POLSINELLI, Giuseppe
POLSINELLI, Giuseppe. – Nacque ad Arpino (nella provincia di Caserta, oggi in provincia di Frosinone) il 2 gennaio 1783 – e non il 17 luglio 1787 come riportato nei primi sommari cenni biografici – da Francesco e da Elisabetta Tessa (nei documenti il nome è indicato anche come La Tessa), appartenenti a famiglie da tempo dedite alla fabbricazione e commercializzazione dei panni di lana, tradizionale attività manifatturiera locale.
Alla metà del XVIII secolo il nonno paterno, Angelo (1703-1760), era mercante di panni; alcuni dei fratelli erano applicati nello stesso settore (due tessitori e due cardatori di lana); filatrici o tessitrici erano le donne della famiglia. La generazione successiva, rappresentata soprattutto dal padre Francesco (1751-1829), continuò l’attività familiare, favorita anche dall’alleanza commerciale e matrimoniale con la famiglia Tessa, a cui appartenevano il cognato Clemente, importante mercante di panni; Anna Maria, moglie del fratello maggiore Gregorio Polsinelli, cimatore morto a soli 21 anni; Giuseppe, che aveva sposato una sorella del padre. Francesco condusse l’impresa di famiglia per oltre mezzo secolo.
Dal 1774 al 1790, secondo minuziosi appunti stilati di suo pugno, si occupò degli acquisti di lana, alla fiera di Foggia o in altri luoghi di commercio, spesso associandosi con altri mercanti, tra cui i Tessa. Non è dato sapere quando sia passato da mercante organizzatore di lavoro a domicilio a proprietario, o almeno conduttore di una fabbrica accentrata, come avvenne per molti altri imprenditori arpinati alla fine del Settecento o nei primissimi anni dell’Ottocento.
A partire da questa situazione Giuseppe Polsinelli riuscì a fare il salto di qualità, lavorando in principio con il padre e poi con il fratello minore Angelo (1790-1876) e perseguendo al contempo l’ideale unitario, che lo portò dopo il 1860 nel Parlamento italiano.
L’appartenenza a una florida borghesia commerciale gli consentì di studiare giurisprudenza a Napoli dove contemporaneamente gestiva il negozio di famiglia e vendeva i panni Polsinelli e Tessa. Il soggiorno napoletano coincise in parte con il Decennio francese, un periodo molto propizio per la diffusione delle idee liberali; aderì alla Carboneria e nel 1820 al movimento costituzionale partecipando alla rivoluzione fallita e patendo la persecuzione borbonica.
Il salto di qualità dell’azienda avvenne nei primi anni Venti, quando i Polsinelli spostarono gran parte dell’attività da Arpino, priva di acque fluenti, a Isola del Liri, distante solo sei chilometri, dove era possibile sfruttare copiose cadute d’acqua per azionare le macchine, realizzando così una delocalizzazione decisiva per l’industria laniera della zona – una delle principali d’Italia in quel momento – imitata negli anni Cinquanta da altre tre grandi aziende arpinati: Ciccodicola, Pelagalli e Viscogliosi. A tale scopo si associò con il francese Carlo Lambert, che nel 1809 aveva impiantato un moderno lanificio nell’antico palazzo feudale Boncompagni di Isola, accanto alla cascata principale della cittadina, ed era in difficoltà a causa dei danni subiti nel 1821-23 dalle truppe costituzionali e dai contingenti militari austriaci. Grazie ai capitali dei Polsinelli furono acquistate nuove macchine e restaurato il fabbricato, dove lavoravano mediamente 250-300 operai; quindi, tra il 1839 e il 1843, a seguito di contenzioso giudiziario, Polsinelli rilevò la quota societaria di Lambert.
Nell’ambito delle attività aziendali si occupò personalmente di combinare le sostanze coloranti per tingere i panni, sperimentando nuove soluzioni, e di sovrintendere alla complessa e delicata operazione.
Nel 1852 la fabbrica fu al centro di una clamorosa protesta di stampo luddista da parte dei suoi operai, che gettarono nella cascata una macchina, acquistata da poco, per la scelta delle lane. Dopo la reazione di Polsinelli, che licenziò tutti, l‘intervento del sottointendente di Sora valse a far riaprire la fabbrica e riassumere gli operai.
Dal matrimonio con Anna Bianchi, nacquero Francesco, Elisabetta, Marianna e Giuseppina.
Contemporaneamente alla conduzione dell’azienda, Polsinelli portò avanti anche l’attività politica: in tono minore in qualità di decurione del Comune di Arpino (1837-43) e di consigliere della Provincia di Caserta (1837-44); con un impegno maggiore in qualità di membro della Camera dei deputati di Napoli durante il periodo costituzionale 1848-49.
Liberale convinto e ardente antiborbonico, benché molto anziano partecipò nei primi giorni dell’ottobre 1860 agli scontri nel Sorano e nella Marsica fra le truppe borboniche di Klitsche La Grange e tre squadre di volontari filogaribaldini, di cui una composta da 120 uomini al suo comando, che valsero a impedire l’avanzata borbonica in Abruzzo prima dell’arrivo dell’esercito piemontese.
Dopo l’Unità Polsinelli, mentre continuava a condurre la fabbrica, pur tra mille difficoltà, intensificò l’attività politica. Fu in varie fasi presidente del Consiglio provinciale di Caserta (1863-66, 1867-68, 1871-72) e soprattutto fu ininterrottamente deputato della Sinistra, eletto nel collegio di Sora, tra il 1861 e il 1876 (VIII-XII legislatura).
Alla Camera fu oppositore molto attivo dei governi della Destra, portando avanti soprattutto una linea «industrialista e anti agraria che […] si presentava come una vera alternativa rispetto all’orientamento della maggior parte dei deputati meridionali di opposizione che rappresentavano direttamente o indirettamente gli interessi della borghesia fondiaria del Mezzogiorno» (Capone, 1967, p. 55). Nel 1861 – dopo essersi espresso contro le spese per i trafori ferroviari e per il porto di Ancona, perché «il danaro occorre per armarci» (Camera dei Deputati, Atti parlamentari, VIII Legislatura, sessione del 1861, tornata del 2 maggio, p. 803) e contro una leva militare eccessiva, che causava grande malumore «nelle provincie napoletane» (6 maggio) – il 25 e il 27 maggio intervenne invano con lunghi discorsi contro le tariffe doganali liberiste adottate dal Piemonte nell’estate del 1860 ed estese a tutta l’Italia.
Pur ritenendo il libero scambio «buono», lo condannava per le modalità previste, cioè per «come si debba attuare, e fino a qual punto»; perché era una forma di libertà che aveva bisogno, «come tutte le libertà», di limitazioni (tornata del 25 maggio, p. 1116); così come era stato concepito da Cavour, si stava rivelando esiziale per la giovane industria italiana e in particolare per quella meridionale. A riprova dell’eccessivo liberismo adottato dal governo, ricordava che Francia e Inghilterra avevano conservato forme di protezione doganale e che «predica[va]no il libero cambio, dopo aver avuto per secoli una protezione grandissima» (p. 1117). Le sue erano «considerazioni elementari ma non per questo meno sensate, di cui però gli interlocutori mostravano di non fare nessun conto» (Are, 1965, p. 19), perché condizionati da un liberismo fatto «di poche schematiche formule dottrinarie, senza curarsi di cimentarle con un’analisi diretta delle reali situazioni economiche del paese» (p. 19).
Polsinelli ribadì le sue posizioni sul libero scambio nel 1863 in occasione della discussione sul trattato di commercio con la Francia (26 novembre): «non sono affatto protezionista, anzi amo il libero cambio [ma] la protezione in certi casi è utile» (Camera dei Deputati, Atti parlamentari, VIII Legislatura, sessione del 1863, tornata del 26 novembre, p. 1913). A suo avviso l’abolizione della maggior parte dei dazi aveva causato la crisi dell’industria e allo stesso tempo una grave riduzione del gettito fiscale. Anche da ciò dipendeva l’alto disavanzo statale: per sopperirvi, in occasione della discussione sul bilancio (12 e 15 dicembre 1863), chiese di operare sulle imposte indirette (piuttosto che su quelle dirette) e sui dazi sulle esportazioni. L’anno successivo si pronunciò, tra l’altro, contro le pensioni concesse dagli Stati preunitari perché per lo più riguardavano nemici dell’Unità (19 gennaio), contro una nuova imposta fondiaria, iniqua soprattutto per il Mezzogiorno (7 e 14 marzo) e contro la tassazione dei macchinari industriali (5, 6 e 7 dicembre 1864).
In questa circostanza ancora una volta emergeva il suo grido d’allarme per i problemi dell’industria italiana: «aggravare i fabbricanti con una tassa sopra le macchine è lo stesso che dare l’ultimo colpo alle manifatture, è lo stesso che distruggerle: le manifatture hanno già ricevuto abbastanza colpi, questo sarebbe l’ultimo» (Sessione del 1863-64, tornata del 7 dicembre, p. 7143).
Nel 1866, quando nel Paese a opera di Antonio Scialoja si riprese a parlare di un’imposta sul macinato, proposta da Quintino Sella nel 1862, pubblicò l’opuscoletto Mezzi che si propongono per ristorare le finanze d’Italia senza le imposte del macino e delle porte e finestre (Napoli, 15 gennaio 1866).
A suo avviso al posto di queste tasse, che – specialmente la prima – avrebbero colpito in modo eccessivo le classi meno abbienti, si potevano realizzare economie riducendo gli organici della pubblica amministrazione, sorvegliando gli appalti, rinviando alcune opere pubbliche e gestendo meglio l’esazione delle imposte dirette comunali; maggiori introiti dovevano derivare dal ribasso dei prezzi di alcuni generi di monopolio (francobolli, tabacco) con il conseguente cospicuo incremento dei consumi e dalla revisione delle tariffe doganali.
Riprendendo queste idee, il 19 febbraio 1866 Polsinelli si pronunciò con forza contro nuove imposizioni fiscali, invitando «i ministri [a] ricavare dalle imposte esistenti tutto quello che è necessario [...] ed a fare economie» (Camera dei Deputati, Atti parlamentari, VIII Legislatura, sessione del 1866, tornata del 19 febbraio, p. 843).
Negli anni successivi la condanna dell’eccessiva imposizione fiscale fu al centro del suo impegno parlamentare – divenuto ormai sporadico a causa della tarda età – con gli interventi dell’11 giugno 1867 contro la politica economica del ministro Marco Minghetti, del 30 giugno 1870 contro un’eventuale nuova imposta sull’«industria agraria», e del 12 dicembre 1872 contro la tassa sul macinato, definita «la cosa la più orribile che ci possa essere». Fece eccezione la durissima requisitoria del 5 marzo 1866 contro il brigantaggio, ancora non debellato nella provincia di Terra di Lavoro, perché i briganti attaccati dall’esercito italiano potevano rifugiarsi e riorganizzarsi nello Stato pontificio.
Nel 1874 diede alle stampe a Roma un breve scritto (67 pagine) rimasto pressoché sconosciuto: La politica de’ fatti, svolta nei principi da G. P., arpinate, deputato al Parlamento italiano: un vero e proprio «testamento politico» – avverte un anonimo presentatore – in cui ammoniva «come le leggi tornino insufficienti a difendere la nazione da coloro che tengono il potere e come occorra una più seria guarentigia, se della libertà non si vuol fare un nome vano. E questa guarentigia […] la si trova soltanto nella più larga partecipazione del popolo al potere» (p. 3).
Due anni dopo lasciò la Camera per la nomina a senatore (15 maggio 1876).
Morì ad Arpino il 14 agosto 1880.
Dopo la sua morte la fabbrica fu condotta tra molte difficoltà dal genero Domenico Cossa, marito della figlia Elisabetta, fino alla chiusura avvenuta nel 1890.
Fonti e Bibl.: Archivio di Stato di Napoli, Catasto Onciario, f. 1367, 1368.
Al di là delle prime brevi sintesi biografiche – di T. Sarti, Il parlamento subalpino e nazionale. Profili e cenni biografici, Terni 1890, ad vocem, e A. Malatesta, Enciclopedia biografica e bibliografica italiana, XLIII, Ministri, deputati, senatori dal 1848 al 1922, III, Roma 1941, p. 20 – si vedano le più ampie e sistematiche ricostruzioni di G. Gabriele, Elites industriali e politiche in Terra di Lavoro tra restaurazione e Regno d’Italia: G. P., Roma 2002, e di U. Iannazzi, Pensiero ed azione in G. P., imprenditore, patriota, esperto di tintoria, deputato e senatore del Regno d’Italia, in Storia antropologia e scienze del linguaggio, 2011, nn. 1-3, pp. 259-322. Alcune notizie tratte dalle carte di famiglia sono contenute in appunti e scritti ancora inediti che U. Iannazzi ha cortesemente fornito all’autore e fra i quali si contano gli appunti compilati di suo pugno tra il 1825 e il 1875, relativi a 310 bagni di tintoria con l’indicazione dei tempi di bollitura e delle sostanze impiegate per una cinquantina di colorazioni diverse.
Per un inquadramento generale a partire dal Settecento: S. de Majo, L’industria protetta. Lanifici e cotonifici in Campania nell’Ottocento, Napoli 1979, ad ind.; L. De Matteo, Governo, credito e industria laniera nel Mezzogiorno. Da Murat alla crisi post-unitaria, Napoli 1984, ad ind.; S. de Majo, Gli imprenditori di Arpino e l’industria laniera del Liri (secoli XVI-XIX), in Il 1848-49 nel territorio dell’attuale provincia di Frosinone, a cura di E.M. Beranger - A. Viscogliosi, Sora 2003, passim. Sulla crisi postunitaria anche C. Cimmino, Capitalismo e classe operaia nel Mezzogiorno nell’800 postunitario: i lanifici della Valle del Liri, di S. Elia Fiumerapido e dell’area matesina, in Economia e società nella Valle del Liri nel secolo XIX. L’industria laniera, Caserta 1986, passim. Sui fatti del 1860: M. Ferri - D. Celestino, Il brigante Chiavone. Storia della guerriglia filo borbonica alla frontiera pontificia (1860-1862), Casalvieri 1984, ad indicem. Sugli interventi contro l’abolizione dei dazi doganali: A. Scirocco, Governo e paese nel Mezzogiorno nella crisi dell’unificazione (1860-1861), Milano 1963, pp. 251-253; G. Are, Il problema dello sviluppo industriale nell’età della destra, Pisa 1965, ad ind.; A. Capone, L’opposizione meridionale nell’età della destra, Roma 1967, pp. 54 s. Gli interventi negli Atti Parlamentari, Camera dei Deputati, sessioni varie, sono consultabili anche nel Portale storico, http://storia.camera.it/faccette/sedute/*:*%7Ccontents:polsinelli#nav; per la sua scheda di senatore Archivio storico del Senato, Banca dati multimediale I senatori d’Italia, II, Senatori dell’Italia liberale, sub voce, http://notes9.senato.it/web/senregno.nsf. (12 settembre 2015).