebbe stata diversa, perché a Milano, in effetti, si giocò la carta vincente del futuro dell’istituto» (p. 226). Veroi presiedette l’unica riunione del Comitato speciale per il Sud del Banco, costituito all’indomani della liberazione di Roma, il 4 luglio 1944. Continuò a ricevere la retribuzione come direttore generale (100 mila lire nette al mese, una cifra che non incluse mai gli adeguamenti cui avrebbe avuto diritto fin dal 1936) fino al 30 settembre 1945.
Allontanato dalla banca con una cospicua buonuscita, fece ricorso, probabilmente per ottenere qualcosa di più, ma proprio per evitare un precedente pericoloso la banca si oppose. Negli anni del dopoguerra il Consiglio di Stato lo assolse da ogni addebito e sentenziò che dovesse essere considerato «il vero salvatore del Banco di Roma, da lui portato a uno stato di floridezza che costituisce un suo legittimo orgoglio» (Artefici del lavoro italiano, 1959, p. 323).
Nel 1947 venne eletto nel consiglio d’amministrazione della Compagnia giuliana meridionale, una società che aveva lo scopo di trasferire nel Meridione le imprese industriali, agricole ed edilizie già operanti nei territori giuliani e dalmati passati alla Iugoslavia dopo il 1945. Negli anni Cinquanta fu consigliere dell’Istituto centrale di banche e banchieri, del Fondo assicurativo tra agricoltori (FATA) e presidente della Società finanziaria italiana per l’Oriente (Sfior) e del Suppliers of basic commodities (Subaco). Svolse attività professionale come direttore generale e poi presidente della Banca del Fucino, una banca privata fondata dai Torlonia di Roma, fino al 1962.
Veroi fu membro del consiglio direttivo della sezione italiana della Camera di commercio internazionale nel 1938 e 1939. Ricevette numerose onorificenze: cavaliere di Gran Croce decorato di gran cordone dell’Ordine della corona d’Italia; cavaliere ufficiale dell’Ordine dei Ss. Maurizio e Lazzaro, grand’ufficiale dell’Ordine della stella coloniale, medaglia d’onore del merito libanese e grandufficiale dell’Ordine al merito della Repubblica italiana.
Ebbe quattro figli. Una delle figlie, Lucetta, morì ancora piccola nel 1932 e il Banco di Roma contribuì regolarmente al finanziamento della Fondazione Lucetta Veroi, istituita per volontà della famiglia, anche dopo la scomparsa del padre, avvenuta a Roma il 28 giugno 1970.
Opere. Gli interessi italiani nel Mediterraneo orientale, Roma 1938; I servizi bancari nell’impero e l’organizzazione del Banco di Roma, Roma 1938.
Fonti e Bibl.: Milano, Archivio storico Unicredit, Libro verbali del Comitato centrale, 26 giugno 1924; Libri matricola, ad annum e ad nomen; Registro del personale, n. 2 e n. 4; Direzione centrale, Segreteria alta direzione, Cassaforte riservata della direzione centrale, b. 89; Archivio storico Banco di Roma, VIII.4.1, b. 18, f. 92; VIII.6, b. 1, f. 1; IX.1, b. 18, f. 36; IX.1, b. 22, f. 39; IX.1, b. 28, f. 72; IX.1, b. 37, f. 107; b. IX.3.3.2, b. 7, f. 12; IX.4, b. 6, f. 8; XI.9.7.2, b. 635, f. 8620.
Chi è? Dizionario biografico degli italiani d’oggi, Roma 1948, p. 435; Panorama biografico degli italiani, Roma 1956, passim; Artefici del lavoro italiano, Roma 1959, passim; E. Cianci, Nascita dello Stato imprenditore in Italia, Milano 1977, passim; L. De Rosa, Storia del Banco di Roma, II, Roma 1983, pp. 411 nota, 461 nota, 487, III, 1984, ad ind.; L. Zani, Fascismo, autarchia, commercio estero. Felice Guarneri un tecnocrate al servizio dello “Stato nuovo”, Bologna 1988, pp. 171, 177-182, 184, 186 s., 189; G.F. Calabresi, L’Associazione bancaria italiana. Un caso di associazionismo economico, I, 1919-1943, Roma-Bari 1996, pp. 313 nota, 336 nota, 436 nota, 469, 472; E. Tuccimei, La Banca d’Italia in Africa, Roma-Bari 1999, pp. 173 s., 174 nota, 176, 176 nota, 177 nota, 179 s., 182, 249 nota; A. Roselli, Il governatore Vincenzo Azzolini 1931-1944, Roma-Bari 2000, pp. 35, 127 s., 177 nota, 182 nota, 199, 200 nota, 233, 234 nota; L’intervento dello Stato nell’economia italiana. Continuità e cambiamenti (1922-1956), a cura di A. Cova - G. Fumi, Milano 2011, pp. 64, 70, 75.
Ringrazio la dottoressa Francesca Malvezzi, responsabile dell’Archivio storico Unicredit, per il preziosissimo aiuto fornito.