ROMEI, Giuseppe
(Giovanni Giuseppe). – Nacque il 23 giugno 1710 a Firenze, nel popolo di S. Maria Novella, da Marco di Giuseppe e da Agata di Jacopo Bolognesi. La fede di battesimo presso l’Opera di S. Maria del Fiore corregge, anticipandola di quattro anni, l’erronea data di nascita riportata dal relativo Elogio di Romei contenuto nel Supplemento (1776) all’Abecedario pittorico di Pellegrino Antonio Orlandi.
Se Francesco Maria Niccolò Gabburri formulò nel 1739 un giudizio laconico e negativo sull’artista, l’anonimo estensore dell’Elogio fornisce invece un nutrito elenco delle opere di Romei, ormai all’apice della carriera, culminante nell’accenno ai nuovi affreschi in S. Maria del Carmine, avviati a tre anni dall’incendio nel 1771 e ancora in fieri all’uscita alle stampe del Supplemento. Sia l’impresa carmelitana, terminata nel 1781, sia il precedente sfondo nella navata di S. Salvatore in Ognissanti (1769-70) permangono tuttora, insieme a sporadiche commissioni sparse sul territorio toscano, i soli punti fermi nel lungo percorso artistico di Romei, per alcuni tratti ancora oscuro e svoltosi per intero a Firenze e in località periferiche senza mai varcare i confini del granducato. Il mancato confronto con altre scuole e gli inevitabili rimandi alla coeva pittura fiorentina appaiono dunque, a una visione a posteriori, i limiti che rallentarono la ricerca di una propria identità stilistica da parte di Romei, rendendo oggi difficile la ricostruzione del suo iter professionale.
Tanto Gabburri che l’Elogio riferiscono del precocissimo ingresso di Romei – 1721-23 circa – nell’atelier di Antonio Puglieschi, prosecutore dello stile classicista toscano di Antonio Franchi e Anton Domenico Gabbiani non senza riferimenti alla cultura romana di Ciro Ferri e Carlo Maratti. A cinque anni dalla scomparsa del maestro (1731), e forte dell’appoggio del pittore Mauro Maria Soderini, l’8 gennaio 1736 Romei inoltrò domanda d’ingresso all’Accademia del disegno, dove s’immatricolò il 15 gennaio dell’anno seguente. Gabburri, che in veste di luogotenente dell’istituzione lo accolse come novizio, manifestò due anni più tardi il proprio rammarico nel constatare quanto il pittore, ormai quasi trentenne, si fosse allontanato dalla lezione del maestro tanto nel «colorito» che nel «disegno», rincorrendo lavori in «luoghi suburbani o in qualche convento di frati ignoranti della bell’arte della pittura» (Firenze, Biblioteca nazionale centrale, III, 1739-40, c. 198r). Determinante fu piuttosto, già agli albori del quarto decennio del Settecento, la consapevolezza del pittore di non poter competere con Puglieschi sul terreno della pittura a olio, privilegiando di conseguenza la carriera di frescante.
Alle committenze religiose in provincia ricordate da Gabburri si ricollegano le decorazioni murali eseguite l’indomani della matricola nel 1737 e censite solo in parte dall’Elogio: la Gloria di s. Cristoforo nella cupola della chiesa omonima di Barga, i perduti affreschi absidali nella pieve di S. Pancrazio a S. Casciano Val di Pesa e, nelle vicinanze, la Gloria di s. Giovanni Battista al cospetto della Trinità – con i Quattro Evangelisti nei pennacchi – affrescata nella cupola emisferica della pieve di S. Giovanni in Sugana a Cerbaia. Quest’ultima opera, ignorata dall’Elogio, testimonia il giovanile tirocinio extra moenia di Romei come frescante, compiuto fin dalla prima metà degli anni Trenta per impratichirsi nella rappresentazione illusionistica dello spazio e nella visione scorciata delle figure prendendo a modello il Volterrano della cappella Colloredo (1650-52) e della cupola albertiana (1680-82) alla SS. Annunziata.
Tra il 1742 e il 1752 Romei prestò la propria opera come collaboratore esterno nella Manifattura delle Porcellane fondata a Doccia dal marchese Carlo Ginori (1737), ponendosi sotto le direttive del pittore austriaco Johann Carl Wendelin Anreiter, dal quale avrebbe ereditato nel 1746 il ruolo di capo della 'pittoria' (Casanova, 2001, p. 25). Nel decennio trascorso nella Manifattura (Ginori Lisci, 1963, pp. 232 s.; Biancalana, 2009), l’artista divenne apprezzato decoratore delle porcellane realizzate su modelli dello scultore Gaspero Bruschi: chicchere, scaldini con vedute «a paesi» ispirate alla campagna toscana (introdotte da Romei in luogo dei paesaggi nordici di Anreiter), statuette (un pagamento del 7 novembre 1748 attesta la coloritura di un «Pulcinella») e le cosiddette ‘galanterie’, ovvero tabacchiere di varie sorti talora con scene di battaglie dipinte sul coperchio e cammei a bassorilievo lungo lo spessore della base (un esemplare autografo con Storie di Alessandro Magno, documentato al 1749, si conserva nel museo Duca di Martina a Napoli).
Negli anni di Doccia Romei maturò l’idea, magnificata dall’Elogio in poi, di «dipingere sul panno bianco a sughi d’erbe a guisa di arazzo, e vi riescì felicemente, essendocene in Firenze di suo nelle primarie case, come ancora in molti luoghi della Toscana» (1776, col. 1376). La tecnica dei ‘succhi d’erbe’ (o ‘finti arazzi’) – già praticata con successo a Roma dal massese Ginesio del Barba (1691-1762) – venne diffusa da Romei in territorio fiorentino (Campori 1873), traendo particolare fortuna dalla trasposizione nel grande formato di temi paesistici già sperimentati dal pittore in seno alla Manifattura, tanto che la notorietà così ottenuta ne offuscò con il tempo la fama di frescante (Inghirami, 1841-1845).
La natura saltuaria del rapporto lavorativo con il marchese Ginori consentì a Romei prolungate pause dall’impegno in fabbrica a favore di altre commissioni. La cronologia contabile a suo nome registrata a Doccia evidenzia infatti due distinti periodi d’interruzione: l’uno dal luglio 1743 al febbraio 1746 e il secondo fra l’aprile e il novembre 1746. Nel corso del primo intermezzo potrebbero collocarsi le commissioni Capponi descritte dall’Elogio (1776, col. 1376): «Nella sala del sig. marchese Capponi dietro la SS. Nunziata di Firenze dipinse a fresco i medaglioni. E dipinse ancora per il sopradetto una stanza a fresco nella sua villa di Montoghi». Se la sala decorata da Romei presso villa La Pietra a Montughi non risulta all’appello, l’incarico a palazzo Capponi potrebbe ricollegarsi alla decorazione pittorica del salone da ballo al piano nobile, completata nel 1746 da Matteo Bonechi e dalla sua équipe per il marchese Francesco Pier Maria di Alessandro Capponi (Spinelli, 2009, p. 39). Reduce da precedenti opere a fresco interne all’edificio, Bonechi dovette avvalersi del pittore per l’esecuzione nel salone dei sei medaglioni a monocromo con i ritratti di membri illustri di casa Capponi (Niccolò, Aloisio, Pietro, Gino, Neri e il cardinale Aloisio), dipinti sopra le porte ai lati dei tre grandi riquadri parietali con episodi storici legati alla famiglia committente.
I positivi effetti dell’ipotizzata esperienza di Romei nel salone Capponi sotto la guida di Bonechi si palesarono nelle due lunette affrescate dal pittore nel refettorio di Ognissanti nel 1746, ovvero durante il secondo periodo di assenza da Doccia. Speculari sotto il profilo spaziale, le due scene con il B. Salvatore da Horta guarisce i malati e la Visione di s. Pasquale Baylon (quest’ultima firmata e datata) segnano un punto di arrivo nella lenta evoluzione stilistica di Romei; il quale, pur tradendo un certo impaccio nella resa prospettica delle architetture classiche negli sfondi, inaugura nei personaggi quelle fisionomie tipiche e immediatamente riconoscibili, memori di Puglieschi e del tardo Bonechi, destinate a divenire la sua cifra ricorrente e il principale elemento distintivo delle opere successive. Uno stadio precoce dell’elaborazione progettuale relativa alla lunetta con il B. Salvatore risulta documentato dal veloce bozzetto su tela oggi presso il Musée des beaux-arts a Chambéry (Damian, 1990).
Il 1751 vide Romei incluso nel gruppo di artisti chiamati dal Consiglio di Reggenza a commemorare per immagini la defunta imperatrice Elisabetta Cristina, vedova di Carlo VI d’Asburgo, nelle solenni esequie celebrate in S. Lorenzo il 10 marzo (Lenzi Iacomelli, 2014, pp. 83, 258). La partecipazione a quest’impresa collettiva offrì al pittore non solo l’opportunità di confrontarsi con Giovanni Domenico Ferretti, Francesco Gambacciani e il quadraturista Domenico Stagi, rincontrati vent’anni più tardi nel cantiere del Carmine, ma anche l’occasione per stringere rapporti con Vincenzo Meucci (1694-1766), che potrebbe aver giocato un ruolo decisivo nella scelta maturata da Romei nel 1752 di abbandonare l’impiego a Doccia per riprendere l’attività di frescante. Forse influì sulla sua decisione il fatto che nel 1753, a meno di un anno dall’ultimo pagamento erogato al pittore in fabbrica, Meucci avesse intrapreso nella villa Ginori a Doccia, coadiuvato dal prospettico Giuseppe del Moro, l’affrescatura del soffitto della galleria al piano terreno, destinata dal marchese Carlo all’esposizione dei manufatti in porcellana usciti dalla Manifattura. Al momento non è noto se Romei, facendo leva sul suo rapporto privilegiato con il committente, potesse aver ottenuto un ruolo di collaboratore nell’esecuzione di quest’opera murale, terminata nel 1754.
Negli anni dell’assidua presenza nella chiesa di S. Maria Maggiore di Meucci e della sua bottega (1754-55; 1757-58; Lenzi Iacomelli, 2014, pp. 214 ss., nn. 69-70, 73) potrebbe porsi l’esecuzione da parte di Romei del distrutto S. Giovanni Evangelista in gloria nella volta della cappella Orlandini del Beccuto a destra dell’altar maggiore, affresco ricordato dall’Elogio e da Gaetano Cambiagi fin dalla prima edizione della Guida di Firenze (1765). Questa fu probabilmente una delle prime commissioni affidate al pittore dall’illustre famiglia: «Nella magnifica villa di Poggiotorselli dei signori Orlandini [Romei] dipinse a fresco lo sfondo della Galleria, rappresentante la Terra rivestita dall’Agricoltura, con le Quattro Stagioni, che gli presentano i loro prodotti, e Febo con i Venti e le Rugiade, che la fomentano. Sopra le porte di detta Galleria dipinse a fresco a chiaro scuro i Quattro Elementi» (Elogio, 1776, col. 1376). Del descritto affresco e delle nominate sovrapporte a monocromo non risulta traccia nella villa di Poggio Torselli a S. Casciano Val di Pesa, passata in eredità nel 1726, insieme al fiorentino palazzo Orlandini, a Giulio Rinieri di Fabio del Beccuto; il quale, in virtù di tale successione, aveva associato al proprio cognome quello del precedente proprietario dei due immobili, Giovanbattista di Girolamo Orlandini, scomparso nel 1722 senza eredi. Poiché all’interno della villa di Poggio Torselli le personificazioni a monocromo dei Quattro elementi, cui allude l’Elogio, erano già state affrescate agli inizi del Settecento da Rinaldo Botti nei medaglioni angolari congiunti allo sfondo con l’Allegoria della Primavera (Leonelli, 2015b, pp. 30 ss., figg. 21-25), nasce il sospetto che l’anonimo biografo di Romei abbia erroneamente attribuito tali soggetti alle sovrapporte, anch’esse a monocromo, della galleria; il cui soffitto, oggi privo di decorazione, potrebbe avere dunque ospitato la perduta Allegoria della Terra riferita al pittore. I dati di stile evidenziati da queste tre sovrapporte di argomento mitologico – Venere e Adone, Nettuno con Anfitrite e la Fuga di Enea – appaiono gli stessi che caratterizzano, nella volta di una sala al piano nobile di palazzo Orlandini del Beccuto a Firenze, l’affresco con il Trionfo di Venere di recente ricondotto, al pari dei citati monocromi di Poggio Torselli, all’unica mano di un «pittore fiorentino di inizio Settecento» (Leonelli, 2015a, pp. 27 s., figg. 18-20, tav. VIII [1]). Il diluirsi in forme più corsive dello stile di Bonechi, l’eco di Puglieschi e soprattutto le fisionomie muliebri sono elementi compatibili con il linguaggio rétro e poco soggetto a evoluzione che fu proprio di Romei; il quale potrebbe aver realizzato questi affreschi, in città e in villa, in un periodo di poco precedente alle nozze, nell’ottobre del 1757, fra il primogenito di Giulio Orlandini del Beccuto, Fabio Francesco, e Maria Teresa di Emilio Pucci. Questi dati stilistici e caratterizzazioni tipologiche ricorrono senza eclatanti mutamenti nella pala con il Miracolo di s. Chiara nella chiesa dei Ss. Lucia e Michele a Monte Orlando (1777 circa; Romagnoli, 1990, p. 57) e nei quattro Angeli con simboli eucaristici affrescati nei pennacchi della cappella Buonaccorsi Perini al Carmine, firmati e datati nel 1781 (Fabbri, 1992, pp. 140 s., figg, 50-53).
A un anno dalla breve sosta a Empoli nel 1764 per eseguire nella chiesa di S. Mamante l’affresco con i Ss. Mamete e Basilio di Cesarea in adorazione della Madonna, Romei si trovò ancora a collaborare con Meucci, Stagi e Del Moro nell’allestimento dello spettacolo musicato da Baldassarre Galuppi, L’arrivo d’Enea nel Lazio, in scena al teatro della Pergola il 14 novembre 1765 per l’insediamento in Toscana del nuovo granduca Pietro Leopoldo d’Asburgo Lorena e della moglie Maria Luisa di Borbone. Il fatto che in tale circostanza venisse assegnato a Romei il compito di dipingere la scena del bosco (Farneti- Bertocci, 2002, p. 188) lascia supporre che egli fosse ormai noto come specialista nella pittura di paesaggio grazie alla fortunata produzione di ‘succhi d’erbe’.
Quanto finora esposto spinge a riconsiderare il ciclo di vedute paesistiche a fresco che guarniscono, a mo’ di quadri incorniciati in stucco, le pareti di alcune sale terrene nella villa Orlandini del Beccuto a Poggio Torselli, rese note di recente insieme all’iscrizione latina su una di esse, letta come «I. B. […] Pinx[it] 1768» (Bellesi, 2013, pp. 56 s.). L’attenzione ai dettagli e lo schema compositivo che accomuna questi paesaggi – introdotti da quinte arboree e sconfinanti verso l’orizzonte in un misto fra realtà e fantasia – tradiscono la già rilevata conoscenza delle opere di Giuseppe Zocchi e di altri pittori locali (Niccolò Pintucci, Pietro Giarrè); tuttavia il fluido andamento delle pennellate sembra piuttosto rinviare ai fantasiosi brani di paesaggio che fanno da scenario alle quattro figure di Profeti affrescate da Romei (1780) nei grandi pennacchi della cupola al Carmine (Fabbri, 1992, pp. 112 s., 133, figg. 34-37). Tali analogie di stile danno ragione di credere che l’ignoto “Monogrammista I. B.” riconnesso alla serie Orlandini altro non sia che “I. R.”, le iniziali di Romei nella variante latina del nome (“IOS. ROMEI”) che compaiono in lettere capitali, congiunte alla data, alla base di uno dei citati Profeti e, sempre al Carmine, nei pennacchi della cappella Buonaccorsi Perini (Fabbri, 1992, pp. 133 s.). L’aggiunta al catalogo del pittore del ciclo di vedute Orlandini, datato 1768, si rivela fondamentale poiché testimonia, al di là della stima del committente, un aspetto essenziale della produzione pittorica di Romei noto finora solo attraverso le fonti.
Il 6 luglio 1770 la Gazzetta Toscana annunciò lo scoprimento del nuovo soffitto piano della basilica di Ognissanti, che aveva visto coinvolti nell’affrescatura su stuoia, eseguita in otto mesi di lavoro «sempre col lume di candela», il figurista Romei nell’esecuzione dello sfondo centrale con la Gloria dei ss. Francesco e Pasquale Baylon e il prospettico Giuseppe Renucci (Elogio, 1776, col. 1377; Strocchi, 1995). La commissione a Romei di un’opera di tale risonanza – celebrante l’apoteosi dei due santi francescani assurti alla Trinità fra gruppi angelici sfalsati e nubi eccedenti oltre i limiti della cornice dipinta – lascia intuire che l’artista si fosse già creata la nomea di saper dominare estese aree a sfondato e, all’occorrenza, operare con specialisti in quadrature. Ciò rafforza il convincimento, qui ventilato in relazione a Bonechi e Meucci, che Romei fosse approdato a Ognissanti con almeno un ventennio di esperienza alle spalle maturata non solo attraverso l’attività autonoma ma anche a contatto con pittori versati nella grande decorazione. I presupposti che stanno all’origine del sodalizio artistico fra Romei e Renucci a Ognissanti sono forse da ricercarsi nell’ambito della campagna decorativa di gusto classicista condotta fra il 1758 e il 1764 nelle sale al piano nobile di palazzo Gerini, alla quale parteciparono lo stesso Renucci, altri noti quadraturisti e i pittori di figura Giuliano Traballesi, Meucci, Tommaso Gherardini e Zocchi (Lenzi Giacomelli, 2015, pp. 109 ss.), ovvero i modelli di riferimento per Romei in questa fase di accelerato avanzamento nella professione.
Il successo conseguito nella basilica di Ognissanti, replicato il 6 ottobre 1770 con la pubblica esposizione della tenda d’organo raffigurante Re David con l’arpa e angeli (Gazzetta Toscana, 1770, n. 40, p. 159; Elogio, 1776, col. 1377), garantì a Romei una lunga stagione fitta d’impegni. Dopo l’esecuzione della perduta pala con S. Benedetto nell’atto di accogliere i ss. Placido e Mauro per la rinnovata chiesa delle Murate (Elogio, 1776, col. 1377; Follini - Rastrelli, 1789-1804), Romei tornò in S. Maria Maggiore per eseguirvi, su incarico di Giulio Orlandini del Beccuto e in squadra con lo stuccatore Giuseppe Scarpellini e il doratore Domenico Bernini, lo sfondino con la Gloria di s. Biagio nella cappella omonima, riaperta alla pubblica vista «dopo cinque mesi di lavoro» il 19 luglio 1771 (Gazzetta Toscana, 1971, n. 29, p. 115; Elogio, 1776, col. 1377).
L’intenzionale recupero del classico eloquio di Puglieschi caratterizza il capolavoro della maturità di Romei, presentato al pubblico il 13 agosto 1772 nella basilica della SS. Annunziata (Archivio di Stato di FIrenze, Corporazioni religiose soppresse dal governo francese, 119. vol. 57, Ricordanze, c. 445; Elogio, 1776, coll. 1377-1378). Si tratta della tenda d’organo con il Transito di s. Giuliana Falconieri che fronteggia, sul lato sinistro della navata, la Presentazione della Vergine al Tempio dipinta nel 1705 da Puglieschi nella tela di uguali dimensioni che funge da schermo al cosiddetto ‘organo vecchio’ (Giorgetti, 1978, pp. 202, 217-220, fig. 57).
Escluso dall’imponente campagna decorativa che segnò la rinascita, a partire dal 1770, della villa del Poggio Imperiale per impulso di Pietro Leopoldo di Lorena; e rimasta inascoltata, all’aprirsi del 1772, la sua candidatura a proseguire gli ornati a grottesca nel corridoio di ponente agli Uffizi (Bastogi, 2009), Romei beneficiò della sua grande occasione nella chiesa di S. Maria del Carmine, parzialmente riedificata dopo l’incendio divampato fra il 28 e il 29 gennaio 1771. Dalla ricevuta autografa rilasciata ai carmelitani, contenente un riepilogo dettagliato delle opere svolte su loro commissione fra il 29 marzo 1774 e il 28 luglio 1781 per un compenso totale di 537 scudi (Fabbri, 1992, pp. 133 s., note 68-69), si apprende che Romei, raccomandato forse dello stesso granduca, firmò il contratto con i religiosi in data 11 gennaio 1774. Dopodiché, completati gli studi preliminari, avviò la decorazione della chiesa muovendo dallo sfondo centrale della navata per poi procedere, sempre coadiuvato dal quadraturista Domenico Stagi, con l’affrescatura della cupola, delle volte del coro e del transetto e dei citati pennacchi della crociera, associati questi ultimi all’iscrizione latina che segna il completamento della prima fase dei lavori: «IOS ROMEI TESTITUDINEM, ET FORNICEM PINXIT. 1780». Risalgono probabilmente a tale anno anche l’esecuzione della tenda d’organo, raffigurante la Vergine dona lo scapolare a s. Simone Stock, e l’intervento di restauro, menzionato dallo stesso Romei, dell’affresco eseguito nel 1748 da Meucci nella volta della cappella Brancacci, danneggiata dall’incendio (Fabbri, 1992, pp. 133 s.). Nel 1781 si collocano infine i citati affreschi nella cupoletta ellittica e nei pennacchi della cappella Buonaccorsi Perini nel transetto sinistro, ultimo atto di una sequela d’interventi succedutisi nell’arco di sette anni (ibid.). Il livello qualitativo delle pitture eseguite da Romei al Carmine appare discontinuo, sempre in bilico fra originalità e palesi citazioni da altri pittori. Si passa dall’ardita prospettiva aerea di memoria pozziana dell’Ascensione di Cristo nello spazio voltato a botte della navata – dilatato a dismisura dalle finte architetture di Stagi – alla pedissequa rilettura delle opere del Volterrano all’Annunziata e in S. Maria Maggiore nella grande cupola della crociera, rappresentante il Paradiso, e nella volta ellittica del coro carmelitano con il Rapimento di Elia sul carro di fuoco, del quale è noto il bozzetto a olio agli Uffizi (Mosco, 1979). Si passa inoltre dal ricorso al classico linguaggio di Meucci nelle immagini gloriose del B. Angelo Mazzinghi e di S. Maria Maddalena dei Pazzi, evocate negli sfondi del transetto, alla ritrovata eleganza espositiva, propria di Puglieschi, nella cupoletta della cappella Buonaccorsi Perini raffigurante Melchisedeck offre pane e vino ad Abramo.
L’incapacità di tenere il passo con le più aggiornate tendenze della pittura coeva costrinse Romei, ormai settantenne, a ripiegare nuovamente su incarichi fuori Firenze. Nel 1782, su richiesta del vescovo di Fiesole Ranieri Mancini e in coppia con il quadraturista Luigi Lorenzi, firmò e datò il distrutto affresco nella cappella del Seminario fiesolano con l’Apparizione di s. Andrea Corsini alla battaglia di Anghiari (Moreni, 1791-1795; Bencistà, 2016); tale composizione – qui riconoscibile nello studio preparatorio presso il Museo Francesco Borgogna a Vercelli (Berardi, 1996) – riprendeva in controparte la tavola marmorea di ugual soggetto scolpita da Giovanni Battista Foggini fra il 1684 e il 1689 per la cappella Corsini al Carmine.
Dopo la realizzazione, fra il settembre del 1782 e l’aprile seguente, del ciclo di sei affreschi nella pieve di S. Maria Assunta a Bientina con Storie di s. Valentino – pesantemente ridipinti – Romei si spostò a Livorno, dove morì all’improvviso nel gennaio del 1785 (Cantagalli - Vincenti, 1993, pp. 88 ss. [2]). Dal silenzio delle fonti si deduce che il pittore non prese moglie né generò figli.
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