ZURLO, Giuseppe.
– Nacque a Baranello (Molise) il 6 novembre 1757, da Nicola e da Ermenegilda Iacampo, in una famiglia di media borghesia provinciale. Insieme al fratello Biase, studiò a Napoli presso lo zio materno Sebastiano Iacampo.
Inserito negli ambienti massonici, il 27 agosto 1782 era nella loggia La Vittoria con il grado di maestro. Grazie al ‘fratello’ massone cavaliere Antonio Micheroux, fu inviato in missione in Calabria dopo il terremoto del 5 febbraio 1783 come segretario del generale Francesco Pignatelli, vicario del re nella provincia, che poi lo volle nella Giunta di Calabria creata per sovrintendere alla ricostruzione, presieduta dallo stesso Pignatelli.
Preso il dottorato in legge nel 1786, nel 1789 fu promosso alla toga come giudice della Gran Corte della Vicaria, tribunale di prima istanza per le cause della città di Napoli, e d’appello avverso i tribunali provinciali. Fu anche giudice del tribunale dell’Ammiragliato, per le cause relative alle attività produttive e commerciali del mare, e via via membro del Sacro Regio Consiglio, giudice dell’udienza di Guerra e Casa Reale, avvocato fiscale nella Reale Camera della Sommaria, supremo organo consultivo e giudiziario in materia finanziaria e feudale.
Da membro di questi tribunali, conobbe da vicino il cattivo funzionamento dell’amministrazione giudiziaria del Regno di Napoli, con i suoi conflitti di competenze e la venalità dei suoi dipendenti, e si impegnò in progetti di riforma radicale. Nel 1790, come giudice della Vicaria, fu incaricato della liquidazione del demanio della regia Sila. La Relazione officiale di Giuseppe Zurlo al cavaliere Giovanni Acton ministro di sua maestà siciliana intorno allo stato in cui erano le regie Sile di Calabria nell’anno 1792 (datata ottobre 1792, ma pubblicata a Napoli solo nel 1852) fu uno dei testi che elaborò, da solo o in collaborazione con l’avvocato Carlo Romeo, per descrivere le condizioni e la natura delle terre silane, le usurpazioni e i disboscamenti compiuti dal baronaggio, dalla Chiesa, dai privati. Corredati di mappe e di tabelle anticipatrici della statistica, i testi furono pubblicati in tre volumi settant’anni dopo da Pasquale Barletta (Napoli 1862-67).
Nella Relazione Zurlo ripercorreva la storia del demanio silano e delle vertenze giudiziarie che lo avevano riguardato, e dava conto delle condizioni di miseria provocate dal baronaggio e dalle estorsioni degli esattori, che aveva direttamente riscontrato al tempo della sua missione in Calabria: «fatto assessore del Generale Pignatelli, allora Vicario di quella Provincia», «io sentii le grida di quelle popolazioni» (ed. 1852, p. 89). In base all’insegnamento degli scrittori di economia del tempo e alla convinzione che la proprietà privata fosse requisito indispensabile per lo sviluppo economico, proponeva che i demani venissero divisi e assegnati a privati, assoggettandoli all’imposta catastale ordinaria.
Amico di Giuseppe Albanese e Mario Pagano, fu sospettato di connivenze con i congiurati del 1794-95, ma riuscì a sfuggire alle inquisizioni della giunta di Stato (De Nicola, 1906, I, p. 332, II, pp. 68-70). Un anonimo sonetto datato 26 marzo 1798 celebrò la sua promozione a presidente della Sommaria e avvocato fiscale del Real Patrimonio. Alla fine dello stesso anno, fuggendo in Sicilia dopo la rovinosa spedizione contro la Repubblica romana, Ferdinando IV lo nominò direttore delle Finanze.
Il 16 gennaio 1799, sospettandolo di tradimento per delle lettere trovate in mano a un suo servitore, il popolo invase e saccheggiò la sua casa in via S. Giuseppe dei nudi e lo portò in arresto al castello del Carmine. Liberato il 22 gennaio, dopo la proclamazione della Repubblica napoletana e l’arrivo dei francesi, si ritirò a vita privata in una villa al Vomero appartenente alla famiglia Winspeare (De Nicola, 1906, I, pp. 19-21, 25 s.; Savarese, 1941, p. 34).
Caduta la Repubblica, fu confermato direttore e poi segretario delle Finanze, di Casa Reale e di Guerra e Marina, nonché membro della giunta di governo nominata dal re durante la sua breve permanenza nella rada di Napoli, tra luglio e agosto del 1799, prima di rientrare a Palermo. Occupò una posizione cruciale ma delicatissima in una fase particolarmente difficile, quella della prima Restaurazione, in assenza dello stesso sovrano, che solo nel giugno del 1802 tornò definitivamente a Napoli. La guerra aveva aggravato le condizioni economiche, le tensioni sociali e la durezza della repressione contro i repubblicani resero difficile un dialogo tra il Paese e il governo, l’ordine pubblico era lacerato dai residui delle bande realiste che esigevano ricompense per il loro operato. Fin dal luglio del 1799 Zurlo presentò un progetto di riforma dell’amministrazione provinciale incardinato sull’istituzione degli intendenti, che incontrò l’opposizione di molti esponenti delle magistrature, tra i quali Nicola Vivenzio (Villani, 1977, p. 280). Ottenne almeno che nelle province fossero inviati dei ‘visitatori economici’ per esaminare i conti dei Comuni. Fra questi fu anche il fratello Biase, che dal Molise inviò informazioni catastrofiche sullo stato delle finanze locali, soggette a malversazioni e disuguaglianze (ibid., pp. 267-270).
In una lunga Memoria sull’istituzione del porto franco inviata a John Acton il 29 gennaio 1800, Zurlo suggerì di ricorrere al porto franco per sviluppare il commercio della capitale e farla gravare meno sulle province (D’Ippolito, 2004, pp. 155-158). Si occupò poi tempestivamente della svalutazione delle carte bancali e del debito pubblico, emanando diversi dispacci, a partire dall’8 maggio 1800, in cui si assicurava a chi le avesse presentate entro quattro mesi (il 7 settembre) la conversione delle polizze di banco in titoli di credito statale. Nonostante le pressioni subite, con un nuovo dispaccio del 7 luglio informò che non si sarebbero prorogati i termini per la presentazione delle vecchie carte bancali; con altri dispacci emanò istruzioni sulle procedure da seguire. Il 14 agosto stabilì che, per ritirare le vecchie polizze, i banchi avrebbero assicurato l’apertura continua (Raccolta di reali dispacci emanati per la real Segreteria di Azienda in esecuzione, ed in seguito del real editto degli 8 del corrente maggio intorno alle carte bancali ed al nuovo conto de’ Banchi, Napoli 1800). L’operazione fu molto criticata, ma Zurlo riuscì così a evitare una clamorosa bancarotta e a porre le basi per un generale riordinamento dei banchi e della circolazione monetaria (Garofalo, 1932, pp. 14-16).
Intervenne poi nella riforma dell’Università, dove molte cattedre, particolarmente quelle scientifiche, erano rimaste prive di docenti a causa della repressione antirepubblicana. Fedele alla monarchia, Zurlo non ne condivise mai le spinte reazionarie, e rimase convinto dell’importanza della cultura per «lo bene di questo paese», come scrisse ad Acton il 13 novembre 1800 proponendo di reclutare nuovi docenti in altri luoghi d’Italia o in Germania, pur facendo attenzione a non chiamare docenti «giacobini» e a non cadere «nelle mani degl’Illuminati». Ma Acton ribadì le preoccupazioni regie nei confronti degli uomini di cultura e il piano di riforma dell’Università, che Zurlo disse essere pronto il 13 giugno 1801, non fu mai eseguito (Rao, 1986, pp. 558 s.).
Collocato nel posto chiave delle finanze, Zurlo fu facile oggetto di malcontento e calunnie. Particolarmente malevoli furono i giudizi dell’avvocato Carlo De Nicola, che nel suo Diario lo accusò di estorcere danaro dalla popolazione e riportò numerosi episodi di protesta contro di lui per le tasse, o per il ritardo nei pagamenti degli impiegati e dei militari (De Nicola, 1906, II, pp. 75, 81). Il 4 luglio 1800 apparve un manifesto che invitava il popolo a «scannarlo» in caso di rivolta, il 17 luglio un altro manifesto lo accusava di giacobinismo (I, pp. 480, 484). L’editto sulla decima lo portò allo scontro con i cavalieri del governo della città di Napoli, tradizionalmente esente dal pagamento di imposte (I, pp. 379, 384). Il 17 gennaio 1801 fu assalito da donne in tumulto, il 21 gennaio corsero voci su un suo arresto, presto smentite (II, pp. 84 s.).
La situazione finanziaria fu ulteriormente inasprita dalla pace di Firenze del 28 marzo 1801, che impose la presenza e il mantenimento in Puglia di un corpo militare francese. Zurlo non poté che introdurre nuove imposte, scegliendo però di farle gravare non sulle province, già debilitate, ma sulla capitale: lotteria forzosa, tasse su botteghe e finestre, dazio sul pesce, aumento dell’imposta sul vino e sul grano, diritto di intermediazione commerciale, imposizione della carta bollata. Continuò tuttavia a perorare le sue riforme. Il 2 gennaio 1801 scrisse ad Acton protestando per la soppressione del finanziamento previsto per le strade, ribadendo che senza interventi radicali sul sistema viario nessuno sviluppo del commercio era possibile (Villani, 1977, p. 263).
Riprese la questione in una Memoria relativa alla riforma dell’attuale sistema di publica economia ed allo stabilimento delle intendenze provinciali, datata 13 giugno 1801 (Villani, 1955, pp. 133-144), nella quale tracciava un quadro drammatico delle condizioni delle province: squilibri e disuguaglianze, abusi e usurpazioni feudali, finanze comunali dissestate, amministrazioni corrotte, attività giudiziaria lenta, farraginosa, favorevole ai potenti. Le imposte dirette e indirette scoraggiavano le attività economiche senza alimentare il fisco, a causa della corruzione degli esattori. La Camera della Sommaria era incapace di assicurare una fiscalità equilibrata e di difendere i Comuni dai baroni. I demani comunali erano «preda di ognuno» (p. 135), le competenze sui governi locali erano divise tra il Sacro Regio Consiglio e la Sommaria sicché nessuno vigilava davvero sulle elezioni e sulla vita amministrativa locale. Di qui la necessità delle intendenze provinciali e di una riforma che rendesse l’amministrazione «semplice, ed attiva» (p. 133).
Nel 1802 promosse delle inchieste sulle terre del Tavoliere di Puglia. Come nella Sila, anche qui si intrecciavano interessi del Fisco regio, giurisdizioni diversificate, usurpazioni e conflitti tra agricoltura e pastorizia: ribadì che solo redistribuire le terre a censo o in proprietà poteva riparare questi problemi plurisecolari (Villani, 1977, pp. 239-242). Sopravvenne quell’anno anche una grave carestia.
In data 27 luglio redasse una Memoria sullo Stato delle finanze del Regno (Villani 1955, pp. 145-161), che alla denuncia intrecciava intenti di radicale intervento legislativo. Ricordava gli ultimi eventi politici e le loro conseguenze economiche: «Tutto era stato distrutto dai Francesi e dall’anarchia». Tornata la pace, bisognava «riparare i cattivi effetti delle circostanze passate», ristabilire «i principii di una savia amministrazione, e soprattutto bilanciare l’introito con l’esito». I «mali straordinarii sopravvenuti all’Europa» avevano provocato miseria, disordini, insubordinazione, mancavano il commercio e la forza pubblica. Bisognava creare un fondo di ammortizzazione per estinguere il debito, come aveva già scritto ad Acton in un rapporto del 9 settembre 1800 (pp. 145 s.).
Attraverso il suo ministero Zurlo promosse un intenso lavoro di raccolta di informazioni dalle province, in base alle quali redigeva le sue memorie ed elaborava i suoi piani di riforma. A rendere unica la sua posizione rispetto ai precedenti scrittori riformatori era la sua condizione di «uomo di governo», che non si limitava a diagnosi e denunce, ma prospettava «una situazione con l’intento preciso di modificarla» (Villani, 1977, p. 272). Nelle memorie redatte tra il 1801 e il 1802 manifestò un interesse continuo anche per le arti e per la cultura, per l’istruzione pubblica, per la creazione o il potenziamento di musei, biblioteche, laboratori (p. 296).
Questo impegno gli procurò solo isolamento e contestazioni. La gravità della situazione lo indusse infine ad attingere segretamente ai depositi dei banchi, contando di riversarvi poi alcuni cespiti fiscali. La voce si sparse e molti accorsero a ritirare i loro danari (Elogio del conte Giuseppe Zurlo, 1832, pp. 15 s.). Alla data del 18 marzo 1803 De Nicola annotava: «Questa mattina è succeduta la catastrofe della caduta di Zurlo [...] La esultazione publica è indicibile». Accusato di aver provocato il vuoto dei banchi, rischiò di nuovo di essere «trascinato dal popolo» (De Nicola, 1906, II, pp. 137 s. e nota). Si ritirò a Baranello: «Ed ecco rientrato nel suo niente quell’uomo che nel giro di 49 anni, quanti ne conta di età, dal niente salito era a quel posto ove pochi arrivano, ed arrivano quando si è sul confine dell’età» (p. 141). Tornato a Napoli, alla fine di marzo fu arrestato e rimase incarcerato in Castel dell’Ovo fino all’estate del 1804. Al suo posto fu nominato Luigi de’ Medici.
Graziato nell’agosto del 1804, e dotato di una pensione annua di 3000 ducati, si ritirò a vita privata. All’avvicinarsi dei francesi, nel febbraio 1806, ritenne opportuno trasferirsi a Palermo, per «delicatezza», come spiegò più tardi in una sorta di memoria autobiografica. Temendo poi che le misure di confisca dei beni degli emigrati emanate dai francesi potessero danneggiare la sua famiglia, rientrò a Napoli (Savarese, 1941, p. 114).
Nella stessa memoria giustificativa del suo operato agli occhi del Borbone, spiegava che la fine dell’epoca rivoluzionaria, la relativa stabilità raggiunta dall’assetto europeo con la Pace di Tilsit (8-9 luglio 1807), non solo, ma anche le condizioni in cui versava per la perdita della sua pensione, lo avevano indotto ad accettare nel gennaio del 1808 la carica di consigliere di Stato (p. 119). Ritenuto da alcuni l’autore dello statuto emanato a Baiona da Giuseppe Bonaparte il 20 giugno 1808 (Garofalo, 1932, p. 22; Masciotta, 2007, p. 74), con l’avvento al trono di Gioacchino Murat Zurlo divenne uno dei suoi più stretti collaboratori e «uno dei principali costruttori dello Stato amministrativo» (Villani, 1977, p. 274), quello Stato che aveva disegnato e tenacemente ma invano perseguito nei decenni precedenti con i Borbone.
Nominato commendatore il 26 giugno 1808 (De Nicola, 1906, II, p. 411), nel febbraio del 1809 divenne ministro di Giustizia e del Culto. Nei pochi mesi di questo suo ministero, intervenne in materia di divorzio, contro l’opposizione del clero, e di diritto di famiglia, indirizzando al procuratore generale presso la corte d’appello una memoria a stampa, datata 25 settembre 1809, in cui sostenne la parità di diritti alla successione ai genitori tra femmine e maschi e dunque la nullità delle rinunzie delle femmine alla successione previste dalle vecchie norme. Il 5 novembre divenne ministro dell’Interno, incarico che tenne fino al maggio del 1815. Soprattutto in questo ministero poté svolgere appieno la sua azione riformatrice al servizio dello Stato.
Si occupò subito di istruzione pubblica, fin dal novembre del 1809, ma solo dopo lunghi dibattiti, che lo videro in contrasto con Vincenzo Cuoco, il suo piano portò al Decreto organico del 22 novembre 1811. Fra i suoi compiti rientrava la redazione di relazioni periodiche sull’azione di governo, che sono testimonianza straordinaria del suo impegno, oltre che della vita politica e amministrativa di quegli anni.
Nel Rapporto sullo stato del Regno di Napoli dopo l’avvenimento al trono di S.M. il re Gioacchino Napoleone Per tutto l’anno 1809. Presentato al re nel suo consiglio di stato dal ministro dell’interno, pubblicato nel 1811 dalla tipografia di Angelo Trani, in cinquantotto pagine tracciava il «quadro di un’amministrazione che sorge», costretta a confrontarsi con le resistenze degli interessi privati e con la forza delle abitudini, e in circostanze politiche difficili, rese ancora incerte dal contesto internazionale (pp. 3 s.). Di qui la lentezza dell’avvio di nuove istituzioni e la necessità di segnalare non solo i successi ma anche i limiti delle riforme.
Notevoli progressi si erano avuti nell’ambito dell’organizzazione militare e dell’ordine pubblico, del sistema giudiziario e dell’ordine ecclesiastico, con la soppressione dei regolari. Molto ampia era la parte dedicata all’applicazione della legge feudale, che gli offriva spunto per un inquadramento storico della questione. Dopo la legge del 2 agosto 1806, «la feudalità parve per molto tempo abolita di solo nome», e già solo per aver portato felicemente a termine l’operato della Commissione feudale Gioacchino Murat meritava il titolo di «Padre della Patria» (p. 24). Ancora incompiuta, invece, era l’opera di divisione dei demani: sorti «sulla distruzione delle proprietà private», dovevano cessare ora che «tutte le leggi spirano favore per la proprietà, e per l’industria» (p. 32). Illustrava la situazione dell’istruzione pubblica, degli scavi di Pompei, delle Accademie, del Collegio di musica, le opere pubbliche realizzate in una capitale che conteneva la nona parte della popolazione del Regno (p. 42), e quelle compiute nelle province, le strade, le bonifiche. Ricordava infine le arti e manifatture, il commercio, le opere di beneficenza, le prigioni.
Il nuovo Rapporto sullo stato del Regno di Napoli per gli anni 1810, e 1811 presentato al Re nel suo Consiglio di Stato dal ministro dell’interno, datato 20 aprile 1812 e pubblicato nello stesso anno nella tipografia di Angelo Trani, ancora più ampio di quello precedente (novantatré pagine) aggiornava il bilancio delle riforme realizzate.
Tornava ad attaccare la Sommaria, incapace di provvedere alla buona amministrazione dei Comuni, mentre giudicava felicemente concluso l’operato della Commissione feudale, che era riuscita a porre fine alle liti provocate dalle leggi abolitive e a recuperare i beni usurpati. Nel campo dell’istruzione pubblica vi erano ora le scuole primarie, i collegi e i licei; nell’Università erano state introdotte nuove discipline, erano state istituite la scuola ingegneristica di ponti e strade e la scuola di arti e mestieri, nuove biblioteche e società letterarie. Nel settore dell’industria e commercio si erano realizzati molti progressi: una nuova legge sulla direzione forestaria, una fabbrica di panni nell’isola di Sora, una manifattura dei vetri, abolizione delle dogane interne. Ugualmente importanti i lavori pubblici realizzati nella capitale e nelle province. Significativa la sua posizione in materia di culto: «La religione è la sola che sostiene la forza delle leggi, dove esse combattono l’interesse privato, e che le supplisce dove esse non giungono ad arrestare il male» (p. 81).
Vicinissimo a Gioacchino Murat, che lo volle con sé nei suoi viaggi nel Regno, in Calabria nel 1810, in Puglia nel 1813, l’ostilità della carboneria verso il re e i suoi ministri colpì anche lui, e fu di nuovo bersagliato da satire e denunce, anche per la sua amicizia con Marianna Winspeare, sorella di Davide e moglie di Luigi Savarese, famiglie che si disse fossero da lui favorite (De Nicola, 1906, II, pp. 651-653). Quando Murat nel gennaio del 1814 prese accordi con l’Austria nel tentativo di evitare che il Regno di Napoli fosse travolto dalla fine dell’Impero napoleonico e partì in guerra lanciando appelli per un’Italia unita, anche Zurlo partì per l’Abruzzo. In maggio era di nuovo a Napoli, giudicato «testa vesuviana» dal solito De Nicola (III, p. 684) e fu coinvolto nella preparazione di un progetto di costituzione avviata da Murat (Valente, 1965, p. 365). Dopo la fuga di Napoleone dall’isola d’Elba e il suo ritorno in Francia, nel febbraio del 1815, Zurlo, che si era pronunciato contro l’intesa con l’Austria, ora si espresse invece per rispettarla (p. 369).
Fallito il progetto di Murat di sollevare l’Italia intera, Zurlo partì per Trieste con Carolina Murat e l’amico Davide Winspeare. Da Padova il 6 settembre 1815 inviò al re un atto di sottomissione, che non ebbe alcun esito. Andato a Vienna, ragioni di salute lo indussero a tornare in Italia, e da Venezia il 18 febbraio 1817 inviò una nuova memoria giustificativa del suo operato chiedendo di rientrare a Napoli. Dopo un periodo a Roma, fu infine riammesso, ma visse in disparte fino a quando nel breve periodo costituzionale del 1820 fu richiamato al ministero dell’Interno e fu stretto collaboratore del vicario Francesco di Borbone.
Ma fu attaccato dai carbonari e dai liberali che lo considerarono come un uomo del passato, estraneo al nuovo costituzionalismo. De Nicola alla data del 20 agosto 1820 registrava la notizia che era in vendita una vita di Zurlo degli scrittori costituzionali «sparsa di fiele» (De Nicola, 1906, III, p. 200). In data 14 settembre, presso lo stampatore Manfredi, uscì il Rapporto del signor conte Zurlo Sopra i libelli pubblicati contra di lui seguito da un decreto di Sua Altezza Reale il Vicario generale.
Poche pagine, per spiegare che i libelli non ricadevano nelle recenti misure repressive della libertà di stampa emanate il 7 agosto, perché avevano incominciato a circolare prima di questa data. Anche se ne erano «state piene la città e le provincie», Zurlo dichiarava di non sentirsi «toccato dalle malignità de’ suoi detrattori», «uomini oscuri, che tessono calunnie nel silenzio» (pp. 4 s.). Allegava un progetto di decreto che aboliva «ogni procedimento e pena contra gli autori de’ libelli pubblicati contro alla persona del Conte Zurlo, e di tutti i membri della Giunta Provvisoria di Governo» (p. 3).
Tra le memorie pubblicate contro di lui nel 1820, le Notizie sulla condotta politica di Giuseppe Zurlo addirittura addebitavano a intenti dispotici la battaglia antifeudale che aveva tenacemente sostenuta: «Cospirò con energia all’abolizione della feudalità, ma solamente nel disegno di sciogliere il Re dalla soggezione de’ Baroni, e di togliere questo corpo intermedio per rendere più arbitraria e senza ostacoli la volontà del Despota» (Rao, 1997, p. 358 nota).
Suo il discorso pronunciato dal vicario Francesco di Borbone per la solenne apertura del Parlamento nazionale del 1° ottobre (Garofalo, 1932, p. 65). Seguì un minuzioso Rapporto al Parlamento Nazionale sulla situazione del Ministero degli affari interni, Letto dal Ministro nel Giorno 23 ottobre 1820 di centoquarantotto pagine, corredate di tabelle.
Significativo l’esordio, che affermava la necessità della storia per poter comprendere lo stato dell’amministrazione del Regno e arrivare alla «verità» di come si fosse passati da una condizione «compassionevole», in cui tutto era accentrato nella capitale e le funzioni erano confuse, all’attuale sistema di separazione delle finanze dalla giustizia e di articolazione provinciale, realizzato grazie ai francesi ma anche ai progetti riformatori settecenteschi di uomini come Giuseppe Palmieri e Gaetano Filangieri (pp. 1-5). Ulteriori modificazioni si rendevano ora necessarie per mettere «in armonia» queste leggi con la «nostra Costituzione politica» (p. 12).
In tempi in continuo mutamento Zurlo confermò la sua capacità di produrre con grande rapidità delle relazioni di governo ricche di dati e ancorate a una densa prospettiva storica. Fermissima restò la sua idea di uno Stato amministrativo decentrato, articolato intorno alle intendenze. In un nuovo discorso al Parlamento del 18 novembre intervenne sulle deputazioni provinciali, ma fu accusato di atti incostituzionali. L’8 dicembre presentò al Parlamento il messaggio con cui il re rendeva note le decisioni delle potenze alleate di riunirsi a Troppau per decidere su Napoli e chiedeva di recarsi al congresso. Per averlo diffuso prima della sua approvazione, accusato di cospirazione, fu costretto a rifugiarsi su una fregata francese che era in rada (Savarese, 1941, p. 97). L’11 dicembre si dimise.
Finì così la sua lunga attività di uomo di governo. Da tempo malato, visse da allora in disparte. Socio dell’Accademia delle scienze, ne fu dal 1827 il presidente. Povero e indebitato, a Teodoro Monticelli, che ne era il segretario, scrisse di non poter partecipare alle sedute solenni per mancanza di abiti adatti (D’Ippolito, 2004, pp. 22 s.).
Morì a Napoli il 10 novembre 1828.
Fonti e Bibl.: Archivio di Stato di Napoli, Collegio dei Dottori, 106/131. Nello stesso Archivio, in numerose serie (Esteri, Finanze, Archivio Borbone), si conserva la ricchissima documentazione prodotta nel corso dei suoi incarichi di governo. Sue memorie sono pubblicate in Villani, 1955, pp. 133-161 e D’Ippolito, 2004, pp. 187-215. Il carteggio con il vicario Francesco di Borbone tra luglio e dicembre del 1820 è pubblicato in Garofalo, 1932, pp. 99-126. Le lettere a Monticelli sono nella Biblioteca nazionale di Napoli.
Per la promozione del signor D. Gioseppe Z. alla carica di Presidente della Regia Camera ed avvocato fiscale del Regal Patrimonio, Napoli 1798; Elogio del conte G. Z. ordinato dall’Accademia delle Scienze della Società Reale Borbonica, letto nella tornata del dì 17 del 1832 dal commendatore Gaspare Capone socio ordinario della stessa accademia..., Napoli 1832; C. De Nicola, Diario napoletano 1798-1825, Napoli 1906, rist. a cura di R. De Lorenzo, Napoli 1999, I-III, ad ind.; P. Pieri, Il Regno di Napoli dal luglio 1799 al marzo 1806, in Archivio storico per le province napoletane, n.s., XII (1926), pp. 5-163 (in partic. pp. 120-163), XIII (1927), pp. 136-286; L. Garofalo, G. Z. (1759-1828), Napoli-Città di Castello 1932; G. Savarese, Tra rivoluzioni e reazioni. Ricordi su G. Z. (1759-1828), a cura di A. Romano, Torino1941; P. Villani, G. Z. e la crisi dell’antico regime nel Regno di Napoli, in Annuario dell’Istituto storico italiano per l’età moderna e contemporanea, VII (1955), pp. 55-168; A. Valente, Gioacchino Murat e l’Italia meridionale, Torino 1965, ad ind.; P. Villani, Mezzogiorno tra riforme e rivoluzione, Roma-Bari 1977, pp. 213-330; A.M. Rao, La prima restaurazione borbonica, in Storia del Mezzogiorno, IV, 2, Roma 1986, pp. 541-574; Ead., L’«amaro della feudalità». La devoluzione di Arnone e la questione feudale a Napoli alla fine del ’700, Napoli 19972, ad ind.; F.E. D’Ippolito, L’amministrazione produttiva. Crisi della mediazione togata e nuovi compiti dello Stato nell’opera di G. Z. (1759-1828), Napoli 2004; G. Masciotta, G. Z. Un uomo di Stato (1757-1828), introduzione di L. Biscardi, Campobasso 2007; R. Di Castiglione, La Massoneria nelle Due Sicilie e i «fratelli» meridionali del ’700, II, Roma 20082, pp. 390-394.