Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Giuseppe Verdi è sicuramente il compositore italiano più popolare e molte delle sue opere non sono mai uscite dal repertorio, diventando oggetto di un vero “culto”. Un luogo comune, non privo di fondamento, associa il nome di Verdi al Risorgimento, tuttavia egli è soprattutto un uomo di teatro che dimostra una prodigiosa abilità a cogliere lo spirito del tempo, e quello risorgimentale è solo un aspetto della sua produzione. A partire dagli anni Quaranta la figura di Verdi domina il secolo, attraversando anni di grandi cambiamenti politici e culturali e riuscendo ad adattarsi con grande versatilità, o ad anticipare le novità con abilità da camaleonte.
Giuseppe Verdi inizia la sua carriera secondo le “regole”, con un’opera seria, Oberto, conte di San Bonifacio che debutta il 17 novembre 1839 presso il Teatro alla Scala, e un’opera buffa, Un giorno di regno (1850) che è un solenne fiasco; Verdi tornerà al comico – un comico molto diverso – solo con l’ultimo lavoro, Falstaff.
Le sue 28 opere sono dunque in maggioranza drammatiche. L’epoca che vede la nascita di Verdi come compositore è più interessata alla tragedia che alla commedia; ma la divisione tra i due generi del melodramma sta per cadere: le opere di Verdi contengono allo stesso tempo elementi comici e drammatici, tragici e grotteschi, secondo l’estetica romantica e in particolare l’esempio dei drammi del commediografo francese Victor Hugo, che teorizza tale fusione sul modello del teatro di Shakespeare, grande riscoperta del romanticismo europeo.
I primi grandi successi favoriscono la nascita del mito di Verdi patriota. Opere quali Nabucodonosor poi Nabucco (1842), I lombardi alla prima crociata (Milano, Scala, 11 febbraio 1843; poi rifatta come Jérusalem per l’Opéra di Parigi il 26 novembre 1847), entrambe su libretto di Temistocle Solera, legano per sempre il nome di Verdi alle istanze risorgimentali. In esse trova eco, mediato dalle vicende di popoli oppressi, il desiderio di libertà degli Italiani, cui danno voce due celebri pagine musicali, i cori “Va pensiero, sull’ali dorate” in Nabucco, e “O Signore, dal tetto natio” nel quarto atto dei Lombardi. Secondo un aneddoto molto diffuso nella mitologia risorgimentale, con la scritta VIVA VERDI gli Italiani avrebbero inneggiato a Vittorio Emanuele re d’Italia; ciò testimonia come nella figura del compositore, e in alcune delle sue opere più popolari, si siano coagulate le aspettative più forti del tempo.
Il nuovo, importante ruolo attribuito da Verdi al coro riflette, in maniera diluita, l’influsso del grand-opéra francese. Nel grand-opéra il coro rappresenta il popolo, e si riveste spesso di un significato ideologico; è quasi sempre la raffigurazione di un’idea, del fanatismo politico o religioso, o quanto meno si connota come “etnia” distinta.
Anche nell’opera romantica italiana il coro è ampiamente presente, ma il suo compito – ad esempio in Anna Bolena o Robert Devereux di Donizetti – è di raffigurare una massa indistinta di cortigiani e di commentare gli avvenimenti: una specie di coro della tragedia greca, approdato al melodramma sulle orme della Sposa di Messina di Schiller.
In queste prime opere verdiane il coro non è protagonista come lo è nei grand-opéra contemporanei, ma manifesta, in ogni caso, una personalità specifica, con una forte connotazione “nazionale”, etnica. Nel Nabucco raffigura il popolo ebraico, prigioniero a Babilonia, nei Lombardi oppone cristiani a musulmani.
Il filone risorgimentale è dunque in linea con il modello operistico che viene dalla Francia e anche con il clima culturale italiano, che è a favore di un’arte “utile”, dal forte impegno sociale. I lombardi alla prima crociata sono molto apprezzati, ad esempio, dal poeta Giuseppe Giusti, che invece rimprovera Verdi in occasione del Macbeth. E già nel 1836 Giuseppe Mazzini, nella sua singolare Filosofia della musica, auspica proprio un melodramma più vicino alla realtà storica, e un nuovo ruolo per il coro, rappresentanza “dell’elemento popolare”.
Per alcuni anni Verdi insiste sul filone “nazional-popolare” con Giovanna d’Arco (1845), Attila (1846), e infine con La battaglia di Legnano (1849). Quest’ultima, commissionata dalla Repubblica romana, ha più di tutte un chiaro intento propagandistico, e segna l’abbandono del modello risorgimentale.
Verdi rivolge adesso la sua attenzione a un altro modello, che proviene dalla tradizione italiana, ed è quello del dramma romantico, nella duplice incarnazione datagli da Bellini e Donizetti. Da Bellini Verdi eredita l’attenzione al soggetto, al testo (ma non l’eleganza dei versi); da Donizetti l’attenzione agli aspetti drammaturgici, la tecnica del “colpo di scena” che ribalta la situazione preesistente, l’attenzione ai personaggi minori, e soprattutto il triangolo vocale composto da soprano, tenore, baritono.
Primo esempio di dramma romantico è Ernani (1844) tratto dal dramma omonimo di Hugo, che al suo apparire nel 1830 era diventato una specie di manifesto del romanticismo. Pur essendo formalmente un’opera piuttosto tradizionale, in Ernani Verdi approfondisce la sua capacità di scolpire i personaggi.
Un’altra tappa importante del suo cammino è il Macbeth, (1847), il primo approccio verdiano alla tragedia shakespeariana. La critica coeva rimane colpita dagli aspetti fantastici presenti nell’opera, quali il coro delle streghe e l’apparizione del fantasma di Banquo, e per questo la collega al Franco cacciatore di Carl Maria von Weber, da poco apparso sulle scene fiorentine. Ma anche in questo caso Verdi è attirato dagli aspetti umani e psicologici della storia; per lui Macbeth è principalmente il dramma dell’ambizione e del successivo rimorso. Per la prima volta Verdi pretende di controllare ogni aspetto della messinscena oltre all’esecuzione dei cantanti, che sottopone a prove stressanti.
Abramo Basevi, acuto critico e autore della prima monografia verdiana (Le opere di Giuseppe Verdi, 1859), vede in Luisa Miller – (1849) dal dramma schilleriano – l’inizio di una seconda maniera verdiana, che prosegue con Stiffelio (1850), Simon Boccanegra (1857) e altri drammi di ambientazione borghese.
L’evento cruciale degli anni Cinquanta è però la nascita della cosiddetta trilogia popolare: Rigoletto (1851), Il trovatore (1853), La traviata (1853). Si tratta di tre capolavori, ognuno dei quali presenta caratteristiche spiccate: La traviata – che suscita scandalo per l’ambientazione contemporanea e per la professione della protagonista, una cortigiana – è uno dei più penetranti ritratti di donna del melodramma fino a Puccini. Per la prima volta in un’opera italiana è presente l’attenzione al cosiddetto “colore locale”, vale a dire il tentativo di raffigurare attraverso la musica i luoghi in cui si svolge la vicenda. Il colore della Traviata è dato dal ritmo del valzer, che attraversa l’opera a partire dal primo atto.
Il trovatore, da una tragedia dello spagnolo Antonio García Gutiérrez, è l’opera formalmente meno innovativa delle tre e forse meno raffinata, ma è ricchissima di melodie che le hanno assicurato una popolarità intramontabile. L’abilità verdiana nella tecnica del “colpo di scena” raggiunge il suo culmine nel primo atto, all’apparizione del Trovatore, nel terzo alla notizia della cattura di Azucena, che dà luogo alla famosa cabaletta “Di quella pira”, e soprattutto nel finale quando Azucena rivela al Conte di Luna che Manrico, appena giustiziato, era suo fratello.
Rigoletto è la prima opera della trilogia ed è ritenuta dallo stesso Verdi la migliore. Nella tragedia Le roi s’amuse di Hugo, Verdi trova finalmente quello che desidera, vale a dire un personaggio forte e un nucleo tematico individuato con chiarezza, quello della maledizione invocata da Monterone sul capo di Rigoletto, che attraverso una frase musicale aleggia cupamente su tutto il dramma. Rigoletto è un personaggio memorabile e, con le parole di Verdi, “una delle più possenti creazioni di tutti i tempi”, diviso tra l’amore appassionato per la figlia Gilda e il disprezzo, l’odio per i signori che deve servire, che sfocia nell’aria “Cortigiani, vil razza dannata”, un’aria dall’impianto molto libero, composta da più sezioni in tonalità diverse.
Il tema del rapporto padri-figli, centrale nella drammaturgia verdiana, trova qui una magistrale interpretazione, ma tutte le figure dell’opera sono dipinte magnificamente. Il vertice della capacità verdiana di descrivere musicalmente i personaggi è raggiunto nel quartetto dell’atto terzo “Bella figlia dell’amore”, che si può considerare anche un doppio duetto.
Nella squallida taverna di Sparafucile il duca di Mantova corteggia la prostituta Maddalena, che gli risponde per le rime, mentre all’esterno Rigoletto tenta di convincere la figlia a desistere dal suo amore. I diversi caratteri e gli stati d’animo dei personaggi (dolore di Gilda, ira e preoccupazione di Rigoletto, leggerezza di Maddalena, fatuità del duca) si traducono in frasi musicali ben differenziate.
Con il successo della trilogia, Verdi conquista una solida posizione che gli permette di abbandonare i serrati ritmi di produzione finora seguiti, e preoccuparsi di conquistare il mercato straniero. Il suo successivo capolavoro Un ballo in maschera (1859) nasce però in Italia, superando con fatica le maglie della censura. Di tutte le opere verdiane, Un ballo in maschera è quella che illustra con più forza il tema della passione amorosa – in questo caso adulterina e insoddisfatta – e può quasi essere considerata la controparte italiana del Tristano e Isotta di Wagner. Vituperata per il libretto non troppo felice di Antonio Somma, Un ballo in maschera piega e adatta abilmente la “solita forma” alle necessità del dramma. Il duetto del primo atto tra gli amanti Riccardo e Amelia, “Teco io sto”, rispetta la divisione in quattro tempi canonici, ma non di meno raggiunge un’intensità mai sentita prima.
Il 1860 rappresenta una svolta importantissima nella storia italiana: le lotte risorgimentali per l’unificazione del Paese hanno raggiunto il loro scopo, nel marzo 1861 viene finalmente proclamato il Regno d’Italia, sotto la guida dei Savoia, e nel 1871 Roma diventa capitale.
Nel corso dell’Ottocento, i rivolgimenti politici non mancano d’influenzare la vita teatrale, nei modi più svariati: nel 1848 e negli anni immediatamente successivi il numero delle rappresentazioni subisce una drastica caduta e la censura, politica e religiosa, si inasprisce, influendo pesantemente sulla scelta dei soggetti. Sono notissime le peripezie di Verdi alle prese con una censura ottusa. Nel Rigoletto è il personaggio originario del dramma di Victor Hugo – il re di Francia Francesco I, raffigurato nei panni di impenitente libertino – a destare scalpore, e Verdi è costretto a ripiegare su un duca, il duca di Mantova appunto. Nel Ballo in maschera, l’intreccio originale di Augustin Eugène Scribe – che prevede addirittura una congiura contro un sovrano, il re di Svezia, e la sua uccisione in scena – è improponibile, e la censura impone di trasportare la storia dalla Svezia alla lontana Boston e di trasformare il re in governatore, Riccardo.
Le trasformazioni politiche mutano il volto dell’Italia, ma nel 1860 anche il mondo teatrale è profondamente cambiato. Mentre nella prima metà del secolo, come d’altra parte nei secoli precedenti, ogni cittadina ha la sua stagione d’opera e può permettersi di avere i migliori cantanti e, sostanzialmente, gli stessi spettacoli delle città maggiori, alla fine degli anni Quaranta si creano due diversi circuiti operistici, uno di livello maggiore (le grandi città) e uno di livello più scadente (la provincia). Al centro del primo sta Milano, che ospita non solo il Teatro alla Scala, ma anche i maggiori editori, Ricordi in testa, oltre alle principali riviste specializzate, come la “Gazzetta musicale” di Milano di proprietà dello stesso Ricordi e, alcuni anni più tardi “Il teatro illustrato” dell’editoreSonzogno.
Un’altra caratteristica importante è la creazione del repertorio, ossia un gruppo stabile di opere che vengono rappresentate frequentemente. Anche in questo caso gli interessi dell’editoria giocano un ruolo importante, perché le partiture circolano stampate e non più, come all’inizio dell’Ottocento, manoscritte, e quindi gli editori hanno interesse a imporre quelle da loro pubblicate. Inoltre in questi anni, il ruolo dell’autore ottiene un grande riconoscimento con la prima legislazione sul diritto d’autore (1865).
Ma la modificazione più importante nella vita teatrale è rappresentata dal fatto che l’opera italiana non detiene più il monopolio delle scene. Negli anni Cinquanta e Sessanta si fa sempre più forte la presenza dell’opera straniera, dapprima nella forma del grand-opéra di Giacomo Meyerbeer, poi in quella dell’opéra-lyrique di Gounod: il suo Faust, infatti, dopo la prima milanese del 1862, gode in Italia di un incontrastato successo. Con l’arrivo del grand-opéra si diffonde anche una maggiore attenzione per il lato spettacolare dell’opera: l’allestimento assume un’importanza crescente e Ricordi – sul modello dell’Opéra di Parigi – comincia a pubblicare i libretti delle cosiddette “disposizioni sceniche” cioè le indicazioni di regia e di allestimento. Ai teatri si chiedono maggiori risorse economiche, e un impegno organizzativo superiore; i grand-opéra richiedono infatti grandi cori e orchestre affiatati oltre alla presenza di un direttore d’orchestra, e anche nei teatri italiani si afferma la figura del maestro concertatore. A partire dal 1871, con la prima esecuzione a Bologna del Lohengrin, giungono nei teatri italiani anche i drammi musicali di Richard Wagner. Alcuni brani di Wagner – le sinfonie di Lohengrin e Tannhäuser – oltre ai suoi scritti teorici circolano in Italia già da alcuni anni, ma l’esecuzione bolognese del Lohengrin segna comunque la caduta dell’ultimo baluardo della tradizione italiana.
Verdi è implicato attivamente nel cambiamento del mondo teatrale: come deputato al neonato Parlamento italiano, egli si occupa, dal 1861, della legislazione sul diritto d’autore. La proprietà editoriale delle sue opere, il legame con l’editore Ricordi e il controllo totale su ogni aspetto della messinscena ne fanno un compositore completamente diverso dai suoi predecessori, in grado di contrattare alla pari con gli impresari e d’imporre la sua volontà ai librettisti e agli artisti. La maggiore complessità sinfonica delle ultime opere si giova delle nuove figure di direttore d’orchestra, come Angelo Mariani. Il suo peso sulla vita musicale e culturale italiana è notevolissimo, come dimostra anche la vicenda del Requiem per Manzoni.
Il progetto per il requiem più noto di tutto l’Ottocento nasce di slancio alla notizia della morte del grande scrittore, che Verdi adora. Manzoni muore il 22 maggio 1873: la prima esecuzione del Requiem, diretta dallo stesso Verdi, ha luogo esattamente un anno dopo nella chiesa di San Marco a Milano, stracolma di gente. I cantanti sono Teresa Stolz, la prima Aida, Maria Waldmann, il tenore Capponi e Osmondo Maini. È un enorme successo; vengono date subito tre repliche alla Scala e si organizza una vera e propria tournée. Pur senza dubitare del genuino desiderio di Verdi di scrivere una musica veramente “religiosa”, si deve riconoscere che il suo Requiem non è scevro da effetti teatrali (ad esempio l’inizio del Dies irae): ma la teatralità è insita nella cifra stilistica di Verdi, ed è inevitabile che egli, laico testardo, concepisca la rappresentazione dell’uomo dinanzi alla morte come un dramma, come una lotta con un destino oscuro e ineluttabile.
Per Verdi scrivere il Requiem significa comunque anche recuperare la grande tradizione polifonico-vocale italiana; infatti egli chiede più volte a Francesco Florimo, bibliotecario del conservatorio di San Pietro a Majella di Napoli, di inviargli musica sacra di Scarlatti, di Leonardo Leo e di altri maestri italiani.
Testimoniano questo vivo interesse di Verdi le parti del Requiem scritte nello stile “a cappella”, cioè per sole voci, o in stile contrappuntistico.
A partire dall’unità d’Italia, a contrastare l’avanzata dello “straniero” resta in pratica il solo Verdi, poiché nessuno dei compositori dell’epoca riesce a esprimere una spiccata personalità. Sono quasi tutti compositori “di una sola opera”, come Filippo Marchetti con il suo Ruy Blas (1869), che rientra nel filone del grand-opéra.
Anche Verdi è interessato al modello che proviene d’oltralpe.
Attirato, come tutti gli operisti italiani del secolo, dallo scintillio dell’Opéra, scrive per Parigi I vespri siciliani (Opéra, 13 giugno 1855), Don Carlos (Opéra, 11 marzo 1867) e per San Pietroburgo La forza del destino (Teatro Imperiale, 10 novembre 1862), consegnando infine ai posteri con Aida (Il Cairo, Teatro dell’Opera, 24 dicembre 1871) il suo più riuscito tentativo nel genere. In Aida Verdi coniuga abilmente l’esotismo e la spettacolarità del grand-opéra, con lo studio psicologico dei personaggi proprio delle sue opere mature. I caratteri delle due donne rivali – Aida (soprano) e Amneris (mezzosoprano) – entrambe divise tra l’amor di patria e la passione per Radamès, sono tratteggiati con grande finezza psicologica. Emblematica è l’aria “O cieli azzurri” di Aida nel terzo atto, che dipinge la nostalgia della schiava per la propria terra, e insieme prepara la condizione psicologica che la condurrà a ingannare Radamès per salvare i suoi compatrioti.
Per lungo tempo Aida rimane l’ultima opera di Verdi, e il musicista appare invecchiato, incapace di far fronte all’arrivo del dramma wagneriano.
Proprio dall’incontro con uno dei suoi contestatori, il musicista e letterato “scapigliato” Arrigo Boito, nascono i due capolavori della vecchiaia verdiana, Otello (Milano, Scala, 5 febbraio 1887) e Falstaff (Milano, Scala, 9 febbraio 1893), entrambi tratti da Shakespeare, un vecchio amore di Verdi sin dai tempi di Macbeth. In Otello si trova per l’ultima volta il triangolo soprano, tenore, baritono, elevato, per così dire, all’ennesima potenza: Jago è il ritratto della perfidia più nera, Otello riduce quasi a stupidità la sensualità tipica del tenore, e Desdemona è l’apoteosi dell’eroina romantica sacrificata all’amore. Falstaff – tratto dalle Allegre comari di Windsor – è costruito tutto intorno alla figura del vecchio libertino in disarmo, sir John Falstaff, che si rifiuta di accettare il suo declino.
Boito abbandona per una volta le sue velleità rivoluzionarie e si adatta a fare da librettista, conferendo alle due opere un linguaggio particolarissimo, molto più ricercato di quello della media dei libretti. Entrambe le opere guardano principalmente al modello del dramma parlato; la distinzione tra aria e recitativo è del tutto abolita, ma la melodia affiora qua e là nel dialogo, che rappresenta il tessuto connettivo del dramma.
Otello e Falstaff segnano la fine del melodramma, nella forma conferitagli da Rossini in poi. Falstaff soprattutto, questo malinconico addio alla vita, abbandona ogni idea di pezzo chiuso: si tratta di una vera rivoluzione tardiva che garantisce a Verdi l’ammirazione incondizionata di musicisti lontanissimi dall’opera italiana, come Richard Strauss e Gustav Mahler.
Tra l’ultima opera di Rossini (Guillaume Tell) e la prima di Verdi (Oberto) passano appena dieci anni, ma la vocalità dei cantanti muta profondamente.
Verdi rompe infatti decisamente con la tradizione del “belcanto”: al tipo vocale corrisponde adesso un tipo psicologico ben preciso, e inoltre si recupera la caratterizzazione sessuale delle voci; al centro dell’opera non sta più la bellezza del canto ma le esigenze del dramma e le voci non devono più essere belle, ma adatte al personaggio.
Emblematico a questo riguardo il rifiuto opposto da Verdi alla cantante Eugenia Tadolini per la parte di Lady Macbeth, in quanto ritenuta dotata di una voce e di un aspetto troppo “angelici’’.
Lady Macbeth è l’anima nera del marito, l’ambizione sfrenata: di conseguenza le si adatta maggiormente una vocalità cupa, sforzata.
Verdi raccoglie da Donizetti la netta differenziazione delle voci maschili tra basso, baritono e tenore. Il tenore raffigura sempre la giovinezza, la bellezza, l’amore, sia nei personaggi fondamentalmente positivi (Ernani nell’opera omonima, Alfredo nella Traviata) sia in quelli negativi (il duca di Mantova in Rigoletto) o ambigui (Riccardo in Un ballo in maschera, Radamès in Aida).
La grande novità è comunque la voce baritonale, ormai chiaramente distinta da quella del basso, che viene confinata in ruoli gravi di sovrani o sacerdoti, e comunque associata all’idea dell’autorità. Un esempio tra tutti il re Filippo II nei Vespri siciliani cui Verdi dedica un brano di straordinaria finezza psicologica, l’aria “Ella giammai m’amò”. Quella baritonale è la voce dell’uomo adulto, quasi sempre l’antagonista del tenore, secondo uno schema che Verdi inizia ad applicare con Ernani e utilizza fino alla piena maturità (altri esempi sono Renato nel Ballo in maschera, Germont in La traviata, fino a Jago in Otello). In altri casi il baritono rappresenta l’uomo maturo e ambizioso (come Macbeth nell’opera dallo stesso titolo, Simone in Simon Boccanegra) o, raramente, l’amico del tenore (il conte di Posa in Don Carlos).
Il capovolgimento più vistoso dello schema avviene in Rigoletto dove il “cattivo” è il tenore, che pure presenta le caratteristiche di giovinezza e di passionalità, tipiche della sua voce, e dove invece il baritono assume una valenza ambigua, riscattandosi da una iniziale perfidia tramite la forza dell’amor paterno. Grande interprete di molti ruoli baritonali è Felice Varesi (1813-1893), che per primo presta la voce a Macbeth, Rigoletto e Germont.
Per quel che riguarda le voci femminili, il contralto – prediletto da Rossini – sparisce quasi del tutto, e la voce femminile per eccellenza diventa quella sopranile. Il soprano verdiano è quello che si definisce drammatico d’agilità, cioè conserva la capacità d’ornamentazione dei soprani belliniani, accompagnata da grande potenza sonora. Al soprano si contrappone il mezzosoprano, che talvolta raffigura la donna anziana come Azucena nel Trovatore, talvolta la rivale in amore come Amneris nell’Aida.
L’impianto di base del melodramma resta fondamentalmente quello rossiniano in quattro tempi, che Basevi, chiama “la solita forma” e che prevede l’alternarsi di momenti statici (numeri chiusi su versi lirici) e momenti dinamici (scene recitative in versi sciolti).
Nelle mani di Verdi come già in quelle di Donizetti, tale forma diventa più fluida, cercando di contemperare le esigenze del dramma e quelle del canto. La grande novità di Verdi è nella concisione, nella ricerca dell’asciuttezza drammatica, di quella che in una lettera ad Alberto Ghislanzoni, librettista di Aida, chiama la “parola scenica”, che “scolpisce netta la situazione”.
Le lettere ai collaboratori, specie al librettista Francesco Maria Piave, testimoniano l’estrema importanza attribuita da Verdi a questa istanza.
Come Bellini ma comunque in maniera maggiore, Verdi sceglie e impone il soggetto dell’opera. Nelle sue scelte letterarie spiccano i nomi di Schiller, Hugo e Shakespeare; pur non essendo dotato di una solida preparazione letteraria è curioso e legge molto, e la frequentazione del salotto della contessa Clara Maffei a Milano negli anni Quaranta lo introduce negli ambienti letterari, oltre che nel clima politico risorgimentale.
Una volta alle prese con il dramma originale, Verdi ne individua i nuclei drammatici, che chiama “punti” o “posizioni” e crea intorno a essi i brani musicali. La capacità drammaturgica di Verdi è impressionante; ha quasi sempre chiaro come ridurre il testo originale a libretto, cercando di conferire al tutto un’impronta unitaria, la cosiddetta “tinta”. Talvolta, insoddisfatto della stesura del librettista, propone versioni alternative e abbozza anche i versi. Nel caso del Simon Boccanegra, stende tutto l’abbozzo della sceneggiatura.