VENITA, Giuseppe
– Nacque a Ferrandina, nel Materese, il 19 marzo 1774 da Vincenzo e da Camilla Schiavone.
Alcune fonti indicano in maniera imprecisa come data di nascita l’8 dicembre 1777. Il padre, dottore in utroque iure e proprietario terriero, era certamente uno dei più cospicui ‘galantuomini’ del paese e tuttavia Giuseppe, come il fratello Francesco di dieci anni più giovane, fu avviato alla carriera militare invece che alla gestione del patrimonio familiare, mentre il terzogenito Tommaso fu destinato al saio monastico.
Arruolatosi giovanissimo nell’esercito napoletano, raggiunse il grado di sergente e alla fine del 1798, di fronte alla rotta dell’armata borbonica guidata dall’austriaco Karl Mack von Leiberich e alla conseguente invasione del Regno da parte delle truppe di Jean-Étienne Championnet, scelse la divisa repubblicana; nel maggio del 1799 accorse, insieme a entrambi i fratelli, alla chiamata di Felice Mastrangelo per difendere Altamura dall’assedio dell’armata della Santafede.
Fuggito dalla città pugliese subito prima della caduta e del saccheggio da parte delle truppe del cardinale Fabrizio Ruffo, Venita si diresse – probabilmente insieme a Mastrangelo – verso Napoli, dove partecipò alla difesa di Castel Nuovo e, dopo la capitolazione (benché il suo nome non sia presente nelle Filiazioni dei rei di Stato), si imbarcò su una delle navi dirette a Tolone o Marsiglia. In Francia proseguì nella carriera militare e, come molti rifugiati, si arruolò nella Legione italica, diventandone ufficiale e partecipando tra le sue file alla seconda campagna napoleonica d’Italia.
Rientrò nel Regno di Napoli al seguito del corpo di spedizione francese comandato da André Masséna che all’inizio del 1806 riconquistò il Mezzogiorno costringendo i Borbone a una nuova fuga in Sicilia; nel 1808 fu incorporato nell’esercito di Gioacchino Murat con il grado di capitano.
Nominato comandante della legione di stanza a Melfi, Venita fu impegnato nella repressione delle insorgenze contadine endemiche nell’Appennino apulo-lucano che durante il Decennio assunsero una copertura politica legittimista e antifrancese; promosso maggiore nel 1810 e aiutante di campo del generale Louis Adrien Brice de Montigny partecipò, nel 1812, alla campagna di Russia.
Con la caduta di Murat e la nuova restaurazione borbonica, Venita riuscì a mantenere il suo posto nell’esercito ma, nonostante le garanzie stabilite dal trattato di Casalanza per gli ufficiali che avevano servito ‘l’usurpatore’ francese, fu retrocesso al grado di capitano e, in questa veste, assegnato di nuovo alla lotta contro il brigantaggio nelle zone montuose della Basilicata.
Il 3 maggio 1816 la legione comandata da Venita ebbe uno scontro, al Crocifisso dell’Alvano, presso Lavello, con la comitiva di Gaetano Vardarelli, organizzata militarmente e costituita da più di cento uomini a cavallo. Durante il conflitto i fuorilegge caricarono alla sciabola il contingente della milizia provocando trentanove vittime tra le sue file.
Affiliato alla carboneria fin dal Decennio francese, Venita fu tra i principali organizzatori della società segreta in Basilicata a partire dal 1814 e, probabilmente in grazia di tale iniziazione, durante l’ottimestre costituzionale del 1820-21 fu nominato ispettore alle armi per la regione militare lucana e, deciso a difendere il sistema rappresentativo quando il congresso di Lubiana ne decise la fine, partecipò alla battaglia di Rieti-Antrodoco con la colonna Sponsa, ritirandosi con essa in Basilicata a seguito alla disfatta.
Ritornato il governo assoluto di Ferdinando I delle Due Sicilie, Venita rifiutò di continuare a servire nell’esercito e si ritirò a vita privata dedicandosi, in realtà, a organizzare l’attività clandestina della carboneria lucana.
Decisa a impedire da subito la seconda restaurazione, la società segreta guidata da Venita contravvenne all’ordine delle autorità centrali di evitare qualsiasi contrapposizione armata con le truppe borboniche e austriache e, fin dalla primavera del 1821, si sollevò innalzando l’albero della libertà repubblicano nei comuni di Tito e Pignola. Il moto lucano – contemporaneo a un analogo tentativo di resistenza promosso tra Reggio e Messina dal generale Giuseppe Rossaroll – tenne in allarme per vari mesi le autorità centrali e culminò in un tentativo di sollevare la città di Potenza e armare le popolazioni del capoluogo e dei paesi circostanti per rovesciare il governo monarchico.
Riconosciuto come capo del movimento, Venita fu arrestato una prima volta a Ferrandina la sera del 30 novembre 1821 insieme a tal Luigi Rosella, in casa del quale si nascondeva, ma fu immediatamente liberato in seguito a un’imponente manifestazione popolare in suo favore promossa dalle vendite carbonare che causò anche la morte di una guardia carceraria. Riguadagnata al libertà, ma cosciente di quanto quella condizione fosse frutto di rapporti di forza locali e non dell’indulgenza delle autorità nei suoi confronti, egli si circondò di fedeli armati che ne garantivano la libertà e ne eseguivano gli ordini per quanto riguarda la resistenza contro le truppe austriache e borboniche.
In questa fase l’attività di Venita assunse – per lo meno dal punto di vista dei suoi avversari – toni intermedi tra la sovversione politica settaria e il brigantaggio, fenomeno che invece in precedenza da militare egli aveva sempre contrastato. In breve tempo, il sodalizio clandestino raggiunse ragguardevoli dimensioni sotto la guida, oltre che dello stesso Venita, del medico Carlo Mazziotta, del capitano Domenico Corrado, del sacerdote Eustachio Ciani, di Giuseppe Caparelli e di Leonardo Abbate. Anche Francesco, fratello minore di Giuseppe, decise di aderire alla società.
Sul piano iniziatico, l’attività cospirativa vide un’alleanza tra la carboneria – cui l’ex ufficiale continuava presumibilmente a fare riferimento – con altre società nate durante e dopo l’ottimestre, che criticavano l’attitudine al compromesso con i moderati e la scarsa energia nella difesa del Regno dimostrate da vari membri e dignitari della società principale. In quella fase Venita si trovò dunque a collaborare con i radicali della Lega europea nonché con una misteriosa setta esoterico/politica napoletana chiamata dei Pellegrini bianchi, estendendo così la propria rete al Salernitano e ad altre province campane.
A tale espansione dei contatti politici corrispose, tuttavia, una situazione militare sempre più difficile poiché le truppe regie e quelle austriache ancora nel Regno profusero il massimo sforzo per debellare la ‘viva reazione’ scatenatasi in Basilicata dopo la fine dell’esperienza costituzionale. I paesi di Calvello e Laurenzana furono sottoposti dai primi di febbraio del 1822 a governo militare onde impedire qualsiasi aiuto alle comitive di fuoriusciti; il che alla fine portò a numerose delazioni e all’arresto di Mazziotta e di alcuni complici.
Tali drastiche misure condussero anche molti dei seguaci di Venita ad abbandonarlo tanto che egli fu catturato, insieme al fratello Francesco, da un drappello austriaco che li aveva braccati nel bosco di Pietrapertosa.
Il processo fu celebrato da una corte marziale istallata nel castello di Calvello e presieduta dal maresciallo Filippo Roth: la sera del 12 marzo 1822 essa comminò ventisei condanne a pena detentiva e ventiquattro condanne capitali, di cui quindici furono però immediatamente commutate in ergastolo.
L’indomani, il 13 marzo 1822, Giuseppe Venita fu fucilato sulla piazza di Calvello.
Insieme a lui furono giustiziati gli altri otto condannati restanti – tra i quali il fratello Francesco, Mazziotta, Ciani e il frate laico Rosella – e i loro corpi trasportati nel cimitero di Potenza.
Fonti e Bibl.: Archivio di Stato di Napoli, Grazia e Giustizia, b. 5356, Pellegrini bianchi.
R. Brienza, I martiri della Lucania, Potenza 1881, passim; S. Cilibrizzi, I grandi lucani nella storia della nuova Italia, Napoli s.d. (nuova ed. a cura di S.G. Bonsera, appendice bibliografica di E. Bonitatibus, Potenza 2008, ad ind.); A. Lucarelli, Il brigantaggio politico nel Mezzogiorno d’Italia, Bari 1942, ad ind.; T. Pedìo, Dizionario dei patrioti lucani (artefici e oppositori) 1700 -1870, V, Bari 1990, ad ind.; A. De Francesco, La democrazia alla prova della spada. Esperienza e memoria del 1799 in Europa, Milano 2003, pp. 496, 509.