REVERE, Giuseppe
REVERE, Giuseppe. – Nacque a Trieste il 2 settembre 1812, primogenito del commerciante lombardo Luciano Maïr e della friulana Enrichetta Morpurgo. Ebbe tre fratelli (Adolfo, Alessandro e Marco) e una sorella (Ester). L’origine ebraica, sempre presente nell’animo di Giuseppe, non fu mai vissuta con problematicità, ma con serenità non scevra di ironia.
Nella città natale Revere compì i primi studi, ma per la poca assiduità nella frequenza scolastica ne trasse ben poco profitto e fu dal padre impiegato in un ufficio commerciale.
Per responsabilizzare l’irrequieto e inconcludente figlio, il padre acconsentì a lasciarlo partire per Milano, dove Giuseppe giunse fra il 1830 e il 1835. Collaborò con vari giornali fra i quali l’Indicatore lombardo e la Rivista europea. Su quest’ultima iniziò la pubblicazione di un saggio, dal titolo La cacciata degli spagnoli da Siena, nel quale interpretò in chiave antiaustriaca la rivolta senese del 1552.
A Milano Revere visse in condizioni di povertà e, spesso, di vera e propria miseria. Uno stile di vita che non teneva conto delle sue poche risorse, solleticato dalla frequentazione degli ambienti altolocati della società, accentuò quella stravaganza caratteriale che lo accompagnò per tutta la vita: grandeur e bohème ne fecero un personaggio molto noto nella società mondana e letteraria. Stravaganza e vanità furono, talvolta, maliziosamente incoraggiate da coloro che lo frequentavano. Non sempre si trattava di vanterie inconsistenti: attestarono l’avvenenza fisica di Revere sia Alessandro Repetti sia, vent’anni più tardi, Edmondo De Amicis. L’ambiente più amato dal giovane Revere era il salotto della contessa Maffei, al quale ebbe accesso fino a quando offese in un sonetto l’attrice Fanny Sadowsky. Ma la sua stravaganza fu accompagnata da un grande impegno culturale, che lo rese padrone di una cultura enciclopedica. Conobbe Francesco Torti, allievo di Parini, Tommaso Grossi e Carlo Cattaneo.
Nel 1839 pubblicò il Lorenzino de’ Medici, un dramma storico che ebbe un notevole successo sia di critica sia di pubblico e che illuse Revere di aver dato vita a una drammaturgia che fosse insieme colta e popolare, funzionale al disegno politico e culturale di Giuseppe Mazzini. Altri drammi non ebbero altrettanto successo: I piagnoni e gli arrabbiati al tempo di fra Girolamo Savonarola, pubblicati nel 1843, Sampiero di Bastelica e Il marchese (o La congiura) di Bedmar o Venezia e gli spagnoli nel 1618, composti rispettivamente nel 1845 e nel 1846, vennero giudicati prolissi e inadatti alla rappresentazione scenica, ottenendo risultati deludenti e condividendo un destino comune a molta della drammaturgia italiana dell’Ottocento.
Il Lorenzino fu la pietra miliare dell’esistenza di Revere: le lodi che gli procurò generarono in lui un senso di grandezza e di superiorità umana e artistica, che non lo abbandonò più durante tutta la vita e, scontrandosi con l’indifferenza del mondo, gli conferì quel carattere e quell’estro risentiti e rancorosi che lo connotarono in maniera inconfondibile.
Contemporaneamente con le opere teatrali uscirono le raccolte di poesie Sdegno ed affetto (24 sonetti pubblicati a Milano nel 1845) e Nuovi sonetti (31 poesie edite dalla Tipografia Elvetica di Capolago nel 1846). Nel 1847 venne dato alle stampe il carme Marengo, dedicato a Napoleone.
Nel 1844 Revere tornò per l’ultima volta nella sua terra d’origine insieme con l’amico Lorenzo Butti. Visitò Muggia, Grado, Aquileia e Pola. Al proprio mare dedicò il racconto I ricordi di un’onda, poi incluso nella raccolta Marine e paesi.
Nei Nuovi sonetti la polizia ravvisò incitamenti antiasburgici e repubblicani e Revere fu sottoposto a vigilanza e a interrogatori che lo indussero a trasferirsi a Torino nel 1847. Quando, però, nel marzo del 1848 scoppiarono le Cinque Giornate milanesi, fece ritorno a Milano. Qui conobbe personalmente Mazzini per il cui giornale, L’Italia del popolo, scrisse alcuni articoli di carattere politico.
Domata l’insurrezione milanese, si presentò a Venezia come rappresentante del legittimo governo lombardo scaturito dalle Cinque Giornate, ma, espulso per aver scritto con Antonio Mordini un documento in cui criticava aspramente il governo di Daniele Manin, si recò a Firenze. Nel 1849 giunse a Roma, dove, fuggito il papa e proclamata la Repubblica Romana, con il triumvirato di Mazzini, Carlo Armellini e Aurelio Saffi sembrarono realizzarsi gli ideali risorgimentali mazziniani, ed egli fece così parte dell’Assemblea nazionale.
Quando nel luglio del 1849 l’esercito francese stroncò il tentativo rivoluzionario e occupò la città. Revere fu costretto alla fuga e si rifugiò a Genova. Il passato di fervente repubblicano attirò su di lui i sospetti delle autorità di polizia, che lo confinarono nella città di Susa, insieme con l’amico Pietro Maestri. Qui Revere riprese l’attività letteraria, componendo i Bozzetti alpini, pubblicati a Genova nel 1857. I Bozzetti gli dettero nuova notorietà, tanto che per l’umorismo che vi pose fu accostato a Sterne e Heine. Ma il clima nocivo alla salute e le difficoltà economiche lo indussero a chiedere la revoca del confino, che gli venne rapidamente concessa permettendogli il rientro a Torino.
In questo secondo periodo torinese Revere scrisse per il giornale La Concordia e collaborò con la Rivista contemporanea, sulla quale pubblicò i Procacci di Torino, sotto lo pseudonimo di Cecco d’Ascoli, poeta, medico e astrologo processato per eresia e arso vivo nel 1327. Rinunciò, tuttavia, a firmare i propri articoli politici.
Nel 1851 uscì la raccolta poetica I Nemesii, contenente 28 sonetti, due anni dopo il carme In morte di Giuseppe Lions, dedicato «alla gioventù piemontese». Il 1854 fu l’anno del dramma Vittoria Alfiani, del quale restano solo pochi frammenti, benché risulti che sia stato effettivamente rappresentato in teatro.
In perenne crisi economica, Revere ottenne, per l’intervento di un fratello, un impiego bancario a Genova. Qui pubblicò nel 1858 Marine e paesi, una raccolta satirica di prose storiche, e nel 1862 un’altra raccolta di cinquanta sonetti, dal titolo Persone ed ombre. Dopo queste opere la fremente vena poetica di Revere si acquietò per circa diciassette anni e nei primi anni Sessanta divenne impiegato statale del recente Regno d’Italia, alle dipendenze del ministero dell’Agricoltura, Industria e Artigianato.
Nel 1863 tornò a Torino, secondo la testimonianza di De Amicis, continuando a tenere atteggiamenti anticonformisti. Nel 1865 seguì la capitale a Firenze. Nel 1869 partecipò con la delegazione italiana all’inaugurazione del canale di Suez. Il viaggio in Egitto lasciò una duratura impressione nell’animo di Revere, tanto che quando, nel 1879, si ripresentò sulla scena poetica con una raccolta di 135 sonetti, le dette il titolo di Osiride, divinità nazionale dell’antico Egitto.
Dopo lo sbiadito successo di Osiride, Revere dette alla luce altre due raccolte poetiche, Sgoccioli nel 1881 e Trucioli nel 1884.
Rimasto ostinatamente scapolo, trascorse gli ultimi anni ospite in casa di un nipote, l’avvocato Luciano Morpurgo, che si prese cura di lui. In questo periodo di declino fisico e di delusione per una grandezza che egli riteneva di meritare, ma che non gli veniva riconosciuta, iniziò la stesura di lavori destinati a rimanere incompiuti: La giovinezza (o Le sventure) di un pittore, Sandro il setaiolo e la Storia di Giuseppe Alessi.
Morì a Roma il 22 novembre 1889.
Cremato, le sue ceneri non furono portate a Trieste, come egli avrebbe voluto, a causa dell’ostilità austriaca, fino al 1921. Milano fu la sola città che gli dedicò una lapide e una strada. Sulla lapide, posta in via San Pietro all’Orto al numero 9, viene definito «poeta e prosatore d’alti intendimenti civili».
Nella poesia di Revere non è difficile percepire una linea di pensiero e una modalità espressiva che con sicurezza lo identifichino. L’alto concetto di sé e la fedeltà alla forma sonettistica ne fanno una figura solitaria nel quadro delle correnti letterarie del tempo. La sua ambizione di essere considerato un classico e di presentarsi, benché misconosciuto e osteggiato dai contemporanei, come il degno erede dei grandi del passato, e principalmente di Vittorio Alfieri, si risolve in una poesia polemica, amara, a volte biliosa. Gli strali della sua polemica letteraria si dirigono in particolare su Giovanni Prati, poeta della stessa misura di Revere, ma più noto e perfino più fortunato nella carriera impiegatizia. Se ammirevoli sono la costanza tematica, il rigore della forma, incentrata nella predilezione per il sonetto, la ricercatezza del lessico, non di rado volutamente arcaizzante e oscuro, la sua poesia è gravata da un’aura di tempo passato e di inattualità.
Il Revere prosatore fu più elegante, seppure ancor meno fortunato. Le opere in prosa, libere dai vincoli formali del sonetto, sono appesantite da una sorta di enciclopedismo forzatamente ironico. La sua opera più significativa, i Bozzetti alpini, segna la faticosa ricerca di una via mediana fra l’erudizione e l’ironia, che di rado s’intravede nella ridondanza di notazioni storiche, geografiche, filologiche, folcloristiche, intercalate da riflessioni politiche, morali, religiose. Donde quella caratteristica di opera intellettualistica, non ispirata, ma costruita.
Fonti e Bibl.: E. Camerini, G. R., in Profili letterari, Firenze 1878, pp. 352-354; A. Ròndani, Prefazione alle Opere complete, in parte inedite o rare di G. R., Roma 1897; C. Cimegotto, G. R., Padova 1899; G. Bustico, L’esilio di G. R. e Pietro Maestri a Susa nel 1850, Roma 1916; G. R., a cura di A. Revere, pref. di P. Sticotti, Roma 1928; Il tormento di G. R., articolo anonimo, in Il Giornale di Trieste 28 settembre 1952; D. M. [Daniele Mattalia], R. in Dizionario letterario Bompiani, III, Milano 1957; G. R., in Poeti minori dell’Ottocento, I, a cura di L. Baldacci, Milano-Napoli 1958; V. Caputo, G. R., in Profili letterari, Pisa 1963; N. Gnoli Fuzzi, Un uomo inquieto, in Il Piccolo, 15 gennaio 1972; G. Revere, Osiride, introduzione, critica e commento a cura di G. Tossani, Roma 2010.