SCHIAVONE, Giuseppe
– Nacque il 19 dicembre 1838 a Sant’Agata (oggi Sant'Agata di Puglia), nella provincia di Capitanata, da Gennaro e Carmina Longo.
Primo di tre fratelli, crebbe in una famiglia di artigiani e contadini che viveva in un tipico nucleo di quei grandi borghi rurali che punteggiavano le campagne pugliesi e meridionali. Giovanissimo, fu arruolato nell’esercito del Regno delle Due Sicilie. L’armata borbonica murattiana o quella filocostituzionale del 1820 erano un ricordo. Ferdinando II fece dell’esercito uno dei pilastri del regime assolutista. Una parte importante dell’ufficialità, soprattutto soldati e sottoufficiali, incontrarono nell’esercito una possibilità di impiego e di ascesa sociale. I militari, reclutati tra i ceti meno abbienti del Regno, finirono spesso per trovarvi condizioni migliori rispetto al loro contesto di provenienza. La monarchia borbonica era il simbolo di queste opportunità e il riferimento di un patriottismo dinastico napoletano tradizionalmente radicato nella storia e nelle mentalità del Regno.
Schiavone era tra i militari che rappresentarono questa linea di fedeltà nella guerra del 1860, contro i garibaldini, i rivoluzionari meridionali e i sabaudi. A differenza della Marina, che passò quasi in blocco con gli unitari, una parte importante dell’esercito restò al fianco di Francesco II. Solo dopo la resa del 13 febbraio 1861, Schiavone, dissolto l’esercito, tornò al suo paese.
A Sant’Agata mantenne per qualche tempo un basso profilo, evitando di esporsi nelle crescenti lotte tra fazioni e gruppi locali. Nei primi mesi del 1861 fu tra le migliaia di ex militari borbonici che respinsero il richiamo nell’esercito o la semplice adesione al nuovo Stato italiano. Molti erano legati alle reti filoborboniche organizzate già nell’autunno del 1860. Nella primavera una vasta cospirazione clandestina legò questi comitati segreti al governo in esilio di Francesco II, a Roma. Nell'aprile 1861, poche settimane dopo la caduta di Gaeta, essi tentarono una prima insurrezione fra la Basilicata e l’Irpinia. Questo tentativo, rapidamente represso dagli unitari, fu prodromico all’insurrezione dell’estate.
I legittimisti cercarono di dare un colore politico all’antico brigantaggio meridionale, ma intercettarono anche un diffuso ribellismo sociale. La resistenza borbonica si trasformò nell’ultima tappa del conflitto che per oltre mezzo secolo aveva frammentato il Regno. I comitati arruolarono ex militari, vecchi banditi, contadini; rifornirono e pagarono i gruppi armati. Le bande presero forza grazie al sostegno di un blocco composto da un’ampia parte del clero, da un settore minoritario del notabilato provinciale e da ex funzionari, poliziotti, politici locali marginalizzati dalla rivoluzione e dal rapido impianto dello Stato unitario. Schiavone, come molti ex militari, passò dal rifiuto della leva alla lotta armata. Fece rapidamente il suo apprendistato come brigante guerrigliero in un conflitto fatto di di rapidi attacchi, rapine, omicidi, brevi occupazioni di paesi. Gli unitari meridionali diventarono il principale obiettivo delle azioni di questa guerrilla.
I briganti legittimisti furono sistematicamente sconfitti, ma non persero la speranza di un capovolgimento della situazione, alimentato dalla propaganda borbonica che promise sistematicamente un aiuto da parte delle potenze assolutiste. Nel mese di settembre partirono alcune piccole spedizioni che sognavano di rinnovare l’impresa del cardinale Fabrizio Ruffo del 1799. Nelle province si tentò per l’ultima volta una mobilitazione armata con l’obiettivo di raggiungere qualche risultato permanente. In quelle settimane comparve una banda autonomamente guidata da Schiavone. Egli fu protagonista di una serie di rapine, sequestri e furti, funzionali a mettere da parte bottino e, soprattutto, a recuperare cavalli, armi, materiali per organizzare un gruppo di una certa capacità tattica. Alla fine di ottobre, quando Carmine Crocco e lo spagnolo José Borjes tentarono l’offensiva in Basilicata, Schiavone aveva oramai una banda a cavallo, formata da diverse decine di uomini, capaci di raccordarsi con gli altri gruppi tra il Foggiano, la Lucania e l’Irpinia.
Schiavone partecipò alla campagna, che però fallì completamente, visto che non riuscì a creare aree controllate dai borbonici o una crepa nell’impalcatura dello Stato unitario. La decisa reazione italiana riuscì a sconfiggere controrivoluzionari e briganti senza molte difficoltà. Nell’inverno erano però emersi i leaders più capaci di guidare la miriade di bande che si diffusero in buona parte delle province meridionali. Nella primavera del 1862 queste iniziarono una lunga serie di attacchi e incursioni, sviluppando una poderosa attività criminale. Nel giro di qualche mese la guerra del brigantaggio diventò un conflitto civile asimmetrico, tra i briganti borbonici e i loro sostenitori locali, e il blocco unitario italiano con la sua decisiva componente meridionale. Questa frattura finì per coinvolgere anche gli Schiavone. Il fratello minore, Domenico, all’inizio del 1863, fu nominato guardia municipale dalla giunta unitaria di Sant’Agata. Non si trattava di una scelta particolarmente rischiosa, ma testimoniava comunque lo schieramento di una parte dei suoi familiari all’interno del mondo unitario o, almeno, la loro posizione non favorevole ai briganti.
Il ricorso al brigantaggio era l’unica possibilità, secondo gli uomini di Francesco II, per rafforzare una disperata ipotesi di cambiamento dell’equilibrio internazionale a vantaggio della parte borbonica. Schiavone emerse come uno dei leader più dotati militarmente. Per tutta la primavera e l’estate del 1862 partecipò a numerosi scontri con truppe italiane e civili della guardia nazionale meridionale. I risultati erano alterni, perché a volte i briganti riuscirono a colpire duramente gli unitari, ma in altrettanti casi furono sconfitti e, comunque, registrarono sempre perdite numerose. Schiavone diventò famoso fra le popolazioni civili. Partecipò a molte incursioni insieme a capi come Giovanni Coppa, Crocco e, soprattutto il temibile Michele Caruso. Alla fine dell’autunno del 1862, il primo anno del grande brigantaggio a cavallo si concluse con un risultato importante per Schiavone e i suoi alleati, che erano riusciti a superare il confronto con l’esercito italiano e la guardia nazionale.
Il brigantaggio per questi uomini era un mito e un'opportunità. Nel primo caso, perché da secoli nel Mezzogiorno il banditismo era vissuto come una avventura per chi voleva cambiare posizione sociale, una rivincita per i disperati, una occasione di bottino e arricchimento per chi riusciva a evitare il capestro (o a lucrarci sopra). Per molti giovani contadini si rinnovò questo mito, alimentato dalle forme di politicizzazione che la guerra, la rivoluzione e la controrivoluzione avevano intensificato. La banda di Schiavone ne fu testimonianza. Era formata da alcuni ex militari e soprattutto da molti giovani contadini e pastori, in buona parte poco più che ventenni. Tra coloro che si aggregarono non mancarono delle donne, alcune quali amanti del capobanda, come Filomena De Marco detta Filomena Pennacchio, una contadina irpina, decisa e astuta, che diventò un'icona dei nostalgici borbonici.
Schiavone fu tra i quadri del brigantaggio che cercarono di combinare la scelta politica e l’attività criminale. Cercò di dare una qualche organizzazione militare alla sua banda. Assegnò gradi e ruoli, soprattutto riuscì a costruire una articolata infrastruttura logistica. La banda aveva basi in Capitanata, Lucania, Irpinia e Beneventano, spesso condivise con altre formazioni. La rete di favoreggiatori era fondamentale per la sopravvivenza dei briganti. Familiari, contadini, amici, notabili borbonici offrivano a essi sostegno per simpatia politica, vantaggi personali, volontà di bottino, odio per gli avversari locali, o per un intreccio di simili motivazioni.
Le bande brigantesche meridionali svilupparono un ciclo operativo in cui le loro azioni furono marcate da un'intensa attività criminale, basata su sequestri, estorsioni, rapine e violenze di ogni tipo. Schiavone fu spesso protagonista di ricatti e rapimenti, ma non giunse mai alle sanguinarie ritorsioni e alle brutalità di capibanda come Coppa, Summa o Angeloantonio Masini. Anche gli ufficiali italiani e gli unitari meridionali gli riconobbero un comportamento più sereno e pronto anche a qualche atto di generosità, ma di certo Schiavone non rinunciò alle tipiche attività criminali dei briganti o alle ritorsioni contro civili filoitaliani o nemici del brigantaggio.
Nel 1863 fu protagonista di alcune delle più spettacolari incursioni del brigantaggio postunitario insieme a Michele Caruso. I due attraversarono più volte la Capitanata, l’Irpinia e il Beneventano, sconfiggendo reparti di regolari e guardie nazionali, e terrorizzando l’Appennino interno. Le forze locali erano disorientate, Benevento assediata dai briganti. Alla fine dell’estate iniziò la controinsurrezione italiana. Buona parte delle province furono messe in stato di assedio per effetto della legge Pica. Caruso fu braccato, catturato e poi fatto fucilare dal nuovo alto ufficiale italiano sul campo, il generale Emilio Pallavicini di Priola. Nel 1864 il quadro strategico fu ribaltato, le bande lucane e pugliesi logorate e sconfitte una dopo l’altra. Ad agosto il principale leader brigantesco, Crocco, decise di cedere e fuggì nello Stato pontificio.
Schiavone, insieme ad Agostino Sacchetiello, era il capobanda più capace ancora in circolazione. Pallavicini li inseguì ovunque. Nell’autunno del 1864 erano ridotti a pochi uomini, mentre le linee di sostegno erano sottoposte alle infiltrazioni dei nemici locali e degli uomini del generale. Schiavone, come molti sodali, fu vittima del tradimento e, nel suo caso, addirittura delle proprie tresche amorose. Una delle sue amanti, Rosa Candela, incontrò Pallavicini, che gli diede un lasciapassare per incontrare Schiavone e convincerlo ad arrendersi o, peggio, per offrire indicazioni funzionali a catturarlo. Alla fine di novembre il capobanda fu individuato e fatto prigioniero da un reparto d’assalto italiano. L’altra sua amante storica, Pennacchio, seguì la rivale e confessò i nomi dei più autorevoli sostenitori di Schiavone, professionisti, proprietari di Bisaccia, Calitri, Candela, Andretta, Monteverde, spesso inseriti anche nelle istituzioni unitarie, e provocò anche l’arresto di Sacchetiello.
Schiavone fu portato a Melfi con pochi gregari. Furono processati dal tribunale militare e condannati a morte. Prima dell'esecuzione volle rivedere Pennacchio dalla quale aspettava un figlio. Con i suoi uomini posò per il fotografo inviato da Pallavicini. Quelle immagini diventarono poi tra le più celebri della guerra del brigantaggio.
Morì fucilato a Melfi il 28 novembre 1864.
Fonti e Bibl.: Su Schiavone sono disponibili alcuni studi locali: D. Donofrio Del Vecchio, Lo Sparviero: G. S., capobrigante santagatese, Foggia 2008; Ead., Unità d'Italia, brigantaggio, repressione nel Subappennino Dauno: il capobrigante santagatese G. S., in Vicum, XXVI (2009), 1-2, pp. 65-83; G. Osvaldo Lucera, G. S. brigante post unitario, Villa Castelli (Brindisi) 2010. Inoltre: M. Monnier, Notizie storiche documentarie sul brigantaggio nelle province napoletane dai tempi di fra Diavolo sino ai nostri giorni aggiuntovi l'intero Giornale di Borges finora inedito, Firenze 1862, passim; B. Del Zio, Melfi. Le agitazioni del Melfese. Il brigantaggio, Melfi 1905, ad ind.; C. Cesari, Il brigantaggio e l’opera dell’esercito italiano dal 1860 al 1870, Roma 1920, ad ind.; F.S. Nitti, Eroi e briganti, Roma-Milano 1946, nuova ed. Venosa 2000, ad ind.; F. Molfese, Storia del brigantaggio dopo l’Unità, Milano 1964, ad ind.; T. Pedio, Brigantaggio meridionale (1806-1863), Lecce 1967, ad ind.; A. Albonico, La mobilitazione legittimista contro il Regno d’Italia: la Spagna e il brigantaggio meridionale postunitario, Milano 1979, ad ind.; S. Lupo, L’unificazione italiana. Mezzogiorno, rivoluzione, guerra civile, Roma 2011, ad ind.; C. Pinto, La dottrina Pallavicini. Controinsurrezione e repressione nella guerra del brigantaggio (1863-1874), in Archivio storico per le province napoletane, n. s., 2014, vol. 122, pp. 69-98; Id., La campagna per la popolazione. Vittime civili e mobilitazione politica nella guerra al brigantaggio, in Rivista storica italiana, CXXVII (2015), 3, pp. 808-852.