Giusnaturalismo e giuspositivismo
La storia del pensiero giuridico occidentale, dai Greci sino a oggi, è dominata dalla distinzione fra due specie di diritto: il diritto naturale e il diritto positivo. Da questa distinzione traggono il nome le rispettive scuole o dottrine del giusnaturalismo e del positivismo giuridico (o giuspositivismo).Il diritto naturale, contrapposto al diritto positivo, riceve il suo significato dal termine 'natura', intesa originariamente e prevalentemente come l'insieme degli enti che hanno in se stessi, secondo la definizione di Aristotele (Metafisica, 1015 a), il principio del loro movimento, nascono, si sviluppano, in conformità a leggi non poste né modificabili dall'uomo. A questi si contrappongono gli enti prodotti dal fare dell'uomo. Quando, agli albori della riflessione dell'uomo sul mondo che lo circonda, questi comincia a prendere coscienza della sua posizione nell'universo, scopre che la prima e più evidente distinzione tra gli enti che gli è dato osservare è fra quelli che sono esistiti prima dell'apparizione dell'uomo sulla terra e continueranno a esistere anche quando l'uomo non esisterà più, come il sole, le stelle, la terra, il mare, le piante, e quelli che esistono solo in quanto esiste l'uomo che li ha prodotti, come le case, le armi, gli utensili, gli indumenti. Tutti i concetti antitetici a quelli di natura hanno sempre la stessa ragione d'essere e la stessa funzione conoscitiva: contrapporre un universo che l'uomo produce e in quanto produce è in grado di riprodurre, manipolare, distruggere, all'universo che l'uomo trova già fatto al di fuori di sé e alle cui leggi gli è necessario sottostare. Così si contrappongono le cose naturali alle cose artificiali prodotte dall'arte o dalla tecnica. Ma tra le cose artificiali ci sono anche i costumi e le regole sociali, che infatti cambiano secondo i tempi e i luoghi. Di qua l'ulteriore distinzione fra ciò che è per natura e ciò che è per convenzione. Usando la terminologia oggi corrente, secondo cui all'universo della natura si contrappone l'universo della cultura, la distinzione tra le due specie di diritto si risolve nella distinzione fra il diritto che appartiene all'universo della natura e il diritto, chiamato in seguito diritto positivo, che appartiene all'universo della cultura.
Quando i Greci si posero il problema del diritto, come anche quello del linguaggio, lo posero in questi termini: il diritto è per natura o per convenzione? Questa domanda voleva dire che, oltre le cose che non possono essere considerate se non naturali, come la montagna o il bosco, e altre cose che non possono essere considerate se non artificiali, come la freccia e la statua, vi erano anche cose come il diritto, e in generale le regole della convivenza, la cui appartenenza all'una o all'altra categoria non era così evidente, apparendo le regole consuetudinarie, che allora erano molto più numerose di adesso, naturali, e le regole poste da un legislatore o dalle assemblee popolari, artificiali. La risposta fu che il diritto è tanto naturale quanto convenzionale. Da questa risposta è nata la grande dicotomia che, pur attraverso mille peripezie, interpretazioni molteplici e controverse, rapporti reciproci ora pacifici ora antagonistici, è arrivata sino a noi.
Dopo l'avvento del cristianesimo, prevalendo una visione religiosa del mondo e dell'uomo, la natura, considerata come il prodotto della potenza creatrice di Dio, rappresenta ancora una volta l'universo degli enti non prodotti dall'uomo che, in quanto tale, si contrappone ai prodotti delle arti e delle convenzioni umane. Il diritto naturale diventa allora o il diritto iscritto da Dio nel cuore degli uomini o la legge rivelata nei Testi Sacri o la legge comunicata da Dio agli uomini, esseri razionali, attraverso la ragione.All'inizio dell'età moderna, quando per natura si intende l'universo regolato da leggi universali nella loro estensione spaziale e temporale, e necessarie, quindi immodificabili dall'uomo, il diritto naturale viene interpretato come l'insieme delle regole di condotta che possono venir dedotte da quest'ordine e sono conoscibili attraverso la ragione.In conclusione, dopo il diritto naturale-consuetudinario, la cui origine si perde nella notte dei tempi, degli antichi; dopo il diritto naturale-divino degli scrittori medievali, nell'età moderna il diritto naturale-razionale rappresenta la nuova raffigurazione di un diritto non prodotto dall'uomo, e che, proprio per la pretesa di essere sottratto ai mutamenti della storia, pretende anch'esso di avere validità universale e quindi maggiore dignità del diritto positivo.
La più antica e celebre distinzione tra diritto naturale e diritto positivo è in Aristotele: "Del giusto politico ci sono due specie, quella naturale e quella legale. È naturale il giusto che ha dovunque la stessa potenza e non dipende dal fatto che venga o non venga riconosciuto; legale, invece, è quello che originariamente è del tutto indifferente che sia in un modo piuttosto che in un altro, ma che non è più indifferente, una volta che è stato stabilito" (Eth. Nic., 1134 b). Il diritto naturale vi è definito attraverso due caratteristiche: 1) è dappertutto, il che vuol dire che la sua potenza, ovvero la sua validità e la sua efficacia, sono universali, al pari del fuoco, come si legge poco più oltre, che brucia ovunque nello stesso modo; 2) vale indipendentemente dal fatto che sia o che non sia riconosciuto, il che significa che vale oggettivamente. Il diritto positivo, che qui viene chiamato legale, cioè posto per legge, è caratterizzato non attraverso l'antitesi alla prima caratteristica, anche se si può sottintendere facilmente che esso non vale "dappertutto", ma varia da luogo a luogo, bensì in base alla seconda: accanto alle azioni regolate dal diritto naturale, e quindi non dipendenti dal nostro giudizio e, in quanto tali, buone o cattive in se stesse, vi è l'ampia sfera delle azioni indifferenti che sono libere, ma diventano obbligatorie o proibite in quanto così sia stabilito da una legge posta da un'autorità superiore, cioè da una legge che oggi chiamiamo 'positiva'. L'esempio che lo stesso Aristotele adduce dopo la definizione è chiaro: sacrificare a Zeus una capra o due pecore è un'azione indifferente prima che sia stata emanata da quella certa autorità, in quel certo luogo e in un certo momento del tempo, una legge che imponga un tipo di sacrificio piuttosto che un altro.
Tra i passi introduttivi del Digesto, che propongono preliminari distinzioni fra varie specie di diritto, il più noto è quello di Paolo (D., 1, 1, 11) che così si esprime : "Jus pluribus modis dicitur: uno modo, cum id quod semper aequum et bonum est jus dicitur, ut est jus naturale, altero modo, quod omnibus aut pluribus in quaque civitate utile est, ut est jus civile". Qui i criteri di distinzione sono di nuovo due, ma diversi da quelli aristotelici: 1) il diritto naturale è universale, però non rispetto ai luoghi (il "dappertutto" di Aristotele) ma rispetto al tempo ("semper"), mentre, per contrasto, il diritto, non ancora detto positivo, civile, cioè relativo a una civitas, è mutevole di tempo in tempo; 2) in quanto il diritto naturale è ispirato al buono e al giusto e il diritto civile all'utile di una determinata città, ciò che li distingue è un criterio di valore, cioè il diverso bene dall'uno e dall'altro tutelato, rispettivamente, la giustizia e l'utilità, due beni spesso in contrasto, uno universale, l'altro particolare, per cui non sempre è utile ciò che è giusto, e non sempre è giusto ciò che è utile.
La prima volta, pare, che il diritto contrapposto al diritto naturale viene chiamato 'positivo', non più 'legale', come in Aristotele, non più 'civile', come nel Digesto, è in un passo del Dialogus inter philosophum, judaeum et christianum di Abelardo: "Jus aliud naturale, aliud positivum dicitur", ove il diritto positivo viene definito, in contrasto con quello naturale, "illud quod ab hominibus institutum", sia attraverso una consuetudine ("aut sola consuetudine"), cioè come il diritto che i giuristi definivano abitualmente 'non scritto', sia attraverso l'autorità di un dettame scritto ("aut scripti auctoritate"). Il criterio fondamentale della distinzione è in questo caso quello che è andato, come vedremo, prevalendo: il diritto positivo è il diritto posto dagli uomini in contrasto con il diritto non posto dagli uomini, che a questi viene imposto da qualcuno o qualcosa che li trascende, Dio o la natura, dove Dio rappresenta il creatore, la natura la realtà da Dio creata.
Che col cristianesimo il contrasto fra diritto naturale e diritto positivo si risolva in quello tra il diritto posto da Dio, o rivelato per suo tramite attraverso la natura, e il diritto posto dagli uomini è detto chiaramente nel Decretum Gratiani (XII secolo), nella cui prima Distinctio, intitolata De jure naturae et constitutionis, si legge: "Jus naturale est quod in Lege et in Evangelio continetur", dove per Lex s'intende il Vecchio Testamento e per Evangelium il Nuovo. In tal modo la legge naturale viene interamente identificata coi dieci comandamenti e coi precetti morali predicati da Cristo. Di particolare importanza per la secolare controversia tra giusnaturalisti e positivisti è l'affermazione esplicita, che non si trova né nel passo aristotelico né in quello del giurista romano Paolo, della superiorità del diritto naturale sul diritto positivo: "Dignitate vero jus naturale simpliciter praevalet consuetudini et constitutioni", donde la conseguenza di enorme importanza pratica, come si può bene immaginare, che qualsiasi consuetudine o legge scritta contraria al diritto naturale deve essere considerata invalida ("vana et irrita sunt habenda").
La concezione classica e insuperata del giusnaturalismo cristiano, cui hanno continuato a ricollegarsi anche scrittori moderni e contemporanei, è quella che san Tommaso espone in alcune quaestiones della Summa theologica (Prima Secundae, 90, e ss.). Vi sono definite quattro forme di leggi: eterna, naturale, umana, divina. Mentre la legge eterna è la ragione divina che governa il mondo e la legge divina è la legge data direttamente da Dio agli uomini in circostanze eccezionali - ma né l'una né l'altra qui ci interessano - la legge naturale e la legge umana corrispondono alla distinzione fra diritto naturale e diritto positivo. La prima è definita: "Partecipatio legis aeternae in rationali creatura", vale a dire è la manifestazione dell'ordine cosmico creato da Dio in quel particolare prodotto della creazione che è l'uomo, essere dotato di ragione, cioè di una facoltà che gli permette di giudicare liberamente del bene e del male. Consta di un solo precetto generalissimo: "Bonum faciendum et male vitandum". La seconda, che Tommaso chiama anche "humanitus posita", consta dei precetti che l'uomo con la sua ragione ricava dal precetto generale allo scopo di regolare caso per caso la sua vita di relazione. Il passaggio dalla legge naturale alla legge umana può avvenire in due modi: per conclusionem, cioè nello stesso modo con cui si traggono logicamente conclusioni necessarie da principî evidenti (ad esempio, la norma positiva di non dire falsa testimonianza si deduce dalla legge naturale generalissima che prescrive di dire la verità); per determinationem, quando la legge umana stabilisce come una legge naturale generale debba essere applicata (per esempio, la legge naturale stabilisce che i delitti debbono essere puniti, ma è solo la legge umana che stabilisce la misura e le modalità della punizione).
Rispetto alla definizione aristotelica, per cui diritto naturale e diritto positivo si estendono su due sfere diverse della condotta umana, la sfera delle azioni moralmente obbligatorie e quella delle azioni moralmente indifferenti, la definizione di Tommaso parte dalla considerazione che l'intera sfera della condotta umana cade sotto il dominio della legge naturale, e il diritto positivo altro non è che uno svolgimento interno della massima generale del diritto naturale allo scopo di adattarla ai casi concreti.Per quel che riguarda il problema assiologico del rapporto fra diritto naturale e diritto positivo, il pensiero di Tommaso è destinato a diventare il punto di riferimento dei giusnaturalisti successivi, quasi un ipse dixit ripetuto all'infinito ogniqualvolta si è voluto affermare, insieme con la superiorità del diritto naturale su quello positivo, l'invalidità di una legge positiva contraria alla legge naturale: la legge umana è vera e propria legge, cioè ha vigore di legge, solo in quanto deriva dalla legge di natura. Se non concorda con essa, "non erit lex sed legis corruptio" (Summa theol., q. 95, art. 2). Ciò vuol dire che per una legge positiva la conformità alla legge naturale è condizione di validità.Per comune opinione, se pure più volte contestata, il giusnaturalismo moderno viene fatto cominciare da Ugo Grozio. Per il quale, a fondamento della distinzione, sta la contrapposizione tra ragione e volontà. Il diritto naturale consiste in dettami della retta ragione, la quale ci fa conoscere che le azioni sono naturalmente buone o turpi secondo che siano o non siano conformi alla stessa natura razionale dell'uomo, e quindi sono obbligatorie o illecite per se stesse. Il diritto naturale si differenzia non solo dal diritto umano, ma anche dal diritto divino, che, come il diritto umano volontario, non comanda o vieta azioni che siano di per se stesse obbligatorie o illecite, ma le rende illecite col vietarle e obbligatorie col prescriverle. È immutabile al punto che non può essere modificato neppure da Dio. In opposizione al diritto naturale razionale c'è il diritto volontario positivo, che si distingue a sua volta nel diritto civile, che riceve forza dal potere civile o politico, in un diritto meno esteso che è il diritto familiare, e in uno più esteso che è il diritto delle genti, che solo molto più tardi sarà chiamato diritto internazionale.
Riassumendo, i diversi criteri di distinzione fra i due diritti, rilevati in questo breve excursus storico, si possono fissare nei seguenti punti: 1) rispetto al soggetto o all'autore dell'uno o dell'altro, il diritto naturale deriva da Dio o dalla natura, mentre il diritto positivo deriva da un legislatore umano; 2) rispetto al fondamento il primo è razionale, il secondo è volontario, onde l'uno viene conosciuto attraverso la ragione, il secondo empiricamente attraverso le dichiarazioni espresse da un'autorità costituita oppure attraverso il manifestarsi di una volontà tacita; 3) riguardo al contenuto, ossia ai comportamenti dall'uno e dall'altro regolati, quelli regolati dal diritto naturale sono buoni o cattivi in se stessi, quelli regolati dal diritto positivo sono buoni in quanto comandati, cattivi in quanto proibiti; 4) rispetto alla loro estensione, il diritto naturale è universale nello spazio e immutabile nel tempo, mentre il diritto positivo vale in uno spazio circoscritto e muta nel tempo.Questi criteri di distinzione sono cumulativi, non si escludono a vicenda. È conveniente considerarli tutti insieme anche se non è detto che tutti insieme siano parimenti accolti da tutti gli autori.
Dal contrasto fra le due specie di diritto deriva il contrasto fra le dottrine che hanno preso il nome di giusnaturalismo e positivismo giuridico, contrasto che ora può essere definito in questo modo. Per giusnaturalismo si intende quella corrente di pensiero giuridico che ha costantemente, se pure interpretate in diversi modi, queste due caratteristiche: 1) esistono tanto il diritto naturale quanto il diritto positivo; 2) il diritto naturale è assiologicamente superiore al diritto positivo. Per positivismo giuridico s'intende quella corrente di pensiero giuridico che non ammette l'esistenza di un diritto naturale accanto al diritto positivo e sostiene che non esiste altro diritto che il diritto positivo. Si osservi l'asimmetria delle due definizioni: mentre il giusnaturalismo afferma l'esistenza di entrambi i diritti ma insieme la differenza di grado, il positivismo giuridico afferma del diritto positivo rispetto al diritto naturale non la superiorità ma la esclusività. Il giusnaturalismo è dualistico, il positivismo giuridico è monistico.
Contrariamente a quello che di solito si ritiene, giusnaturalismo e positivismo giuridico non sono le sole possibili concezioni generali del diritto. Se ne possono ipotizzare altre tre: 1) diritto naturale e diritto positivo esistono entrambi ma in rapporto di indipendenza reciproca o di indifferenza: quando Aristotele, come si è detto, afferma che nel giusto politico una parte è naturale e un'altra legale, distingue e delimita due sfere normative diverse per l'ambito e il fondamento di validità, ma non necessariamente contrapposte e tanto meno escludentisi a vicenda; 2) esiste solo il diritto naturale e il diritto positivo è una derivazione del primo attraverso l'autorità di un legislatore legittimo: in una posizione di questo genere si può far rientrare la teoria di Tommaso per cui il diritto umano procede da quello naturale; 3) diritto naturale e diritto positivo esistono entrambi, ma il secondo è superiore al primo: rientrano in questa concezione, che si può chiamare di positivismo aperto o limitato, quegli autori che ammettono il diritto naturale ma non gli riconoscono altra funzione che quella di integrare il diritto positivo in caso di lacuna, così che il diritto naturale viene espulso dal sistema e vi rientra solo eccezionalmente, come una specie di serbatoio di riserva per le decisioni del giudice.
Nella contrapposizione tra i due diritti non entra soltanto, come si è visto sinora, la differenza dei due aggettivi, naturale e positivo, ma anche il diverso significato che ha nelle due espressioni il termine 'diritto'. La definizione che ne dà il giusnaturalismo è una definizione persuasiva, ovvero una definizione che contiene un giudizio di valore, per cui 'diritto' è l'insieme delle norme buone o giuste che regolano, o dovrebbero regolare, la convivenza degli uomini, e se non sono buone o giuste non meritano il nome di diritto. Secondo il positivismo giuridico, invece, è diritto l'insieme delle norme che regolano di fatto, indipendentemente dalla loro qualità morale, una determinata società storica. Un termine di valore come 'buono' o 'giusto' non è in questo caso un elemento della definizione. Ciò che fa essere diritto l'insieme delle norme che regolano di fatto una determinata società è la sua validità, la conformità di queste norme a una costituzione, scritta o non scritta, la quale a sua volta trae il proprio fondamento ultimo dall'essere abitualmente ubbidita e, quindi, efficace.
Questa precisazione serve a spiegare le ragioni principali del contrasto perenne tra giusnaturalisti e positivisti, contrasto particolarmente intenso nei momenti di trapasso da un vecchio a un nuovo ordinamento, per cui, da un lato, è empiricamente osservabile che il nuovo diritto nasce da un fatto, dall'altro, il vecchio viene delegittimato pur avendo avuto anch'esso in un fatto precedente la causa ultima della propria legittimità. Questa legittimazione puramente fattuale condurrebbe a insanabili aporie che, secondo i giusnaturalisti, possono essere risolte soltanto attraverso una concezione del diritto per cui non basta, affinché si possa parlare nel senso eulogico della parola 'diritto', che sia valido ed efficace, ma è necessario anche che sia giusto, e quindi può accadere che il vecchio ordinamento, pur essendo stato abitualmente ubbidito e considerato per un certo periodo valido ed efficace, non possa più essere considerato tale in tutti quei casi in cui i principî universali del diritto naturale non siano stati rispettati.
Da questo punto di vista il vecchio diritto può essere considerato non più diritto, così come il nuovo può essere considerato non ancora diritto, in attesa che la legittimazione secondo il fatto sia in qualche modo corroborata da una legittimazione secondo il valore. Dall'altra parte, dalla parte dei positivisti, si controbatte sostenendo che una cosa è il giudizio morale, altra cosa il giudizio di stretto diritto, e che, se è vero che l'uno non esclude l'altro, è altrettanto vero che la definizione persuasiva di diritto propria del giusnaturalismo conduce ad aporie altrettanto gravi, come quella di non rispecchiare ciò che avviene di fatto nella pratica dei tribunali dove il giudice dello Stato moderno giudica secondo il diritto che è, non secondo quello che deve essere.
La definizione asettica di diritto, propria dei positivisti, serve poi a spiegare che cosa si intende dire quando si afferma che il positivismo giuridico è quella concezione del diritto per cui esiste soltanto il diritto positivo. S'intende dire che per il positivismo giuridico è diritto nel senso proprio della parola soltanto l'insieme delle norme di un ordinamento valido ed efficace, e il diritto naturale non è, secondo questa definizione, diritto in senso proprio, e può essere ritenuto tutt'al più come un diritto in fieri, l'esigenza di un diritto che sarebbe bene diventasse valido ed efficace, ma che il solo fatto di essere affermato come esigenza non impedisce che sia valido ed efficace un diritto che questa esigenza non soddisfa. Il giurista che rifiuta di riconoscere al diritto naturale il carattere di diritto in senso proprio non si pronuncia sull'esistenza o meno di ciò che viene chiamato diritto naturale, ma semplicemente constata che, posto che esista, non è diritto alla stessa stregua del diritto positivo. Ciò che secondo un positivista manca al diritto naturale è l'effettività. E il diritto naturale non è effettivo perché è disarmato. Ma nel momento in cui viene armato, vale a dire viene a far parte di un ordinamento in cui può essere fatto valere mediante la coazione, diventa diritto positivo.
Come tutti i giusnaturalisti, Kant distingue lo stato di natura retto soltanto dalle leggi naturali dallo stato civile regolato dal diritto positivo. Chiama il primo "provvisorio", il secondo "perentorio". Sulla scia di Kant si può dire che ciò che distingue il diritto positivo dal diritto naturale è la perentorietà.Storicamente, giusnaturalismo e positivismo giuridico si rincorrono l'un l'altro dall'inizio dell'età moderna in poi. Quando il secondo sembra trionfare, il primo rinasce. Alla fine della prima guerra mondiale, Julien Bonnecase, condannando tutta la scienza giuridica tedesca che aveva subordinato il diritto alla forza, attribuisce la vittoria degli Alleati al non avere tradito l'idea eterna del diritto naturale (cfr. La notion de droit en France au dix-neuvième siècle, Paris 1919); non altrimenti negli stessi anni Ernst Troeltsch, considerando l'idea del diritto naturale la più alta espressione del pensiero politico europeo, rimproverava alla filosofia tedesca di aver esaltato la forza dopo aver abbandonato la fede in quell'idea. Alcuni anni dopo, il più illustre filosofo del diritto "rancese, François Gény, tesseva l'elogio dell'"rréductible droit naturel", contro gli stessi giuristi francesi infetti di positivismo. Gustav Radbruch, relativista nel suo trattato di filosofia del diritto del 1932, si converte al giusnaturalismo dopo la catastrofe della Germania nella seconda guerra mondiale, scrivendo che "dopo un secolo di positivismo giuridico è potentemente risorta l'idea di un diritto al di sopra della legge commisurate al quale anche le leggi positive possono rappresentarsi come torto legale" (cfr. Propedeutica alla filosofia del diritto, Torino 1959, p. 233). In Italia, Carlo Antoni pubblicò un'opera dal titolo La restaurazione del diritto naturale (Venezia 1959), in cui rivendicò il valore del giusnaturalismo al di là delle critiche con cui aveva cercato di demolirlo lo storicismo, di cui egli era stato, sulle orme del suo maestro Benedetto Croce, seguace: "L'idea del diritto di natura altro non significa che l'esigenza di un'azione dell'Universale ideale morale sulla legislazione positiva" (p. 36).
Di fronte a una dottrina che continua a rinascere si è tentati di dire che non è mai morta. Ma vi è chi ha sostenuto la tesi secondo cui tutta la storia del pensiero giuridico si può concepire come un perpetuo avvicendarsi di età giusnaturalistiche e di età positivistiche. Nella imponente opera Political theory (Princeton 1959) Arnold Brecht distingue, dai Greci ai giorni nostri, otto fasi, quattro di splendore del giusnaturalismo - l'antichità greca e romana, i filosofi scolastici e san Tommaso, l'idealismo tedesco, l'età contemporanea dopo la seconda guerra mondiale - e quattro di eclissi - Patristica, l'età da Bodin a Hobbes, l'empirismo inglese e il positivismo ottocentesco. Quanto sia meccanica, e inaccettabile nella sua meccanicità, questa sequenza, è superfluo sottolineare. Ma è un'ulteriore prova, posto che ce ne fosse ancora bisogno, del rilievo che nella storia del pensiero giuridico occidentale occupa, come si diceva all'inizio, il contrasto fra diritto positivo e diritto naturale.
Per quanto l'idea del diritto naturale risalga all'età classica, come si è visto, quando si parla di scuola del diritto naturale ci si riferisce alla riviviscenza che questa antica e ricorrente idea ebbe all'inizio dell'età moderna e alla sua indiscussa preponderanza nel XVII e XVIII secolo. Secondo una tradizione che già si era consolidata nella seconda metà del XVII secolo attraverso Samuel Pufendorf, Jean Barbeyrac suo traduttore, e Cristiano Thomasius (Paulo plenior historia juris naturalis, 1711), la scuola del diritto naturale avrebbe avuto una precisa data di inizio con l'opera di Ugo Grozio (1583-1645), De jure belli ac pacis (1625). Meno certa la data della fine, anche se non esiste alcun dubbio sugli eventi che l'hanno determinata, primo fra tutti la creazione delle grandi codificazioni, specie quella napoleonica, che posero le basi per il rinvigorimento di un atteggiamento di ossequio alle leggi stabilite, e sul piano filosofico la nascita dello storicismo giuridico e con particolare riguardo alla Germania, il paese dove la scuola del diritto naturale aveva trovato la sua patria di adozione, la scuola storica del diritto di Friedrich Karl von Savigny (1779-1861). Volendo scegliere una data del punto di arrivo si potrebbe prendere in considerazione il 1802, anno di pubblicazione dello scritto giovanile di Hegel, Über die wissenschaftlichen Behandlungsarten des Naturrechts, in cui le filosofie del diritto precedenti, da Grozio a Fichte, sono sottoposte a una critica radicale.
Nelle storie della filosofia del diritto ottocentesche, a cominciare da quella più nota di Friedrich Julius Stahl, Die Philosophie des Rechts nach geschichtlicher Ansicht (1830 e 1837, tradotta in italiano nel 1853), quando si parla della scuola di diritto naturale non ci si riferisce soltanto alla scuola accademica tedesca che va da Pufendorf a Wolff attraverso Thomasius e giunge sino a Kant, ma si tende ad abbracciare un campo molto più vasto comprendente quasi tutti i maggiori filosofi dell'epoca: Pufendorf si ricollega a Hobbes; Barbeyrac tiene conto di Locke; entrambi conoscono Spinoza. Nella seconda edizione del De jure naturae et gentium, Pufendorf tiene conto del De legibus naturae di Richard Cumberland (1672). Leibniz critica Pufendorf con un celebre libello: Monita quaedam ad Samueli Pufendorfii principia (1706). Locke ha letto e apprezza Pufendorf. Rousseau, come è stato ampiamente documentato, ha studiato i maggiori trattatisti del diritto naturale, e menziona, criticandolo, Grozio all'inizio del Contratto sociale. Al di fuori della scuola tedesca sono da ricordare almeno i Principes du droit naturel del ginevrino Jean-Jacques Burlamaqui (1694-1748), che Rousseau conosce e utilizza. Nella storia di Stahl vengono esposte in successione le opere dei seguenti autori: Grozio, Hobbes, Pufendorf, Thomasius, Wolff, Kant, Fichte.
Quando la scuola era ormai giunta alla fine, gli epigoni ne hanno distinto varie fasi. Il kantiano Gottfried Hufeland nei suoi Lehrsätze des Naturrechts (1790) ne propone un periodizzamento destinato ad aver fortuna: 1) età dei precursori, che giunge sino a Grozio; 2) età della formazione, comprendente i tre grandi, Grozio, Pufendorf e Thomasius; 3) età della scuola costituita, che comincia dagli allievi di Thomasius e giunge sino a Kant.Sotto la stessa etichetta si sogliono adunare autori diversi: grandi filosofi come Hobbes, Locke, Leibniz, Kant, che si sono occupati anche di diritto; giuristi-filosofi, come Pufendorf, Thomasius e Wolff; professori universitari, autori di trattati per la scuola che nessuno dopo la loro morte ha mai più letto; e un grande scrittore politico, ma non solo politico, come Rousseau. Eppure, nonostante la disparità degli autori raggruppati sotto lo stesso 'ismo', non si può dire che di una scuola del diritto naturale si sia parlato a capriccio. Prescindendo dall'elemento comune e ovvio, che è l'aver creduto nell'esistenza del diritto naturale e di non aver mai dubitato, a differenza dei loro avversari, che il diritto naturale sia diritto a pieno titolo, anzi, a titolo più pieno, giacché il diritto positivo trae da esso la propria legittimità, le divergenze da autore a autore - per cui Pufendorf critica Hobbes, ma, come è stato recentemente dimostrato, ne è anche in gran parte un seguace, Leibniz, come si è detto, e anche Wolff criticano Pufendorf - non cancellano l'intento comune, ancorché attuato in modi diversi, che permette una considerazione unitaria dei vari autori, e rivela un filo rosso che lega l'uno all'altro.
L'idea prevalente che li ha ispirati, per cui si può parlare a buon diritto di 'scuola', è la costruzione di un'etica razionale, separata dalla teologia, e capace di per se stessa, proprio perché fondata su un'analisi e una critica razionali dei fondamenti, di garantire meglio della teologia, smarritasi in contrasti di opinione insolubili, l'universalità dei principî che debbono reggere la condotta umana. L'affermazione di un diritto universale attraverso la ragione, nei limiti della sola ragione, rappresenta storicamente il tentativo di dare una risposta rassicurante sia alle conseguenze corrosive che i libertini avevano tratto dalla crisi dell'universalismo religioso, sia agli eccessi della casistica che aveva a poco a poco messo in discussione la portata universale delle regole generali e così alimentato lo scetticismo morale. Non vi è giusnaturalista che non prenda preliminarmente posizione di fronte al pirronismo in morale, a ciò che oggi chiameremmo il relativismo etico, il weberiano "politeismo dei valori". Nella introduzione alla traduzione francese del Pufendorf (1706), uno scritto che può essere considerato come il manifesto della scuola, Barbeyrac, dopo aver citato un celebre passo di Montaigne che mette in dubbio il diritto naturale non essendovi legge naturale che non sia stata ignorata da una o più genti, reagisce citando un passo di Fontenelle: "Su tutto ciò che riguarda la condotta degli uomini, la ragione ha decisioni molto sicure: il guaio è che non la si consulta". Era dunque venuto il momento, in un mondo dilaniato dalle guerre religiose, di imparare una buona volta a consultarla. La nuova scienza della morale, nascente col proposito di applicare allo studio dell'uomo e alla sua condotta il metodo razionale che aveva dato sorprendenti risultati nello studio della natura, doveva servire a riporre su basi incrollabili le regole della convivenza tra gli uomini.
Nei Prolegomeni al De jure belli ac pacis Grozio rende omaggio al modo di procedere dei matematici affermando che intende comportarsi come loro, i quali, esaminando le figure, fanno astrazione dai corpi reali (§ 58). Nel capitolo primo dell'opera, dopo aver detto che si può provare che una regola è di diritto naturale a priori o a posteriori, vale a dire dimostrando che è conforme alla natura razionale dell'uomo o mostrando attraverso l'osservazione storica che è accolta presso tutti i popoli, aggiunge che questa seconda via offre minore certezza della prima (XII, 1).
Già nella lettera dedicatoria del De cive, Hobbes, convinto che il disordine della vita sociale dipenda dalle dottrine erronee degli antichi e dei seguaci delle sette alimentate dai demagoghi, sostiene che i malanni di cui soffre l'umanità sarebbero eliminati "se si conoscessero con egual certezza le regole delle azioni umane come si conoscono quelle delle grandezze in geometria". Secondo Hobbes, le leggi di natura non sono altro che conclusioni tratte dalla ragione in merito a quello che si deve o non si deve fare. Nell'opera maggiore, Leviathan, egli precisa: "conclusioni o teoremi".Nel campo delle scienze morali aveva dominato a lungo incontrastata l'opinione di Aristotele, secondo cui in tali scienze non si può raggiungere la stessa certezza che nelle scienze fisiche: "Sarebbe altrettanto sconveniente esigere dimostrazioni da un oratore che accontentarsi di probabilità nei ragionamenti di un matematico" (Eth. Nic., 1904 b). Pufendorf, che può rivendicare il titolo di fondatore della scuola ben più di Grozio, si rende conto che per fondare una scienza della morale occorre sgombrare il campo dalla perniciosa autorità di Aristotele. Le regole della condotta possono essere conosciute con certezza quando si abbandoni il terreno infido delle leggi positive, che cambiano da paese a paese, e si consideri la natura dell'uomo, i suoi bisogni, le condizioni obiettive della sua esistenza, le sue inclinazioni.
Negli stessi anni Spinoza compone l'Ethica geometrico more demonstrata. E nel Tractatus politicus scrive che si è dedicato alla politica "allo scopo di dimostrare con argomenti certi e irrefragabili, ovvero di dedurre dalla condizione stessa della natura umana, quei principî che si accordano perfettamente alla pratica", e per procedere in questa indagine scientifica con la stessa libertà di spirito con la quale usiamo applicarci alla matematica, "mi son fatto uno studio di non ridere né piangere sulle azioni umane" (I, 4).
Anche Locke, nell'Essay concerning human understanding, persegue l'ideale di un'etica dimostrativa, il che non era sfuggito al Barbeyrac, e pone la morale tra le scienze suscettibili di dimostrazione, onde "da proposizioni evidenti di per se stesse, mediante conseguenze necessarie, non meno incontrastabili di quelle matematiche, si potrebbero trovare le misure del giusto e dell'ingiusto, se alcuno volesse applicare a queste scienze la medesima imparzialità e attenzione che pone nelle altre" (IV, 3, 18).
Proprio in virtù della sua autorità di grande logico e di grande matematico, tutto ciò che ha scritto Leibniz sul metodo della giurisprudenza dà la piena misura della prevalente concezione matematizzante della scienza del diritto. La teoria del diritto è, secondo Leibniz, una di quelle scienze che non dipendono da esperimenti, ma si svolgono attraverso definizioni, scienze che egli chiama necessarie o dimostrative, tali cioè che "non dipendono dai fatti ma unicamente dalla ragione".
Infine Wolff (1679-1754), proprio all'inizio della sua grande opera, Jus naturale, methodo scientifica pertractatum, in otto volumi apparsi tra il 1740 e il 1748, non esita ad affermare che tutto ciò che ne forma oggetto deve essere dimostrato, perché, se è vero che la scienza consiste nell'habitus demonstrandi, il diritto naturale o si vale della "methodus demonstrativa o non è scienza" (I, 2).Non c'è miglior prova di questo ideale comune a tutti i seguaci della scuola di una scienza dimostrativa del diritto che il concorde rifiuto dell'argomento del consensus, secondo cui ciò che è di diritto naturale si potrebbe anche ricavare empiricamente dall'osservazione di ciò che è comune a tutti i popoli. Grozio, come si è detto, antepone il metodo a priori a quello a posteriori. L'inadeguatezza della ricerca del consenso come prova di un diritto per natura è affermata sia da Hobbes sia da Pufendorf. Alla stessa critica Locke dedica uno dei suoi saggi giovanili sulla legge naturale, il quinto, intitolato: La legge di natura non può essere conosciuta sulla base del consenso universale degli uomini (cfr. Essays on the law of nature, Oxford 1954, pp. 160-189).
Se di unità della scuola del diritto naturale si può parlare, questa riguarda il metodo, ma l'unità riguardante il metodo non implica anche l'unità riguardo ai contenuti, vale a dire riguardo alle regole che si possono ricavare e sono state di fatto ricavate dall'osservazione della natura umana. Nella prefazione al Discours sur l'origine et les fondements de l'inégalité parmi les hommes, Rousseau, a proposito di ciò che si deve intendere per 'natura', ha scritto: "Ce n'est point sans surprise et sans scandale qu'on remarque le peu d'accord qui règne sur cette importante matière entre les divers auteurs qu'en ont traité". Per renderci conto della perplessità di Rousseau, che scrive queste parole quando la scuola si sta estenuando, basti pensare a certe famose contese: se lo stato di natura sia di pace o di guerra, che divide Pufendorf da Hobbes; se l'istinto fondamentale della natura umana sia favorevole o contrario alla società, che divide Hobbes da Grozio; se l'uomo naturale sia debole o insicuro, come voleva Pufendorf, o forte e sicuro come lo aveva immaginato Rousseau. Si pensi anche alla varietà delle opinioni sulla legge naturale fondamentale, che era per Hobbes la pace, per Pufendorf la socialità, per Cumberland la benevolenza, per Thomasius la felicità, per Wolff la perfezione. Se una delle principali esigenze di una società ben costituita è la certezza del diritto, si deve riconoscere che una società regolata dal solo diritto naturale, assoggettabile a tante interpretazioni diverse, sarebbe stata, qualora fosse stata possibile, una società in cui gli individui sarebbero vissuti nella massima incertezza. Non era del resto Hobbes giunto alla conclusione che dove vigono soltanto le leggi naturali gli uomini precipitano nello stato di guerra di tutti contro tutti?Il positivismo giuridico nasce storicamente non solo dalla critica teorica delle idee giusnaturalistiche, secondo cui esiste ed è conoscibile una legge naturale universale, critica proveniente sia dallo storicismo in Germania sia dall'utilitarismo in Inghilterra sia dal positivismo filosofico in Francia, ma anche dall'esigenza pratica di garantire la certezza del diritto, che solo la volontà di un potere superiore, capace di emanare leggi e di farle rispettare con la forza, può assicurare. Non a caso, proprio da Hobbes, che aveva immaginato lo stato di natura come lo stato di guerra perpetua, nasce già tutta spiegata la teoria del positivismo giuridico. In uno scritto degli ultimi anni, A dialogue between a philosopher and a student of the common laws of England (1666), egli fa dire a uno dei due interlocutori, il Filosofo, contro l'altro che difende il diritto comune inglese che pretende di essere fondato sulla ragione: "Auctoritas non veritas facit legem". E poco dopo lo stesso Filosofo definisce il diritto in questo modo: "Diritto è ciò che colui o coloro i quali detengono il potere sovrano ordinano ai suoi o ai loro sudditi, proclamando in pubblico e in chiare parole quali cose essi possono e quali non possono fare". Non si sarebbe potuto esplicare con maggiore chiarezza il senso della definizione tradizionale del diritto positivo: "Jus positivum quia positum est".Il positivismo giuridico si afferma attraverso la formazione dello Stato moderno che sorge sulle rovine della società feudale pluralistica, e che a poco a poco assume, insieme con il monopolio della forza legittima su un determinato territorio, anche quello della produzione giuridica attraverso la continua emanazione di norme in forma di legge, che diventano la fonte primaria del diritto, cui vengono subordinate tutte le altre fonti tradizionali: la consuetudine, la giurisdizione, la giurisprudenza intesa come il diritto prodotto dai giuristi e il diritto ricavabile dall'osservazione della natura delle cose, il diritto naturale appunto. La consuetudine ha vigore solo in quanto sia riconosciuta dalla legge; il diritto dei giuristi ha valore solo consultivo; il giudice si trasforma a poco a poco in funzionario dello Stato e, in quanto tale, secondo la famosa espressione di Montesquieu, è la "bouche de la loi"; il diritto naturale entra in scena soltanto in caso di lacuna della legge scritta.
La monopolizzazione della produzione giuridica da parte dello Stato ha la sua massima espressione nelle codificazioni dei primi anni del XIX secolo, di cui è prototipo il Codice Napoleone del 1804. Esso rappresenta la più compiuta espressione dell'onnipotenza del legislatore e da esso nasce in Francia l'École de l'éxégèse, che ha per suo motto la frase di un giurista del tempo: "Non conosco il diritto civile, io insegno il Codice Napoleone", ed è caratterizzata dalla completa subordinazione del giurista e del giudice alle leggi poste dal potere politico. Nel primo celebre trattato di diritto civile del tempo, uscito in cinque volumi tra il 1835 e il 1844, di Charles Aubry e Frédéric Charles Rau, il cui motto è "Tutta la legge, null'altro che la legge", del diritto naturale si dice che "non costituisce un corpo completo di precetti assoluti e immutabili", e che questi precetti sono in se stessi tanto vaghi che solo il diritto positivo può renderli effettivi determinandoli.
In Germania si manifestarono nello stesso periodo tendenze verso la codificazione di cui si fece portavoce il celebre giurista A. F. Thibaut (1774-1840) con un saggio Sopra la necessità di un diritto civile generale della Germania (1814), che suggerisce ai principi tedeschi di farsi promotori di codici valevoli per tutta la Germania. Contestata dal Savigny nello scritto uscito subito dopo, Della vocazione del nostro tempo per la legislazione e la giurisprudenza, il quale sostiene che in un'epoca di decadenza della civiltà giuridica la codificazione è dannosa perché ne perpetua i tristi effetti, l'opera del Thibaut rimase inascoltata. Il Codice civile tedesco sarà emanato, dopo l'unificazione, soltanto nel 1901.
Nonostante la nascita del positivismo teorico in Inghilterra attraverso Hobbes, il diritto inglese ha continuato a essere prevalentemente non legislativo e per tradizione creato dai giudici attraverso l'istituto del precedente obbligatorio. Non vi è stata né allora né poi una codificazione. Ma all'inizio del secolo scorso, per l'influenza delle idee illuministiche, Jeremy Bentham (1748-1832) si propose in un primo tempo la riorganizzazione sistematica del diritto inglese nei suoi vari rami, in polemica con il Blackstone che nei suoi celebri Commentaries on the common law of England considerava il sistema giuridico inglese un diritto perfetto in quanto attuava compiutamente il diritto naturale. In una seconda fase progettò un Digesto del diritto inglese che avrebbe dovuto contenere le regole di diritto comprendenti i principî dell'ordinamento giuridico del paese. Nella terza e ultima fase, dal 1811 in poi, progettò una completa codificazione, battezzata in un primo tempo Pandikaion, in un secondo tempo Pannomion, che avrebbe dovuto avere validità universale e pertanto da estendersi a tutto il mondo civile. Le caratteristiche di questo codice universale avrebbero dovuto essere l'utilità, in conformità del principio utilitaristico della maggiore felicità per il maggior numero, la completezza, la conoscibilità da parte di tutti i cittadini, la giustificabilità attraverso l'esplicitazione dei motivi (la ratio juris) di ogni disposizione. Dall'Inghilterra ci è pervenuta anche la prima grande opera teorica del positivismo giuridico, The philosophy of positive law di John Austin (1790-1859). In essa il diritto viene definito: "Comando generale e astratto posto da un sovrano in una società politica indipendente", ove per sovrano si intende un potere che ottiene obbedienza abituale da parte dei suoi destinatari e nello stesso tempo non ha al di sopra di sé alcun potere al quale debba ubbidire.
La teoria del positivismo giuridico, quale si è venuta sviluppando e perfezionando durante il secolo scorso, dominandone il pensiero giuridico, si può riassumere in questi punti principali.
Per quel che riguarda il modo di conoscere il diritto, vale a dire la natura e la funzione della scienza giuridica, il diritto è un fenomeno sociale, un mero fatto, che deve essere studiato come lo scienziato della natura studia la realtà naturale, cioè prescindendo da qualsiasi giudizio di valore. Non spetta al giurista dichiarare che cosa è giusto e ingiusto, ma solo esporre attraverso l'interpretazione ciò che le leggi stabiliscono. Sono dunque diritto per il giurista positivo le norme che sono poste da un'autorità legittima e sono abitualmente ubbidite.
Affinché siano abitualmente ubbidite, la maggior parte delle norme che compongono un ordinamento giuridico, e lo stesso ordinamento nel suo complesso, debbono essere fatte valere in ultima istanza con la forza. Ciò che contraddistingue le norme giuridiche dalle norme morali e da quelle sociali è la loro coercibilità, il che ha per conseguenza la presenza, accanto alle norme di condotta o primarie, di norme dette secondarie, rivolte ai giudici cui spetta il compito di indurre i destinatari all'osservanza o punire l'inosservanza con sanzioni, che vanno dall'annullamento dell'atto antigiuridico alla punizione dell'atto illecito. È stato sostenuto (Hart) che la struttura tipica dell'ordinamento giuridico rispetto ad altri sistemi di norme, è di essere composto da un insieme di norme primarie e secondarie.
Rispetto alle fonti del diritto, ossia rispetto alle diverse maniere con cui vengono prodotte le norme, il positivismo giuridico dà la preminenza alla legge, come espressione della volontà del sovrano, sia monocratico o policratico, democratico o autocratico, su ogni altra fonte: la consuetudine, di cui si ammette quella secundum legem e quella praeter legem, e si espunge quella contra legem che avrebbe effetto abrogativo; la giurisdizione, salvo i casi specificamente ammessi di giudizio di equità, dati cioè in virtù del potere discrezionale del giudice.Rispetto alla natura delle norme, prevalente è nella teoria del positivismo giuridico la considerazione della norma come un comando, cioè come una proposizione prescrittiva forte che implica da parte del destinatario l'obbligo di osservarla, e, in caso di inosservanza, una conseguenza sgradita che funge da intimidazione preventiva e da punizione successiva.
Le norme giudicate vigenti su un determinato territorio e rivolte a un determinato gruppo umano costituiscono un insieme, se non proprio un sistema, un ordinamento, i cui caratteri fondamentali sono l'unità, che fa risalire le norme singole di grado in grado dalle norme inferiori a quelle superiori, sino alla norma prima, detta fondamentale (Kelsen) o di riconoscimento (Hart); la completezza, in conseguenza della quale il giudice può e deve, e deve perché può, sempre desumere una regula decidendi esplicitamente o implicitamente mediante il ricorso all'analogia o ai principî generali, per risolvere qualsiasi caso; la coerenza, secondo cui due norme antinomiche non possono essere entrambe valide, e per risolvere l'antinomia al giurista sono offerte alcune massime generali come lex posterior derogat anteriori, lex superior derogat inferiori, lex specialis derogat generali.Infine l'attività propria del giurista è l'interpretazione vincolata da alcune regole che inibiscono la creazione di norme nuove, se non nei casi in cui lo stesso ordinamento lo prevede, contrariamente a ciò che viene sostenuto dalle teorie, di tempo in tempo ricorrenti, del diritto libero o della libera ricerca del diritto.
Il momento culminante della fortuna del positivismo giuridico è rappresentato dagli ultimi decenni del secolo scorso, quando la filosofia dominante del tempo era il positivismo, ancorché il positivismo giuridico sia indipendente dal positivismo filosofico. Uno dei testi più rappresentativi del positivismo, insieme giuridico e filosofico, è comunemente considerato Jurisprudenz und Rechtsphilosophie (1892) di Karl Magnus Bergbohm (1849-1927), che contiene una critica serrata del diritto naturale. Con l'affermazione del positivismo giuridico nasce la teoria generale del diritto ovvero lo studio dei concetti giuridici fondamentali tratti dal diritto positivo e presuntivamente validi per ogni ordinamento giuridico. Ne è un prototipo Rechtsnorm und subjectives Recht (1878) di August Thon (1839-1912). Si apre anche la via allo studio del rapporto tra diritto e società da cui nascerà la sociologia del diritto, ma è già esemplare, come anticipazione di questo modo di accostarsi allo studio del diritto positivo, la grande opera di Rudolf von Jhering (1818-1892), Der Zweck im Recht, il cui primo volume esce nel 1877, il secondo nel 1883.
Come si è già detto, l'esigenza di un diritto che trascende il diritto positivo si fa sentire nei momenti di grande crisi morale e sociale: così è nel primo e nel secondo dopoguerra. Ma paradossalmente proprio intorno alla metà del secolo, nonostante la restaurazione del diritto naturale da più parti proclamata, e in diretta opposizione a essa, è apparsa l'opera di Hans Kelsen, che può essere considerata come la più rigorosa ed esclusiva teoria del positivismo giuridico. Per Kelsen infatti il diritto positivo, che è un diritto prodotto dalla volontà umana, si contrappone al diritto naturale che trae origine o da Dio o dalla natura o dalla ragione, ed è valido solo in quanto è, o si considera, giusto. Il diritto di cui si debbono occupare i giuristi è soltanto il primo. Inoltre, due sono le specie di sistemi normativi, statici e dinamici: i primi sono composti di norme che si deducono logicamente le une dalle altre, i secondi, da norme che si producono le une dalle altre mediante delegazione da un potere superiore a uno inferiore, in base cioè a un principio di autorità. Il diritto appartiene, secondo Kelsen, alla seconda specie. Ancora una volta: "Auctoritas non veritas facit legem". Al positivismo giuridico appartiene anche la teoria di Hart, se pur con un limite. Egli definisce correttamente il positivismo giuridico affermando che non è in alcun modo una verità necessaria che le leggi riproducano o soddisfacciano certe esigenze della morale, anche se nella realtà esse spesso lo abbiano fatto. Il limite consiste in quello che egli chiama il "contenuto minimo del diritto naturale", costituito da norme che ogni organizzazione sociale deve contenere per essere vitale, e che derivano da caratteri universali degli esseri umani: per fare un esempio, le norme che limitano l'uso della violenza sono rese necessarie dal fatto che gli uomini sono vulnerabili, giacché, qualora gli uomini perdessero la loro vulnerabilità reciproca, sparirebbe qualsiasi ragione di un precetto come 'non uccidere'.
Anche in Italia, dove le opere di Kelsen e di Hart hanno avuto larga diffusione, il dibattito pro e contro il positivismo giuridico si accese negli anni prima e dopo il 1960, concludendosi con il libro di Uberto Scarpelli Cos'è il positivismo giuridico (v., 1965), in cui, rifiutata l'interpretazione prevalente di esso come movimento all'interno della scienza del diritto, se ne sostiene un'interpretazione politica, secondo cui, una volta definito il diritto positivo come diritto volontario, composto principalmente di norme generali e astratte, tendenzialmente coerente e completo, ai fini della sua attuazione coercibile, il positivismo giuridico costituisce per il giurista una scelta politica, la scelta di un ordinamento che attraverso la distinzione tra diritto e morale assicura, insieme con la certezza del diritto, la sicurezza dell'individuo e con la sicurezza la sua libertà. Due anni dopo una discussione sulle tesi di Scarpelli ha rappresentato la più alta fiammata di un fuoco destinato a spegnersi presto (Tavola rotonda sul positivismo giuridico, Pavia, 2 maggio 1966): le ragioni del positivismo giuridico, così com'era stato concepito sino allora, sono state messe in questione non dalla solita rinascita del diritto naturale, ma da profondi mutamenti dello Stato di diritto e della società sottostante, che hanno a poco a poco resa sempre più inadeguata la raffigurazione dello Stato legislatore e del giudice-esecutore, sulla quale si era venuta formando dall'inizio del secolo scorso la teoria giuspositivistica.
Se di una crisi del positivismo giuridico si può parlare, questa nasce all'interno stesso della dottrina, di fronte alla quale non si erge più un nuovo o rinnovato giusnaturalismo, ma se mai si affaccia una nuova concezione del diritto positivo, costretto per il mutamento dei modi di produzione del diritto ad abbandonare o attenuare alcune delle tesi più tipiche, trasformatesi in dogmi, come quelle dell'onnipotenza del legislatore, dell'unità, completezza, coerenza dell'ordinamento, della validità formale delle norme, della imperatività e coattività del diritto.
Questa correzione del positivismo giuridico è stata avviata da Ronald Dworkin, allievo di Hart, che in Taking rights seriously (London 1977; tr. it., Bologna 1982) critica la tesi positivistica del diritto come insieme di regole (rules), mentre i criteri con cui i giudici stabiliscono diritti e doveri, assolvono o condannano, sono anche altri, come i principî (principles), che non hanno per contenuto una determinata condotta da comandare, vietare o permettere, ma esprimono un'esigenza generale di giustizia, come, per addurre l'esempio stesso di Dworkin, che nessuno deve trarre profitto dal proprio illecito. Mentre le regole sono applicabili nella forma del tutto o niente, il principio non indica conseguenze giuridiche che seguono automaticamente. Più che di un'alternativa al diritto positivo si tratta di un allargamento dell'area dei criteri in base ai quali i giudici rendono giustizia, un allargamento, tra l'altro, che abbraccia principî generalissimi della condotta, di cui lo stesso positivismo giuridico non ha mai rifiutato di tenere conto, se pure in ultima istanza.
A mettere in questione il positivismo giuridico in senso stretto è sopraggiunta infine la formazione di un numero crescente di Stati a costituzione rigida, in cui principî generali, ispirati ai grandi ideali della libertà e della giustizia, sono stati costituzionalizzati e come tali sono diventati per i giuristi criteri di valutazione al di sopra delle leggi ordinarie. Però, in quanto tali principî ideali sono entrati a far parte di costituzioni scritte, sono diventati anch'essi diritto positivo nel senso comune di questa parola. Cade del positivismo giuridico tradizionale anche il valore che pretendeva di essere assoluto, della certezza (cfr. G. Zagrebelski, I diritti fondamentali oggi, in "Materiali per una storia della cultura giuridica", XXII, 1 giugno 1992, pp. 202-203). Ma anche sotto questo aspetto più che della rinascita di un nuovo giusnaturalismo si dovrebbe parlare, in forma ancora vaga che attende di essere precisata in seguito alle trasformazioni in corso delle società politicamente ed economicamente più avanzate, di postpositivismo, dove il 'post' sta a indicare per ora semplicemente che l'antico dibattito tra giusnaturalisti e positivisti non può più essere posto nei termini abituali, ma attende nuovi protagonisti e nuove idee.
(V. anche Contrattualismo; Costituzionalismo; Diritto, filosofia e teoria generale del; Etica).
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