Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Giuseppe Terragni ha avuto una carriera breve e intensa. Autore di alcuni tra gli edifici più rilevanti del Novecento italiano, come la Casa del fascio a Como, edificio simbolo del regime fascista, regime che Terragni ha appoggiato fino alla sua prematura scomparsa nel 1943. Il complesso e a volte contraddittorio rapporto tra architettura e politica è stato il fulcro della sua ricerca artistica, svolta in stretto contatto con gli intellettuali più aperti del ventennio fascista.
Tra i massimi architetti del Novecento italiano, Giuseppe Terragni ha conosciuto nel corso della sua breve vita un’intensa carriera trascorsa interamente sotto il fascismo.
Nato a Meda, in provincia di Milano, compirà 18 anni nell’anno della marcia su Roma e della presa del potere di Benito Mussolini (1922), per poi morire pochi giorni prima del suo rovesciamento, il 25 luglio 1943. La tragicità della sua figura, l’intransigenza morale verso la necessità dell’introduzione dell’architettura moderna in Italia, la sua convinta adesione al partito fascista sommate alle numerose quanto differenziate interpretazioni postume a cui ha dato luogo fanno di Terragni un architetto singolarmente complesso.
Tutta la sua opera costruita è concentrata tra Como, la sua città, e Milano dove si laurea presso il Politecnico nel 1926, in un clima accademico piuttosto tradizionalista dominato da docenti come Gaetano Moretti (1860-1938) e Piero Portaluppi. Terragni è fra i neolaureati o laureandi che danno vita al Gruppo 7, che allarga il dibattito architettonico italiano allora piuttosto provinciale: ne fanno parte Luigi Figini, Gino Pollini, Carlo Enrico Rava, Sebastiano Larco, Guido Frette e Umberto Castagnoli. “È nato uno spirito nuovo”: comincia così il loro primo articolo con un chiaro riferimento a Le Corbusier e al suo Esprit Nouveau, segno che i giovani architetti (e Rava specialmente) sono perfettamente al corrente di ciò che sta accadendo in Europa. L’Italia, secondo il Gruppo 7, dovrebbe dettare questo spirito alle altre nazioni, spirito che esprime una nuova necessità di chiarezza e di ordine. Fra il passato e il presente non ci sarebbe incompatibilità e dunque non bisogna rompere con la tradizione, ma al contrario perseguire una continuità nella trasformazione. Roma antica, viene notato, ha prodotto pochi tipi edilizi fondamentali – il tempio, la basilica, le terme. Roma, insomma, “costruiva in serie” e questo è l’esempio su cui basarsi per individuare le nuove esigenze contemporanee e la conseguente nuova estetica. Per fare tutto questo è necessario che l’architetto rinunci alla propria individualità e lavori in gruppo in una selezione continua dei nuovi tipi della modernità. Tutti gli altri articoli del Gruppo 7 ruotano intorno a questi concetti che negli anni Trenta troveranno attuazione grazie al fascismo: case del fascio, uffici postali, case del dopolavoro, case del balilla saranno realizzate ovunque, spesso da gruppi di progettazione molto allargati. Ma ciò che salta agli occhi negli intenti del Gruppo 7, “avanguardia da salotto” come la chiama il critico Edoardo Persico, è la corrispondenza con la definizione teorica del fascismo scritta da Mussolini in persona per l’Enciclopedia Treccani nel 1932: “L’uomo del fascismo è individuo che è nazione e patria, legge morale che stringe insieme individui e generazioni in una tradizione e in una missione, che sopprime l’istinto della vita chiusa nel breve giro del piacere per instaurare nel dovere una vita superiore libera da limiti di tempo e di spazio: una vita in cui l’individuo, attraverso l’abnegazione di sé, il sacrifizio dei suoi interessi particolari, la stessa morte, realizza quell’esistenza tutta spirituale in cui è il suo valore di uomo”. Giuseppe Terragni vede coincidere lo “spirito nuovo” dell’architettura moderna e l’“esistenza spirituale” fascista, sorretto da una fede intellettuale e politica così forte che Alberto Sartoris, uno dei suoi amici più cari, non esiterà a definirlo un “mistico dell’azione”. Il fascismo però, come ha notato Palmiro Togliatti, è stato un movimento ideologicamente eclettico, composto di più anime e quindi in grado di adattarsi a ogni frangente storico; tale natura eclettica avrà delle ripercussioni sullo stesso operato di Terragni, inducendolo a più di una contraddizione. Un esempio emblematico è quello di Mario Sironi, forse il pittore più in vista del ventennio: partecipa più volte a gruppi di progettazione sia con Terragni (concorso per il Palazzo del Littorio a Roma, 1934) sia con l’odiato rivale, classicista e conservatore, Marcello Piacentini, autore fra l’altro del palazzo di Giustizia di Milano (1938). Così come Terragni anche Adalberto Libera, che sostituirà Castagnoli nel Gruppo 7 e tra i migliori architetti del secolo, si sentirà protagonista nel fascismo: entrambi ne sposeranno la causa cercando un nuovo ordine di linguaggio, parallelo al nuovo ordine politico rivoluzionario.
I primi progetti di Terragni sono piuttosto eterogenei e tradiscono un’indecisione formale; per ciascun progetto Terragni sembra scegliere un atteggiamento compositivo specifico. Per esempio, nella ristrutturazione dell’albergo Metropole-Suisse a Como (1926-1927), si accorda al contesto dell’edificio esistente utilizzando nella decorazione della facciata al piano terra gli stessi elementi – vasi, candelabri, pigne – tipici del neoclassicismo milanese di Giovanni Muzio , Giuseppe Alpago Novello, Portaluppi, ovvero proprio gli architetti criticati dal Gruppo 7 come superati e insinceri. Nel monumento ai caduti a Erba Incino (1926-1932) e nelle edicole funerarie Stecchini e Pirovano (entrambe del 1930-1931) a Como riecheggia un plasticismo rinascimentale addirittura con una citazione diretta di Michelangelo, amatissimo da Terragni studente – si veda il frontone spezzato della tomba Stecchini. Viceversa per gli edifici industriali, quelli che dovevano rispondere direttamente ai proclami del Gruppo 7, Terragni opta per una brutale razionalità della forma, che assume un tono vagamente aggressivo, sicuramente polemico: il progetto teorico per una fonderia di tubi e quello per un’officina per la produzione del gas a Como (entrambi non realizzati e del 1927) appartengono a questo insieme e fanno molto parlare di sé alla Triennale di Monza e alla prima Esposizione italiana di architettura razionale del 1928. Il progetto che lo renderà noto a tutti è però il complesso di appartamenti Novocomum a Como (1927-1929) grazie anche alla beffa con cui Terragni aggirerà i problemi della commissione d’ornato, presentando, in Comune, un progetto camuffato con timpani e lesene. L’edificio suscita un grande clamore soprattutto per la soluzione angolare costituita da un grande cilindro vetrato impostato sotto un angolo retto a sbalzo; si tratta di un edificio di completamento del blocco edilizio retrostante e dunque già predeterminato planimetricamente con un grande corridoio centrale che attraversa l’intero condominio in lunghezza. Il Novocomum insieme con gli uffici Gualino a Torino (1928-1929) di Gino Levi Montalcini (1902-1974) e Giuseppe Pagano, che apprezzerà molto l’edificio del collega, viene unanimemente considerato il primo edificio razionalista in Italia; Terragni ha 24 anni. In pochi anni le vicende del razionalismo italiano si susseguono vorticosamente anche grazie ai numerosi concorsi pubblici, alla costituzione di gruppi e movimenti quali il Movimento Italiano per l’Architettura Razionale (MIAR), alle continue mostre come le Biennali di Venezia, le Triennali di Monza e Milano, le Quadriennali di Roma, la Mostra della rivoluzione fascista (1932) in cui Terragni allestisce la sala O con un grande fotomontaggio di centinaia di mani tese mosse dalle gigantesche turbine della rivoluzione, in cui alcuni vedranno un’eredità futurista e altri costruttivista – Persico invece parlerà di “terremotata fantasia”. Terragni, ancora giovanissimo, continua la sua formazione aprendosi alle esperienze straniere: visita il Weissenhof a Stoccarda (1927), partecipa al IV Congresso di Architettura Moderna (CIAM) del 1933 che si svolge su una nave in viaggio da Marsiglia ad Atene, conosce di persona Le Corbusier, mentre l’anno successivo apre a Milano la galleria del Milione attorno alla quale si raccolgono critici come Carlo Belli, pittori astrattisti – Lucio Fontana, Luigi Veronesi, Osvaldo Licini – e architetti razionalisti. In un simile contesto Terragni si distingue ancora per una contraddizione: a Como condivide il proprio studio con due astrattisti, i pittori Manlio Rho e Mario Radice, e insieme frequentano la galleria del Milione il cui credo pone l’arte “al servizio di se stessa”; ma se deve collaborare con un pittore per un progetto si rivolge a Sironi, esponente di spicco del Novecento di Margherita Sarfatti, movimento figurativo di continuità con la tradizione italiana a cui Terragni stesso aveva aderito da pittore alla fine degli anni Venti. Tra il 1932 e il 1936 si apre una fase molto favorevole all’architettura moderna in Italia perché il fascismo è l’unico regime totalitario che si presenta tramite un linguaggio moderno, al contrario sia del nazismo – basti pensare all’immediata chiusura del Bauhaus nel 1933 – sia del comunismo staliniano, ma anche dei paesi democratici: negli anni Trenta dovunque il classicismo sembra prevalere. In Italia, pur tra mille polemiche, si realizzano invece, in questi anni, opere pubbliche dal linguaggio schiettamente moderno come la stazione di Firenze (1932-1935) di Giovanni Michelucci e altri; gli uffici postali a Roma di Adalberto Libera (1933) e di Mario Ridolfi, l’Accademia della scherma (1936) di Luigi Moretti (1907-1973) sempre a Roma, solo per fare solo alcuni esempi. Sono soprattutto però gli anni della Casa del fascio di Como (1932-1936) per la quale, sottolineando il proprio idealismo, Terragni rinuncerà a ogni compenso. Grazie all’aiuto decisivo del fratello ingegnere Attilio, esponente del partito nazionale fascista comasco e poi podestà cittadino, Giuseppe Terragni progetta un candido volume compatto che solo apparentemente può sembrare chiuso in se stesso, come erroneamente ha scritto Manfredo Tafuri). Non solo l’edificio è bucato da numerosissime aperture vetrate e no, ma anche tutti i disegni si sforzano di sottolineare la permeabilità visiva perché, come aveva dichiarato Mussolini “il fascismo è una casa di vetro” e il lavoro, al suo interno, va mostrato senza infingimenti. Inoltre l’orientamento dell’edificio secondo la griglia individuata dal cardo e dal decumano romani indica che la casa del fascio vuol essere la prima pietra della nuova città fascista, sì, ma in continuità con l’antica Roma. Pagano, il cui unico interesse è il valore estetico e morale della funzionalità, dalle pagine di “Casabella” attacca duramente la Casa del fascio di “secentismo razionalista”, di aver abbandonato la semplicità e il basso profilo artistico che a suo giudizio l’architettura moderna doveva avere per convincere della propria necessaria diffusione. Secondo Giorgio Ciucci “la razionalità invocata da Terragni è una razionalità di rapporti aurei, di ordini invisibili, di relazioni che vanno al di là del fisico e che si possono solo intuire” e ciò vale anche per alcuni straordinari progetti non realizzati come quelli per il palazzo del Littorio (1934) e soprattutto per quello del Danteum (1938) in cui forte è il peso della collaborazione con altro architetto comasco, Pietro Lingeri (1894-1968). Nel 1936 alla Casa del fascio verrà dedicato l’ultimo numero di “Quadrante”, la rivista che raccoglie i razionalisti milanesi e comaschi più intransigenti e diretta da Pier Maria Bardi (1900-) e Massimo Bontempelli – il letterato teorico del realismo magico – in opposizione sia al tradizionalismo di Piacentini sia alla “Casabella” di Persico e Pagano. Il 1936 è l’anno più felice per la produzione di Terragni perché ha modo di realizzare l’arioso e articolato Asilo d’infanzia Sant’Elia (1936-1937) a Como che inaugura una serie di progetti – quella delle ville sul lago – in cui diventano più espliciti i riferimenti all’architettura del movimento moderno. Il 1936 è però anche l’anno della proclamazione dell’impero e la definitiva sconfitta dell’architettura moderna in Italia, dal momento che d’ora in poi l’esigenza primaria del regime sarà uno stile che ubbidisca a criteri di grandiosità e monumentalità, ovvero lo stile E42. Quasi nessuno invece si accorgerà dell’ultimo, per un verso enigmatico, edificio realizzato da Terragni, la casa di abitazione Giuliani Frigerio (1939-1940), difficilmente assimilabile a ogni altro progetto coevo di architettura europea, tanto da sembrare, oggi, una palazzina degli anni Cinquanta. La Giuliani Frigerio, poco distante dalla sua prima opera, il Novocomum, appartiene all’ultima stagione progettuale di Terragni quando progetterà non più per sommatoria o sottrazione di volumi, ma per spazi compenetrati. Da molti schizzi è chiaro come egli progettasse direttamente in sezione e il risultato è un edificio completamente chiuso in se stesso e nella sua solitaria complessità formale. La carriera di Terragni viene però bruscamente interrotta dalla chiamata alle armi nel 1939, quando la Giuliani Frigerio non è ancora ultimata. Nel 1941 parteciperà alla disastrosa campagna italiana in Russia: tornerà a Como minato psichicamente, svuotato: a chiunque incontrasse chiedeva scusa senza ragione. Muore appena trentanovenne. Nel dopoguerra si rimuoveranno a lungo i significati politici che lo stesso Terragni aveva voluto attribuire alla propria opera. Da un lato Bruno Zevi (1918-2000) che addirittura arruolerà Terragni tra gli antifascisti giudicando la sua architettura “intrinsecamente” democratica, dall’altro Peter Eisenman che con le sue analisi sintattiche tenderà ad astrarre completamente Terragni dal suo contesto, favorendone certo, così, una rinnovata fortuna internazionale. Più recentemente storici come Giorgio Ciucci e Thomas Schumacher hanno invece restituito Giuseppe Terragni alla sua giusta dimensione storica: quella di un architetto che ha voluto essere parte di un movimento politico e nel contempo lottare per un congruente movimento architettonico, e incarnare una concezione austera della vita assai affine a quella “serietà religiosa” delineata da Giovanni Gentile nel Manifesto degli intellettuali del Fascismo del 1925.