VALADIER, Giuseppe
– Nacque il 14 aprile 1762 a Roma da Luigi, maestro argentiere, fonditore, disegnatore, restauratore e forse anche scultore, e da Caterina della Valle, romana e figlia dello scultore fiorentino Filippo. Fu battezzato nella chiesa parrocchiale di S. Luigi dei Francesi con lo stesso nome di un fratellino che l’aveva preceduto e si era spento a quattro anni nel 1761.
Studiò prima lettere, poi scienze, avendo come «maestro di matematiche» Girolamo Toma (Marconi, 1963, p. 78). Nel 1773, ancora bambino, esordì con i disegni della Cappella Cybo in S. Maria del Popolo e nel 1775 ottenne il primo premio di seconda classe di architettura con medaglia d’oro al Concorso Clementino dell’Accademia di S. Luca per un progetto della facciata di S. Salvatore in Lauro (Debenedetti, 2007, pp. 477 s.). Nel 1777 vinse il Concorso Balestra per l’architettura, ma continuò a collaborare con il padre, come mostra una serie di deser e di orologi (González Palacios, 2018, pp. 241 s. e fig. 5, p. 246). Nel 1779 Pio VI, dopo aver visitato la fonderia Valadier, lo nominò cavaliere e conte.
Nel 1781 divenne architetto dei Sacri Palazzi apostolici, e Luigi (era ormai morta sua moglie) lo fece viaggiare a Firenze, Modena, Milano, Marsiglia, accompagnato da Luca Gottard, senza giungere fino a Parigi, com’era invece avvenuto per lui nel 1754. Tornato a Roma (la famiglia si era dal 1762 trasferita da piazza di S. Luigi dei Francesi in via del Babuino n. 89, dove era l’ingresso al teatro d’Alibert), Luigi, desiderando che il figlio continuasse a occuparsi della fonderia, non solo lo mise a capo degli artefici d’ogni sorta lì impegnati, ma lo sottopose contemporaneamente a un serio tirocinio architettonico, affinché fosse in grado di esercitare con profonda competenza la propria professione. In qualità di architetto ebbe infatti quasi subito onorevoli incarichi, come, dal 1785 al 1792, la trasformazione interna del duomo di Spoleto, per cui lasciò otto altari nelle navi laterali, due nelle testate del transetto, l’altare maggiore e i quattro nicchioni agli estremi delle navate minori (Debenedetti, 2017, pp. 75-78). Sempre a Spoleto costruì la chiesetta di S. Ponziano e, nella frazione di Terraja, la villa di Alessandro Pianciani con annessa chiesetta. Durante il soggiorno spoletino fu chiamato a Gubbio dal vescovo della città, monsignor Ottavio Angelelli, per la progettazione di una chiesetta presso il casino di costui e del ‘Refuggio Pio’; e, sulla strada che collega la cittadina a Foligno, edificò la villetta ‘Ballerina’ (Debenedetti, 1985, p. 355).
Nel 1786, dopo la tragica morte del padre avvenuta l’anno prima, divenne, con l’appoggio di Pio VI, architetto camerale e aggiunto, nel 1790 coadiutore, nel 1794 revisore e nel 1795 sovrastante della Fabbrica di S. Pietro. La prima cosa di cui si occupò con successo, proseguendo nell’industria paterna, fu quella di completare la fusione del campanone di S. Pietro disegnato da Luigi nel 1775-81 e di trasportarlo, nel 1786, dalla fonderia alla chiesa, collocandolo in un primo tempo nella cupoletta di S. Gregorio. Costruì inoltre quattro orologi esterni e interni alla basilica sistemandone l’armatura (Ciampi, 1870, p. 12; Debenedetti, 2007, p. 480).
Il ruolo di architetto camerale comportò, in occasione del terremoto nella Romagna, la nomina a deputato della Verificazione dei danni nella patria dei Braschi, dove compì, nel mese di novembre del 1786, perizie e verifiche nella cattedrale di Rimini; nel 1787 edificò le nuove carceri del forte di S. Leo, sistemando quella fortezza, e costruì la facciata del riminese palazzo Valloni, ora alterata.
Nel 1788 disegnò la muta di candelieri con angelo e l’ostensorio della cattedrale di Subiaco. Nel 1789 i sontuosi tavoli della Biblioteca Vaticana, sala Sistina, realizzati nel 1790, i cui modelli in bronzo spetterebbero a Vincenzo Pacetti e la fusione alla bottega valadieriana con l’aiuto di Giuseppe Paolo Spagna, e per i quali sono pervenuti due disegni, ora presso la Biblioteca Vaticana, dello zio di Valadier, Cristoforo Unterperger, marito della sorella della madre (Debenedetti, 2004, pp. 95-97 e figg. 8-9; González Palacios, 2019, pp. 181-187 e figg. X 3 e X 4). Nello stesso anno elevò quasi di pianta la Metropolitana di Urbino (la cui facciata, disegnata da Camillo Morigia, fu da lui terminata nel 1800, in sintonia con gli orientamenti miliziani che auspicavano una nuova fioritura dell’architettura razionale basata su ‘semplicità’e ‘sodezza’) e, sempre nella città marchigiana, intervenne nell’oratorio della Confraternita della Morte, tuttora esistente, e che conserva all’interno la grande tela di Federico Barocci la Crocifissione di Cristo (1604). È a questo periodo che risalgono i progetti della pianta del piano terreno, che ruota intorno al cortile circolare, e della facciata di palazzo Braschi in Pasquino, già Orsini e Santobuono; qui eseguì anche l’addobbo di due saloni e più tardi la cappella (Pietrangeli, 1958). Innalzò inoltre per Pio VI l’arco di trionfo in occasione del giubileo quindicennale.
Il 14 febbraio 1790 sposò Laura Campana, figlia del marchese Giovanni Pietro, dalla quale ebbe sette figli, cinque dei quali sopravissuti: Luigi Maria, Giovanni Pietro, Antonio, Caterina, Marianna. Nello stesso anno edificò a Corridonia, dove sarebbe tornato in seguito, la Porta Romana e il palazzetto Tomassini Bartolazzi, quest’ultimo rimaneggiato tre anni più tardi da Antonio Mollari (Debenedetti, 2014a, p. 243).
Sempre nel ruolo di architetto camerale, cui spettavano incarichi pubblici soprattutto in relazione alle iniziative e ai paesi più cari al papa, rientrò l’impresa valadieriana della bonifica delle paludi Pontine: in quest’ambito, tra le realizzazioni, si contavano alcuni casali, come quello di Nemi, ponti, abitazioni, stazioni di posta, depositi e una casa d’azienda con magazzini a San Mauro presso Cesena per il duca Luigi Braschi; altre aziende per il medesimo duca furono erette in località Mezzofiume e nel 1795 al Foro Appio lungo la ‘linea Pia’, sulla fettuccia di Terracina, all’incrocio con l’Appia (Debenedetti, 1979, p. 114, fig. 76). Tra il 1794 e il 1796, in occasione dell’ampliamento della collegiata dei Ss. Pietro, Paolo e Donato a Mont’Olmo (Corridonia), Valadier ideò il nuovo prospetto (che si attiene alle indicazioni di Morigia per la Metropolitana di Urbino), la sacrestia, il coro d’inverno e da ultimo il campanile isolato, eretto dalle fondamenta, e vi ricostruì l’ospedale di S. Salvatore. Agli stessi anni risalgono la chiesa e il convento dei domenicani presso Terracina (Debenedetti, 2008, p. 9).
Data al 1795 e al 1798 il disegno di un servizio da tavola per monsignor Antonio Maria Odescalchi, arcivescovo titolare di Iconio.
Fra il 1796 e il 1806 si pone la sua attività a Orvieto, accanto a Vincenzo Pacetti. S’era infatti reso necessario il restauro del duomo, per via di una tempesta occorsa nella notte del 10 dicembre 1795: a Valadier fu commissionato il risarcimento di cinque statue in facciata e dell’Agnello mistico al centro; e inoltre dell’antico fonte battesimale all’interno, che egli affidò alla cura di scalpellini e allustratori, sotto la sua stessa direzione (Debenedetti, 2017, pp. 78-80).
Nel 1797, a causa del pericolo in cui versava il teatro d’Alibert, intervenne rifacendo in muratura il passaggio di legno che vi arrivava dalla casa limitrofa, dove abitava (Debenedetti, 2008, p. 9).
Nello stesso anno fu incaricato da Pio VI della consegna, dell’imballaggio e del trasporto degli oggetti d’antichità da cedere alla Repubblica francese in seguito al Trattato di Tolentino. Ricopriva allora le cariche di ‘virtuoso’ della Rotonda e direttore della Stamperia camerale; era inoltre socio di varie accademie, anche a S. Luca, dove venne nominato professore di architettura pratica nel 1821, materia nella quale dettò e firmò un programma per gli allievi delle scuole accademiche nel 1823. Nel 1799 pose la prima pietra della collegiata di Monsampietrangeli, i cui lavori furono portati definitivamente a termine solo più tardi. Il progetto si legava a quello contemporaneo e non eseguito del duomo di Trevi, in Umbria, anch’esso caratterizzato dalla tendenza a ‘piramidare’ la forma, già presente nella «pubblica specola» della Raccolta di diverse invenzioni di n. 24 fabbriche (Roma s.d., ma 1796). Rinnovò inoltre in questi anni, con suppellettili di sua mano, la cappella del Divino Aiuto nella chiesa romana di Gesù e Maria al Corso, e in questo stesso luogo eseguì anche la cappella del conte Giuseppe Cini.
Risale al 1801 il progetto, custodito presso l’Accademia nazionale di S. Luca e non eseguito, di una colonna da erigersi in onore della SS. Concezione dal popolo di Tivoli. Eseguì nel 1802, su commissione di María Manuela Pignatelli y Gonzaga, duchessa di Villahermosa, il reliquiario della Sacra Culla in S. Maria Maggiore, ancora conservato, e diviso in due parti, nella confessione sotto l’altare maggiore; e, sempre per la medesima committente, un anno dopo, quello della S. Croce (in S. Croce in Gerusalemme), completato solo nel 1810. A essi si potrebbe aggiungere il contemporaneo prezioso reliquiario a forma di tempietto ordinatogli da Pio VII, tuttora esistente presso i discendenti di questo pontefice e destinato a reliquie non meglio precisate, delle cui trattative si occupò il cardinale Ercole Consalvi (González-Palacios, 2015, p. 36 e fig. a p. 37).
Dal 1800 al 1807 progettò per il principe Stanislao Poniatowski, fuori Porta del Popolo, due case con ricche decorazioni, varie fontane, fra cui un «gallinaccio […] tutto dipinto con bambocciate e fiori» (Busiri Vici, 1971, p. 263), e giardini: la prima nell’attuale via di Villa Giulia con all’interno una sala per ospitare una copia dell’Ercole farnesiano e altri ornamenti antichi di proprietà del committente, la seconda sulla via Flaminia; e inoltre un palazzetto a via Vittoria, che ora non esiste più. Nel 1805 fuse i due grandi reliquiari in argento dei ss. Pietro e Paolo in S. Giovanni in Laterano, custoditi nell’edicola superiore del ciborio sopra l’altare maggiore.
Quasi contemporaneamente, dal 1804 al 1805, rinnovò e ampliò il casino della villa Torlonia fuori Porta Pia, al cui interno allestì il salone da ballo e l’attigua galleria decorata da colonne e con soffitto architravato, ma il suo lavoro fu più tardi rimaneggiato da Giovanni Battista Caretti. Gli si devono inoltre due fontane, da ambo le parti del casino, la casa dei famigli e le scuderie. Per la stessa committenza Torlonia si contano ancora molte riduzioni e decorazioni nel palazzo poi demolito di piazza Venezia, e la facciata della chiesa di S. Pantaleo (denotante un grado stilistico molto avanzato rispetto a quanto si faceva contemporaneamente in Europa), dove inoltre completò l’altare maggiore.
Risalgono al 1806 la ricostruzione della torre medievale di ponte Milvio e la successiva sistemazione urbanistica della strada verso Porta Angelica e del piazzale alberato antistante al ponte stesso: di qui doveva infatti dipartirsi una passeggiata lungo il Tevere fino alla Porta del Popolo che in un primo tempo si sarebbe chiamata Nuovo Campo Marzio (1807), nome poi trasformato in quello di Villa Napoleone. Tale passeggiata, che, in corrispondenza dell’ansa del fiume, prevedeva una serie di piazzole e viali intrecciati, fu vagliata dalla Consulta straordinaria degli Stati Romani nel 1809, ma non venne poi realizzata, perché Napoleone abbandonò il progetto per capriccio e impazienza.
Si situano tra il 1806 e il 1808, sempre per Roma, le chiese valadieriane di S. Giuliano in Banchi e degli Agonizzanti a Pasquino, la prima non più esistente.
A Rieti, divenuto architetto del Comune a partire dal 1802, Valadier restaurò il duomo nella volta della navata centrale, elevando le lesene ioniche con ghirlande che sostengono la pesante trabeazione dentellata, nel transetto e nell’altare maggiore (con il ciborio), ma vi progettò soprattutto la cappella Vincenti Mareri. Per tale famiglia ricostruì non solo la chiesa e casa parrocchiale di Casaprota nei pressi di Rieti, ma anche un palazzetto nell’attuale via Garibaldi. Sempre a Rieti sistemò poi all’interno la dimora di Benedetto Cappelletti, edificando due case più piccole, una delle quali non esiste più. Ridusse inoltre il fabbricato della Dogana e il ponte sul fiume Velino a uso di quartiere dei soldati, erigendo le nuove carceri e il palazzo pubblico.
A Roma, l’intervento in villa Lante al Gianicolo, al fianco di Antonio Canova, iniziò nel 1807 e durò circa dieci anni, interessando i risarcimenti della loggia, il salone con la sistemazione dei rilievi dello scultore, le sale al pianterreno, il casino della caccia, il rinnovo della cosiddetta stufetta con pitture di Giulio Romano, di cui non resta nulla, e una coffee house (Debenedetti, 1985, pp. 354 s.). Contemporaneo fu il restauro della chiesa di S. Nicola in Carcere, edificata su preesistenze antiche di epoca repubblicana, dove gli furono commissionati la cappella di S. Nicola, a sinistra entrando, e due anni dopo l’altare maggiore, poi restaurato da Pio IX alla fine degli anni Cinquanta del secolo.
Il primo interesse di Valadier per i teatri si concretizzò quando, nel dicembre 1808, con Filippo Mochi restaurò il teatro Tordinona o Apollo, dove fu richiamato l’anno successivo da Joseph-Marie de Gérando, uno dei membri della Consulta di Roma.
Durante il periodo napoleonico, e precisamente nel 1809, Valadier venne incaricato da Guy de Gisors, ispettore generale del Conseil des bâtiments civils, di liberare dai detriti il foro Traiano e il foro Romano. I lavori, che rientravano negli interventi previsti dal piano d’impiego dei poveri per pubblica beneficenza, terminarono nel 1811 e riguardarono soprattutto il restauro del tempio di Antonio e Faustina, non trascurando tuttavia, sempre sotto la sua direzione, lo sgombero e il restauro del Tabulario, dell’arco di Settimio Severo, del tempio della Concordia, di quello di Giove Statore, della colonna di Foca, della Domus Aurea, del tempio di Vesta, di S. Maria Antiqua e del Colosseo, dove, con Giuseppe Camporese, rinforzò alcune arcate pericolanti, attraverso l’inserimento, effettuato in due riprese, di cancellate che servivano anche a proteggere le opere che si effettuavano contemporaneamente all’interno e alle quali Valadier stesso partecipava (Debenedetti, 2019c, pp. 19-29).
Nel giugno del 1810 progettò una pubblica passeggiata che sarebbe dovuta sorgere sulla riva sinistra del Tevere, dal porto di Ripetta fino alla piazza del ponte S. Angelo. In seguito (marzo 1813) ideò il relativo allargamento dell’alveo del fiume per renderne possibile la navigabilità, in modo da creare un percorso fluviale e stradale che collegasse il giardino del Gran Cesare (il Pincio), il giardino del Campidoglio, l’accesso monumentale a S. Pietro e il porto di Ripagrande alla Lungara, da cui doveva dipartirsi una strada rettilinea dentro Trastevere (Debenedetti, 2008, p. 13).
Una delle occupazioni che tennero maggiormente impegnato Valadier in questo periodo fu la costruzione di mercati e mattatoi (come quello nelle vicinanze del Tevere), previsti in seguito a decreto napoleonico del 27 luglio 1811: fra i mercati si possono annoverare quelli delle Erbe presso piazza Monte d’Oro, di piazza Navona, del Pantheon (lungo via della Palombella, con isolamento del Pantheon, ampliamento della piazza e demolizione nel 1813 di un’isola di case estesa fino alla Maddalena), di piazza di Trevi (per la quale propose una forma quadrata più ampia della fontana e profonda fino a via dell’Umiltà, che la Commissione per gli abbellimenti convertì in un piano più limitato); e inoltre di piazza S. Marco, piazza Madonna dei Monti, piazza delle Cinque Scole, piazza S. Eustachio, con semplici capannoni a tettoia articolati su piante rettangolari, e nella zona del monastero di S. Ambrogio, un po’ diverso dagli altri nella forma a semicerchio con fontane.
Sempre nel 1811 Scipione Perosini ideò un progetto di palazzo imperiale che avrebbe dovuto accogliere a Roma il nuovo Cesare: esso prevedeva un vasto complesso che sarebbe dovuto sorgere sull’area che da piazza Venezia si estendeva fino a piazza del Gesù, opportunamente regolarizzata sino al Colosseo, comportando la demolizione del Campidoglio e di buona parte del foro Romano. Vari disegni di Valadier si riferiscono a questo progetto, tra cui quello dell’abbattimento di una parte di palazzo Venezia per ingrandire la piazza, dove gli fu ordinata la costruzione di un teatro. L’intero piano venne poi scartato perché troppo dispendioso, e ci si occupò esclusivamente del palazzo del Quirinale, che era stato affidato all’architetto Raffaele Stern fin dal febbraio del 1811 (Debenedetti, 2008, p. 13). Nello stesso anno iniziarono i restauri del palazzo di S. Giovanni in Laterano, ai quali ancora Valadier lavorava nel 1814, dopo aver stilato, molti anni prima, alcuni progetti per la facciata della basilica (Debenedetti, 2007, p. 478).
Nel luglio del 1812 Valadier disegnò le piante dei borghi Vecchio e Nuovo, provviste del relativo indice delle case da demolire per rendere spaziosa la veduta della basilica Vaticana, ma restò irrealizzata la successiva proposta delle due colonne coclidi per ornare l’ingresso di piazza S. Pietro.
Gli scavi ai templi di Vesta, della Fortuna virile e dell’arco di Giano nel 1811 erano terminati ed erano stati nel frattempo iniziati quelli intorno alla basilica di S. Maria in Cosmedin, rielaborata nel Settecento, poiché si era deciso di provvedere alla sistemazione del foro Boario, e proseguirono anche più tardi, nel 1812-13; il piano, eseguito fino al 1822, venne riattivato nel 1827 su suggerimento di Carlo Fea, come da pianta riveduta nel 1829 da Valadier stesso, che pensava di demolire le costruzioni che ancora si trovavano tra il Tevere e il tempio della Fortuna virile e aprire una piazza davanti al ponte Rotto.
La Consulta straordinaria degli Stati Romani aveva deliberato, nel 1809, la costruzione di due nuovi cimiteri, incaricando Raffaele Stern di trovare le zone adatte, che furono la prima presso la basilica di S. Lorenzo fuori le Mura, e la seconda, nella cosiddetta valle dell’Inferno, dietro il complesso vaticano, denominata anche Pigneto Sacchetti, in quanto sorgeva sui ruderi della omonima villa. Dopo aver dedicato tre tavole dei Progetti architettonici per ogni specie di fabriche in stili ed usi diversi (Roma 1807) al prospetto, spaccato e pianta di un cimitero, Valadier stese la sua idea definitiva per il cimitero di S. Lorenzo il 12 luglio 1812 (realmente attuata solo molto più tardi, nel 1837). Essa era contemporanea ai lavori riguardanti il palazzo della Cancelleria, che si era deciso di trasformare in tribunale, o corte imperiale, mentre la chiesa di S. Lorenzo in Damaso doveva essere ridotta a sala per la riunione delle Camere. Nel dicembre dello stesso anno Valadier si recò con Canova ad Albano, ove si era reso necessario restaurare il sepolcro degli Orazi e Curiazi (su cui tenne un rapporto nella seduta accademica di S. Luca del 10 gennaio 1813), e di qui proseguì verso Cori, dove stava cadendo in rovina il pronao del tempio di Ercole.
Fin dal 1810 gli era stata affidata dal governo francese la sistemazione di piazza del Popolo, che prevedeva l’abbattimento dei conventi di S. Agostino e di S. Bonaventura. È questa la sua opera cardine, i cui lavori durarono nel complesso quasi tutta una vita, e per la quale Valadier dimostrò tra l’altro, nel 1812, la necessità di essere assistito da Giuseppe Camporese, la cui figlia si unì, due anni dopo, in matrimonio con il suo primogenito Luigi Maria. Tra il 27 ottobre 1810 e il 27 luglio 1811 Valadier tracciò il suo disegno definitivo consistente nella passeggiata verso il Pincio, al posto degli edifici conventuali da demolire (Debenedetti, 2019a, pp. 35-40). S’insisteva sulla necessità di un giardino irregolare e all’inglese, che non poteva essere abbracciato a colpo d’occhio, e si ovviava ai dislivelli attraversando il monte nella sua altezza, anziché circoscriverlo perimetralmente, e conferendo alla piazza quella che poi Louis-Martin Berthault definì poeticamente una forma «a clavicembalo» (Matthiae, 1946, p. 154). Per giungere a una simbiosi arte-natura, nel novembre del 1812 il Consiglio dei lavori pubblici e delle fabbriche civili, sfiduciando Valadier, decise di affidare il difficile compito a Berthault e a Guy de Gisors. I progetti che il primo dei due presentò alla Commission des embellissements nel 1813, riprendendo l’idea geometrica di Valadier, suggerivano una pianta ellittica con due rampe simmetriche e carrozzabili regolari che lambivano dolcemente la nuova forma ai lati di un giardino pittorico e regolare, al quale si ascendeva percorrendo il monte nel senso dell’ampiezza. Nel versante opposto, verso il Tevere, si adottò, invece, il motivo del tridente. Dopo il ritorno di Berthault in Francia, nel giugno del 1813, nuovamente Valadier procedette nel lavoro dei terrazzamenti, mettendo in opera il disegno di Louis-Martin, con l’unica eccezione che per ascendere alla sommità del Pincio, ove era l’Accademia Reale Imperiale di Francia collegata attraverso una nuova strada, era prevista una rampa continua di due viali asimmetrici. Tutto ciò fu realizzato da Valadier verso il 1816, anno al quale si può far risalire anche il progetto attuato della facciata del convento degli agostiniani e della sacrestia sull’attuale via Gabriele D’Annunzio, dopo aver preso in considerazione la possibilità dell’ampliamento in seguito alla decisione di restituirli alla Chiesa.
Rimasto vedovo della prima moglie, Giuseppe sposò il 27 novembre 1817 Margherita Spagna, sorella di Giuseppe, al quale vendette dieci anni dopo l’officina del padre.
Risalgono al 1818 i fogli più interessanti emersi tra gli studi per la soluzione di piazza del Popolo, cui tutti pensavano fin dai tempi di Pio VI, riguardanti una prima versione per la facciata di S. Maria; essa avrebbe dovuto sostituire la primitiva quattrocentesca destinata fin dal 1793 a essere trasportata a S. Rocco, chiesa per la quale la soluzione finale palladiana e di timbro neoclassico internazionale venne tuttavia concepita da Valadier solo molto più tardi, nel 1834 (Debenedetti, 2019c). Sempre al 1818 risale il disegno per la decorazione dell’emiciclo occidentale con la fontana di Nettuno.
Nel frattempo Valadier aveva ricevuto dal Consiglio d’arte la delibera di esecuzione e il preventivo delle opere che si sarebbero dovute realizzare alla Cancelleria, e il 4 dicembre riunì diversi artisti per decidere a chi attribuire il lavoro. Nel 1819 ripristinò il palazzo del S. Uffizio per il cardinale Giulio Maria Cavazzi della Somaglia e per i suoi inservienti con relazioni del maggio e dell’agosto, e ultimò i restauri della chiesa di S. Lorenzo in Damaso, al punto di rifarne quasi ex novo l’interno. Nello stesso anno eresse il faro del porto di Ripagrande per volontà di Pio VII.
Nel 1820 toccò a lui progettare la chiesina di S. Domenico a Mopolino, paese tra l’Aquila e Rieti, contemporanea alla villa La Quiete per Luigi Angelini a Treja, nel periodo in cui si interessava anche dell’Accademia Georgica di Macerata. Le idee di Francesco Milizia, già molto presenti in quest’ultima opera, si concretizzarono meglio nel palazzo con giardino del marchese Gregorio Ugolini a Macerata, iniziato nel 1796 e non ancora terminato nel 1835, dove il prospetto esterno, di sapore palladiano, veniva arricchito con un’intelaiatura gigante di ordine dorico (Debenedetti, 2014a, pp. 347 s.). Tra il 1818 e il 1822 Valadier compì il casino con portale vagamente rococò e l’annessa cappella di monsignor Nicola Maria Nicolai, ubicati lungo la via romana delle Sette Chiese, tra la basilica di S. Paolo e quella di S. Sebastiano (Debenedetti, 2008, p. 18). Nel 1822, dopo aver sistemato, al centro di piazza del Popolo, la fontana alla base dell’Obelisco, progettò le nuove beccherie verso il Tevere (ibid.). Terminò inoltre il palazzetto Lucernari verso il Babuino; contemporaneamente si occupò della facciata del teatro Valle, che presentava analogie con il palazzetto stesso: riprodotto nelle Opere di Architettura e di ornamento (Roma 1833, I, unico uscito) come il Lucernari, il Valle è legato all’episodio «della ruina del secondo arcone di palco scenico e sui danni da questa prodotti», come scrisse lo stesso Valadier che dedicò all’incidente la dissertazione Sulla improvisa caduta di un arco nel palco scenico del Teatro Valle in Roma (Roma, Archivio storico Capitolino, Archivio Capranica, b. 490, f. 5, 1822-24, s.d., c. n.n.). Poco tempo dopo attese all’opera del velario dell’anfiteatro di Corea, preparato per i festeggiamenti di Francesco I imperatore d’Austria, ma messo a terra da un turbine di vento «per mancanza di alcuni manovratori e avarizia dell’impresario Giovanni Paterni, che non permise che la copertura fosse in ferro, ma la volle mista a legni» (Ciampi, 1870, pp. 46 s.; Debenedetti, 1985, pp. 334 s. e fig. 477 a p. 367).
Fu di Valadier l’organizzazione, il 31 gennaio 1823, pochi mesi dopo la morte di Canova, di una grandiosa cerimonia nella chiesa dei Ss. Apostoli con tutti i modelli delle sue opere sacre; tali esequie furono seguite, il 31 agosto, da quelle di Pio VII. Lo stesso pontefice aveva voluto la riedificazione di S. Cristina a Cesena, dove prima sorgeva un vecchio oratorio: la prima pietra fu posta solo nel 1822 e il 20 agosto dell’anno successivo, dopo la morte del papa, la chiesa venne consacrata. Qui Valadier incrociò l’idea archeologica derivata dal Pantheon, e memore della mediazione palladiana, con un impianto circolare di lontana ascendenza borrominiana.
Il segretario di Stato, cardinal Ercole Consalvi, aveva concesso le aree di proprietà della Camera apostolica all’inizio di via del Babuino e di via Ripetta a Giovanni Torlonia e a Giuseppe Valenti, purché vi facessero costruire a loro spese da Valadier. Questi palazzetti mostravano un accento più severo rispetto a palazzo Lucernari; sul lato opposto di piazza del Popolo e in diagonale rispetto a quest’ultimo, a sinistra della porta, la dogana e la caserma si mimetizzavano sorprendentemente agli edifici di culto che inquadrano la porta sulla destra, ossia la chiesa di S. Maria e il convento; e vi si accordava anche palazzetto Torlonia, posto all’inizio del Tridente verso Ripetta. Nell’insieme, risultava evidente l’uso da parte di Valadier di medesimi stilemi architettonici nei diversi edifici a corredo dei quattro lati di piazza del Popolo, secondo un’agguerrita ricerca di simmetria, visibile nella ricorrenza dei bugnati, degli occhialoni, dei finestroni termali, degli archi a tutto sesto e degli zoccoli. Insieme a questi palazzetti, che collegavano la piazza con il tessuto urbano borghese dell’abitato, se ne potrebbero annoverare, eseguiti sempre a Roma tra il 1823 e il 1825, altri: il Lezzani, riprodotto anche nelle Opere, nell’isolato delle orsoline di fronte alla chiesa di S. Giacomo in via del Corso; il Raffaelli al Babuino; il Castellani in piazza in Lucina; i più tardi Wedekind in piazza Colonna, poi ufficio delle poste, terminato da Pietro Camporese (1830), e Poli, confinante con la fontana di Trevi, dove Valadier abbandonò i vecchi modelli, quasi a voler affermare il sorgere di una nuova architettura.
Tra il 1824 e il 1825 gli venne affidata la ricostruzione dell’incendiata basilica di S. Paolo, per la quale propose una memoria arbitraria moderna e profondamente diversa dall’originale, allontanandosi dall’impianto basilicale paleocristiano, che riteneva un «fabbricato rammannato alla meglio» (Marconi, 1964, pp. 217); e questo contro il parere di Angelo Uggeri, Carlo Fea e Pasquale Belli che optavano per la riedificazione nelle antiche forme «erette dal gran Costantino su quelle della Basilica Ulpia» (Debenedetti, 2014b, p. 267 nota 32). Da una prima idea del 1823 a struttura voltata su pianta a croce greca, che occupava l’antico transetto e con ingresso spostato a nord nella direzione di Roma, Valadier passò nel 1824 a un progetto analogo ma più ibrido e confuso, per venire incontro alla volontà della committenza pontificia, che avrebbe voluto tornare all’impianto a cinque navate e al primitivo orientamento della basilica con ingresso a ovest. La nuova pianta manteneva la croce greca e al prospetto principale verso Roma ne aggiungeva uno nuovo, di malriuscita composizione, verso le antiche navate (Pallottino, 2003). Valadier ottenne l’incarico insieme a Gaspare Salvi (esistevano anche progetti alternativi di Antonio Sarti), ma lo perdette in concomitanza con il Concorso Clementino del 1824 dedicato alla ricostruzione della basilica, che suggeriva il mantenimento dell’impianto longitudinale; nel novembre del 1825 venne sostituito da Pasquale Belli, cui successe, a qualche mese di distanza, Luigi Poletti (Debenedetti, 2014b, pp. 261-263).
Rispettando il volere di Leone XII, nel 1825 Valadier completò le carceri dei ragazzi presso il fabbricato delle Carceri Nuove, fatte costruire in via Giulia già da Innocenzo X (Debenedetti 2008, p. 20).
I restauri dello sperone nella parte occidentale del Colosseo, affidati a Valadier nel 1822, vennero ultimati solo nel mese di marzo 1826, mentre per quelli dell’arco di Tito egli subentrò al cantiere per la scomparsa di Stern. Risale al 1821 la Narrazione artistica dell’operato finora nel ristauro dell’Arco di Tito, letta nell’Accademia romana di archeologia il 20 dicembre e stampata a Roma per i tipi De Romanis nel 1822; ma l’arco, sul quale l’autore affermò di aver effettuato un’operazione «che si chiama ristaurare e non edificare» (pp. 15 s.), fu completato solo nel 1824, sostituendo con materiali diversi dall’originale i pezzi mancanti o corrotti dell’Antico onde poterli distinguere, e giungendo in entrambi i monumenti a differenziare ciò che era eseguito in modo ‘pittorico’ (perché era antico) da ciò che era eseguito in modo ‘grafico’ (Marconi, 1978-1979, pp. 64 s.).
Sempre nel 1826 Valadier eseguì nella prima cappella a destra in S. Maria Maggiore, che aveva lui stesso restaurata, il fonte battesimale con S. Giovanni e due angeli. Nel 1827 decorò la parte superiore della facciata dei Ss. Apostoli e iniziò nel 1828 un importante lavoro di rafforzamento delle mura aureliane da S. Maria del Popolo fino al Muro Torto, per il quale fanno fede documenti del 30 luglio 1830, relativi all’appalto di «opere ad uso di muratura da farsi alla passeggiata al Monte Pincio dalla parte che guarda l’antico cancello di Villa Borghese» (Matthiae, 1942, p. 119 s.). Per i Torlonia, Alessandro e Carlo, dai quali aveva avuto i suoi primi importanti incarichi, Valadier rinnovò, nel 1830, il teatro Apollo (o Tordinona), dove già era intervenuto un ventennio prima, dai medesimi acquistato nel 1820. Risistemò inoltre il borgo di Fiumicino, di cui sono conservati sia il progetto sia la planimetria del 1833, e disegnò la cappella di famiglia in S. Giovanni in Laterano, la seconda della navata estrema di sinistra (Ciampi, 1870, p. 317 nota ).
Tra il 1829 e il 1831 anche il tempio della Fortuna virile subì importanti restauri, dal momento che due delle sue colonne, sul muro esterno verso ovest, dovettero essere completamente ricostruite in terracotta ricoperta di stucco poiché i resti delle antiche non reggevano più. In questo periodo Valadier si occupava di tutta la zona archeologica che si estende dal Foro al Colosseo, al Palatino, a piazza Bocca della Verità; e forse avrebbe voluto spingersi fino al teatro di Marcello, prossimo ai tre templi di S. Nicola in Carcere, che già molto lo avevano interessato, pur non essendo presenti nella Raccolta delle più insigni fabbriche di Roma antica e sue adiacenze (Roma 1810-1826). Su questi templi si era ripromesso di tornare «poiché questa interessantissima operazione si renderà ancora più utile quando si darà alla luce per appendice al Desgodetz che si sta lavorando», ma dopo lunghe e complesse vicende le «correzioni» all’opera secentesca uscirono nel 1843 a cura di Luigi Canina (Debenedetti, 2019b, p. 326).
Nel 1834 Valadier fu incaricato di costruire un unico edificio sul Pincio di fronte alla nota Casina del caffè, che lui stesso aveva progettato fin dal 1816, per ospitarvi il corpo di guardia e i magazzini del giardiniere; ma l’idea risultò poco felice e venne abbandonata. Nel 1835 iniziò a rinnovare il prospetto della Calcografia camerale. Risale al 1836-37 l’ampliamento di piazza di Ponte S. Angelo, ponendo in simmetria le tre strade che vi sboccano e alzandovi quattro considerevoli fabbricati per le milizie. Nel 1838 ricostruì il seminario di Civitavecchia, immaginando, nello stesso anno, la decorazione del teatro Argentina, affidata a Pietro Cartoni.
Decise quindi di ritirarsi a Frascati in un suo casino, perché le forze gli venivano meno. Ideò però ancora, nel 1839, l’apparato per la canonizzazione di quattro beati, eseguito dal figlio Luigi Maria il 6 maggio. Giuseppe era infatti venuto a mancare nel frattempo, il 1° febbraio dello stesso anno, e venne sepolto, per sua disposizione testamentaria, nella chiesa di S. Luigi dei Francesi, la stessa in cui era stato battezzato settantasette anni prima.
Fonti e Bibl.: Roma, Archivio storico Capitolino, Archivio Capranica, b. 490, f. 5, 1822-24: L. Valadier, Sulla improvisa caduta di un arco nel palco scenico del Teatro Valle in Roma, s.d., col. n.n.; I. Ciampi, Vita di G. V. architetto romano, Roma 1870; G. Matthiae, Restauri del V. alle Mura Aureliane, in Roma, XX (1942), 3, pp. 119 s. e tav. XXI; Id., Piazza del Popolo, Roma 1946, p. 154; C. Pietrangeli, Palazzo Braschi, Roma 1958, p. 23; P. Marconi, Contributo alla conoscenza della vita e dell’opera giovanile di G. V., in Quaderni dell’Istituto di storia dell’architettura, s. 10, 1963, n. 55-60, pp. 75-139; Id., G. V., Roma 1964 (in partic. pp. 216 s., 238 nota 2); A. Busiri Vici, I Poniatowski a Roma, Firenze 1971, pp. 263; P. Marconi, Roma 1806-1829: un momento critico per la formazione della metodologia del restauro architettonico, in Ricerche di storia dell’arte, 1978-1979, n. 8, pp. 64 s.; E. Debenedetti, V.: diario architettonico, Roma 1979; Ead., V. segno e architettura (catal.), Roma 1985, pp. 334 s., 354 s., 367, fig. 477; E. Pallottino, La ricostruzione della basilica di S. Paolo fuori le mura (1823-1824), in Maestà di Roma. Da Napoleone all’Unità d’Italia (catal., Roma), a cura di L. Barroero - F. Mazzocca - S. Pinto, Milano 2003, pp. 490 s.; E. Debenedetti, Otto nuovi disegni tra Pio VI e Pio VII, in Bollettino d’arte, s. 6, 2004, n. 129, pp. 96 s.; Ead., G. V. (1762-1839), in A. Cipriani - G.P. Consoli - S. Pasquali, Contro il Barocco. Apprendistato a Roma e pratica dell’architettura civile in Italia (catal.), Roma 2007, pp. 476-481 (in partic. pp. 476-478); Ead., Vita di G. V. attraverso nuovi documenti, in Architetti e ingegneri a confronto, II, L’immagine di Roma fra Clemente XIII e Pio VII, a cura di E. Debenedetti, Roma 2008, pp. 7-30 (in partic. pp. 9, 13, 18, 20); Ead., Antonio Mollari fra Canova e V., in Antonio Mollari (1768-1843), architetto ingegnere marchigiano. Atti del Convegno internazionale, Tolentino… 2013, a cura di M. Saracco, Macerata 2014a, pp. 243, 347 s.; Ead., Le antichità romane dell’abate Uggeri nei manoscritti Lanciani, in Antico, città, architettura, I, Dai disegni e manoscritti dell’Istituto Nazionale di archeologia e storia dell’arte, a cura di E. Debenedetti, Roma 2014b, pp. 260, 267 nota 32; A. González-Palacios, G. V. nella bottega di via del Babuino, in I Valadier. L’album dei disegni del Museo Napoleonico (catal.), Roma 2015, pp. 34-42; E. Debenedetti, Marmi quotidiani: il rapporto tra Pacetti e G. V. attraverso i ‘Giornali’, in Bollettino d’arte, 2017, n. speciale: Vincenzo Pacetti, Roma, l’Europa all’epoca del grand tour, a cura di A. Cipriani - M.G. Picozzi - L. Pirzio Biroli Stefanelli, pp. 75-84; A. González Palacios, L. V. (catal.), New York 2018; E. Debenedetti, G. V. e la genesi di Piazza del Popolo, in Ananke, 2019a, n. 87, pp. 35-40; Ead., Luigi Canina nel fondo Lanciani, in Temi e ricerche sulla cultura artistica, II, Antico, città, architettura, IV, Dai disegni e manoscritti dell’Istituto nazionale di archeologia e storia dell’arte, a cura di E. Debenedetti, Roma 2019b, pp. 326, 332 e note 52, 56; Ead., G. V. per Napoleone, in Opus, 2019c, n. 3, pp. 19-30; A. González Palacios, I Valadier, Andrea, Luigi, Giuseppe, Milano 2019.