VINER, Giuseppe
– Nacque a Seravezza (Lucca) il 18 aprile 1875 da genitori fiorentini. Il padre Carlo era commerciante di marmi, mentre della madre non si conosce il nome.
Frequentò il collegio degli Scolopi a Firenze e dal 1890 la Scuola d’arte di Pietrasanta, nonostante il parere contrario del padre. Presto tornò a Firenze per frequentare la Scuola professionale delle arti decorative industriali in S. Croce; per mantenersi, nel pomeriggio lavorava come decoratore e quadratore con il maestro Giacomo Lolli. Fu un periodo di grande impegno che lo portò ad ammalarsi, facendo emergere una fragilità che lo accompagnò per il resto della vita.
Nel periodo di convalescenza si recò a studiare dal vero in Versilia. I lavori prodotti a contatto con la natura della costa toscana vennero apprezzati da Telemaco Signorini, che lo spinse a esporre alla Promotrice fiorentina del 1897, dove Viner vinse un premio di 500 lire. Si guadagnò anche la stima di Giovanni Fattori. Nel 1897 s’iscrisse alla Libera scuola del nudo all’Accademia di Firenze, nonostante il disappunto del padre che, in quanto commerciante di marmi, lo avrebbe voluto scultore piuttosto che pittore. All’Accademia conobbe e frequentò Armando Spadini, Ardengo Soffici, Giuseppe Graziosi, Giovanni Costetti, Umberto Brunelleschi, Llewelyn Lloyd. L’esperienza marcò il percorso artistico di Viner, che si nutrì al contempo degli stimoli simbolisti presenti nel contesto fiorentino sul finire del secolo, e della lezione macchiaiola, improntata su una calibrata impostazione per volumi e partiture spaziali ben definite, oltre che sul contatto con il vero che, lontano da ogni narrativa e aneddotica, rimase sempre per lui lo spunto imprescindibile da cui far procedere la creazione.
Alla scuola del nudo Viner conobbe la pittrice senese Luisa Bufalini che sposò nel 1901. Si stabilirono in un’antica torre a Lucignano Val d’Arbia presso Pienza (Siena), dove il pittore trovò quella dimensione appartata e a contatto con la natura che fu per lui sempre condizione essenziale per lavorare. Nel 1903 e nel 1904 nacquero le figlie Bona e Fiorella. Viner in questo scorcio di anni studiò anche i maestri della tradizione, apprezzando in particolare gli affreschi di Ambrogio Lorenzetti nel palazzo pubblico di Siena per la loro dimensione narrativa e la rappresentazione distesa della campagna.
Nelle opere di questi anni combinò un’adesione al vero di matrice macchiaiola con un’eleganza liberty (La carretta nell’oliveto e Ritratto di Luisa, 1902, in Giuseppe Viner, 1992, pp. 56 s., nn. 9, 12), mentre già lavorava al trittico Terra Madre: Fecondazione, Gestazione, Il frutto (pp. 63-65, nn. 17-19), in cui interessi simbolisti e plastica definizione di spazi e forme traducono un’epica del lavoro che risente della lezione di Fattori, Jean-François Millet e Constantin Meunier (v. anche i disegni preparatori e le relative incisioni: pp. 108-113, nn. 75-80).
Nel vivace ambiente culturale senese di inizio secolo, animato dal marchese Fabio Bargagli Petrucci, il pittore si aprì a correnti artistiche internazionali, attraverso la Società degli amici dei monumenti, con cui espose (1906), e le riviste Rassegna d’arte senese, Siena monumentale e Vita d’arte. All’imperante gusto liberty rispose con l’elegante lunetta per lo studio fotografico Barsotti di Firenze (ibid., p. 52, n. 4).
Partecipò in questo giro di anni a importanti esposizioni: la IV Esposizione internazionale d’arte di Venezia (1901), la I Quadriennale di Torino (1902), la mostra di palazzo Corsini a Firenze (1904), la mostra per l’inaugurazione del valico del Sempione a Milano, con il trittico Terra Madre (1906). Tali presenze furono anche occasioni di confronto con il panorama artistico nazionale, a partire dalla Quadriennale torinese, dove vide il Quarto Stato di Giuseppe Pellizza da Volpedo, ricevendone una forte impressione per la combinazione tra solidità formale, chiarezza spaziale, divisionismo della pennellata e contenuti ideali e simbolici, primo fra tutti quell’etica del lavoro cui Viner era profondamente devoto.
Si dedicò anche alla xilografia, collaborando con la rivista Leonardo, tenendo vivi i rapporti con gli amici fiorentini Giovanni Papini, Giuseppe Prezzolini, Enrico Corradini e Marcello Taddei, e insegnando acquaforte all’Accademia di belle arti di Siena.
Ma già nel 1906 la nostalgia delle Alpi Apuane lo riportò in estate in Versilia, nella villa di Castelverde presso le cave di Ceràgiola. Iniziò a dipingere cave e cavatori e a frequentare artisti come Lorenzo Viani, Plinio Nomellini, Moses Levy e personaggi come il carismatico poeta Ceccardo Roccatagliata Ceccardi, lo scrittore Enrico Pea, l’avvocato socialista Luigi Salvatori, accoliti della Repubblica d’Apua, aggregazione artistico-letteraria fondata da Ceccardi e Viani, sorta nel clima culturale e politico di quella Versilia lontana dalla moda dei bagni a mare (ibid., p. 28). Il carattere malinconico e solitario spingeva Viner a isolarsi, e, se non ebbe parte attiva nei movimenti di lotta a fianco dei cavatori, partecipò della loro dura condizione di lavoro con le sue opere sincere e prive di retorica. Fu una ricerca di assoluto, pittorico e ideale, che condusse Viner sulla montagna, nella ripetizione di scorci e scene di lavoro, oltre e attraverso le variazioni stagionali. Il tema della montagna si confaceva a una personale rielaborazione del linguaggio divisionista, alla ricerca di una saldezza formale resa, in analogia con le pietre rappresentate, attraverso consistenti masse di colore.
Nelle opere eseguite tra il 1905 e il 1910 si assiste infatti al compimento e al superamento della fase divisionista: dal bagliore evocativo di un’opera come Il pino (ibid., p. 69, n. 23) – il cui impianto spaziale rimanda alle composizioni di Nomellini e il tocco sottile e vibrante al divisionismo di Pellizza – alla dimensione domestica di La sera (ibid., p. 70, n. 21) – dal tratto più consistente e dall’impianto spaziale più raccolto –, attraverso la sperimentazione di un linguaggio nuovo in Cave di marmo (1906, Firenze, Galleria d’arte moderna di palazzo Pitti); qui lo spazio è occupato dalla parete di una cava restituita in variazioni cromatiche che vanno da un bianco violaceo ai toni arancio, con una pennellata generosa e mimetica nei confronti dei volumi delle rocce, prospettiva e spazialità sono quasi negate dal primo piano ravvicinato e l’orizzonte è relegato al bordo superiore del quadro, assolutizzando la visione della cava ed escludendo qualunque altro elemento.
Il divisionismo fu per Viner il mezzo per liberare il colore dal rigore dell’adesione al vero e renderlo vibrante ed emotivamente espressivo (Il Nona e il Matanna, 1909 circa, ibid., p. 72, n. 27), ma il pittore seppe interpretarlo senza rinunciare alla rappresentazione di volumi e profondità di campo.
Nel 1907 Viner fu presente alla VII Esposizione internazionale d’arte della città di Venezia con L’oro delle Apuane, presentato poi anche all’Esposizione universale e internazionale di Bruxelles del 1910, ove ottenne una targa di riconoscimento.
Un primo grave lutto minò la serenità del pittore: con la nascita del figlio Carlo nel 1908, la moglie Luisa morì. Dopo questo evento Viner tornò definitivamente in Versilia, lasciando l’insegnamento all’Accademia di Siena e trovando rifugio nella isolata villa di Castelverde.
Fu così che le cave e la Versilia risposero al suo bisogno di assoluto e lenirono temporaneamente le sofferenze personali, tra i monti che ne alimentarono l’insanabile struggimento di infinito, e la compagnia, seppur centellinata, del giro degli Apuani. Personaggio ispiratore di questo gruppo di intellettuali e idealisti era Giosue Carducci che Viner ritrasse in Il gigante perfetto (ibid., p. 60, n. 14). Le Apuane divennero il suo orizzonte poetico, concretizzando una comunione tra uomo e montagna che ricordava quella recente di Giovanni Segantini in Engadina. Disegnava in mezzo ai cavatori, divenendo parte del loro quotidiano: rappresentare la fatica del loro lavoro fu la via per rappresentare la sua sofferenza.
Dal 1910 fu nominato ispettore ai monumenti per la Versilia. Nel 1912 sposò la giornalista Elena Valori. Iniziò a praticare la fotografia, collezionando vari apparecchi e ritraendo le amate Apuane durante escursioni con la moglie.
Nel 1912 partecipò alla I Mostra internazionale di xilografia di Levanto, curata dall’amico Ettore Cozzani. Nel 1918 nacque il figlio Gabbro.
Il taglio fotografico fece il suo ingresso nella produzione pittorica, con opere come Agri marmiferi di Ceràgiola (1918; ibid., p. 77, n. 32), una veduta dall’alto di cui è protagonista l’effetto della luce sulle tonalità di colore. In dipinti come Il pero fiorito (1918; ibid., p. 76, n. 31) paradossalmente il confronto diretto e ravvicinato con il vero divenne lo strumento per superare liricamente l’oggettività del naturalismo.
Alla Fiorentina Primaverile del 1922 Viner espose Fecondazione, acquistata per la Galleria d’arte moderna di palazzo Pitti, e alcuni disegni, tra cui l’emblematico Orfeo cieco (ibid., p. 25). Nel 1922 Seravezza gli dedicò una mostra personale e il Comune acquistò Agri marmiferi di Ceràgiola (Seravezza, Palazzo Mediceo, Museo del lavoro). Nello stesso anno fu presente alla XIII Esposizione internazionale d’arte di Venezia con Blocchi di marmo al sole (1921; ibid., p. 85, n. 44).
Lontano dalle organizzazioni proletarie e dalle aggregazioni politiche, Viner non espresse un orientamento politico fino a quando manifestò una simpatia per il fascismo nascente, in cui vide una risposta alle tensioni sociali e alla crisi prodotta dalla guerra: nel settembre del 1923 rilasciò una dichiarazione di fede nel fascismo con una lettera di ringraziamento per l’acquisto di un quadro da parte del Comune di Seravezza. Tra le rare uscite pubbliche, nel 1923 tenne una conferenza al Palazzo Mediceo di Seravezza in cui auspicava maggiore armonia tra l’architettura medicea del palazzo e il contesto paesaggistico deturpato dalle cave, cui pure era visceralmente legato. Nello stesso anno assunse la carica di rappresentante per la Versilia all’Associazione nazionale per i monumenti pittoreschi d’Italia. Nel 1924 fu nominato soprintendente all’Ufficio esportazione oggetti d’arte della Versilia, attività ereditata dalla moglie Elena dopo la sua morte.
Nel 1923 perse il figlio Carlo per meningite, e questo provò in maniera irreversibile la sua già precaria stabilità psicologica.
Presentò La mina (1924, Firenze, Galleria d’arte moderna) alla XIV Esposizione internazionale d’arte di Venezia, dovendo combattere per una collocazione che valorizzasse l’opera e sentendosi estraneo rispetto al panorama artistico nazionale. Metaforicamente il suo isolamento fu rappresentato nel dipinto dalla chiusura sul primo piano della maestosa visuale della cava durante lo scoppio, assoluta espressione di bellezza, senza narrazione, senza contesto, composta di nuclei cromatici raffinatamente combinati in un mosaico di alto valore poetico oltre che formale.
Morì suicida il 4 ottobre 1925, con un colpo di pistola, nella casa di Castelverde. I cavatori lo portarono a spalla all’ospedale di Pietrasanta, ma il pittore morì la notte successiva. Il feretro fu accompagnato sempre dai cavatori nel cimitero di Seravezza.
Nel 1925 Cozzani dedicò un intero numero della rivista L’Eroica all’amico (XIV, n. 92) pubblicandone una raccolta di pensieri. Ugo Ojetti lo ricordò su Dedalo (1925) e l’amico Viani gli dedicò una commossa orazione tenuta in occasione dell’inaugurazione della mostra commemorativa del 1926 a Seravezza.
Fonti e Bibl.: U. Ojetti, La vita e l’opera di G. V., in Dedalo, VI (1925), pp. 480-482; Mostra retrospettiva di G. V. (1875-1925) (catal.), Carrara 1961; Mostra celebrativa del centenario di G. V.: 1875-1975 (catal.), Forte dei Marmi 1975; G. V. (catal., Seravezza), a cura di G. Bruno et al., Ospedaletto 1992; L’oro delle Apuane (catal., Seravezza), a cura di E. Dei, Pontedera 2007.