Giusnaturalismo
Secondo Guido Fassò (Giusnaturalismo, in Dizionario di politica, diretto da N. Bobbio, N. Matteucci, G. Pasquino, 1983, ad vocem),
il giusnaturalismo è la dottrina secondo la quale esiste e può essere conosciuto un “diritto naturale” (ius naturale), ossia un sistema di norme di condotta intersoggettiva diverso da quello costituito dalle norme poste dallo Stato (diritto positivo); e questo diritto naturale ha validità di per sé, è anteriore e superiore al diritto positivo, e, in caso di contrasto con quest’ultimo, deve prevalere su di esso.
Già dal basso Medioevo dottrine e convinzioni di questo stampo hanno svolto un ruolo importante, anche se non esclusivo, nella formulazione di criteri che consentissero di discriminare tra pratiche economiche eticamente ammissibili e quelle inaccettabili. Ci si è appellati a principi attingibili dalla ragione umana a prescindere da qualsiasi forma di rivelazione, e quindi comuni agli esseri umani in grado di esercitare la propria facoltà razionale.
I più recenti studi sui linguaggi etico-economici medioevali tendono a sottolinearne la radice teologica, e quindi a svalutare la portata – o a svelarla come illusoria – di questo richiamo a principi razionali supposti universali (per es., Todeschini 2002). Ciò non toglie, tuttavia, che all’interno dei discorsi medioevali sulla normazione delle pratiche economiche si concepisse una distinzione tra regole ritenute dipendenti dalla rivelazione (nel caso specifico, giudeo-cristiana) e quelle che potevano essere giustificate anche dalla pura ragione. Non è quindi un caso che autori classici di storia del pensiero economico prestino notevole attenzione, nelle loro trattazioni relative al basso Medioevo (ma anche alla prima età moderna), al concetto di ‘diritto naturale’. Così accade nelle pagine di Joseph Schumpeter (1954, pp. 95-132), ma anche in quelle di John T. Noonan (1957, pp. 38-55), il quale parla esplicitamente di un «natural law case against usury» sviluppato dalla scolastica medioevale.
La riflessione medioevale sull’origine e sulla legittimità della proprietà che, per maggiore comprensibilità diremo privata, si richiama costantemente al diritto naturale, al punto che uno specialista come Odd Langholm ha potuto scrivere che teoria della proprietà e teoria economica sono strettamente interconnesse in epoca medioevale (1992, p. 20).
Posta per così dire al confine tra ambito fondativo di un’etica economica e ambito più specificamente politico, questa problematica si impone già alla riflessione giuridica del 12° sec., sia in campo civilistico, sia in campo canonistico. Non mancano, infatti, nei testi autorevoli di entrambe le tradizioni, brani e passi che connettono strettamente diritto naturale e possesso in comune dei beni, o che attribuiscono allo stato edenico, precedente alla Caduta, l’assenza di qualsiasi forma di proprietà individuale. Poiché nello stato di natura vigeva, come parrebbe ovvio, la legge di natura, i canonisti, al pari dei civilisti, si adopravano a spiegare come un tale principio fosse compatibile con la palese divisione dei beni esistente nelle loro società, che in tutta evidenza non intendevano mettere in discussione (Weigand 1967).
I vari tentativi di soluzione di questo paradosso costituiscono lo sfondo sul quale si profilano i dibattiti della scolastica del Duecento. Tra le proposte più significative, si noterà la tendenza, da parte di autori della prima stagione francescana come Alessandro di Hales (n. tra il 1170 e il 1180 e m. nel 1245) o Bonaventura da Bagnoregio, ad accettare l’idea di una mutabilità della legge di natura: nello specifico, in seguito alla drammatica trasformazione antropologica verificatasi dopo il peccato, la norma di diritto naturale concernente il possesso dei beni sarebbe mutata in considerazione dell’incapacità, da parte di un’umanità peccatrice, a possedere beni in comune. Un influente teologo di poco precedente Alessandro di Hales, Guglielmo di Auxerre (morto nel 1231), aveva invece optato per una soluzione secondo la quale il diritto di natura, rimanendo inalterato, non proibisce, in linea di principio, la proprietà ‘privata’. Questo non toglie, tuttavia, che gli effettivi criteri di divisione siano stabiliti esclusivamente dal diritto positivo. Si vede quindi che le note tesi di Tommaso d’Aquino (Summa Theologiae, IIa IIae, q. 66, a. 3) al proposito – che risultano assai vicine a quelle di Guglielmo di Auxerre –, lungi dal rappresentare da sole la posizione della scolastica, sono formulate all’interno di un dibattito in cui si confrontano interpretazioni che attribuiscono maggiore o minore profondità alla cesura costituita dalla Caduta. Ne risulta un radicamento più o meno forte dell’istituto della proprietà ‘privata’ nel diritto naturale, nel contesto di un modello che – come si è visto – concepisce comunque la proprietà ‘privata’ come il risultato di una divisione di ciò che, prima del peccato, era comune.
Su questo orizzonte si staglia la posizione di Giovanni Duns Scoto (1265-66 ca.-1308), che apporta due importanti contributi specifici: in primo luogo, a suo parere, nello stato prelapsario, a essere comune non sarebbe la proprietà dei beni, quanto piuttosto il loro uso secondo le necessità di ciascuno; in secondo luogo, con la Caduta, i precetti di diritto naturale riguardanti i rapporti con i beni non sono stati trasformati, ma sospesi. Al loro posto, è stato lasciato libero movimento all’iniziativa umana che ha scelto governanti i quali hanno legiferato in proposito.
La proprietà ‘privata’, quindi, sarebbe una creazione (per quanto ragionevole e opportuna visto la condizione antropologica subentrata al peccato) delle leggi, non – come nell’interpretazione di Tommaso d’Aquino – un principio virtualmente contenuto nella legge di natura, del quale le leggi positive forniscano una realizzazione a seconda del tempo e del luogo. Il problema teorico è ben presente a Duns Scoto, il quale, non senza qualche titubanza, afferma che anche il principio secondo il quale un bene che non appartiene a nessuno diventa proprietà di chi se ne impadronisce non è contenuto nella legge di natura, ma è un criterio, una procedura – senza dubbio ragionevole – che acquista legittimità solo sulla base di un accordo che si stringe nel processo di spartizione dei beni prima a disposizione di tutti. La proprietà ‘privata’, quindi, non è un’istituzione naturale, ma qualche cosa di ‘artificiale’, fondata in ultima analisi su di un consenso (Lambertini 2000, pp. 111-39).
Come si vedrà, queste discussioni non rimarranno limitate all’ambito della scolastica medioevale, ma continueranno. Tuttavia, è opportuno ricordare che, nelle opere di un contemporaneo di Duns Scoto, il domenicano Giovanni di Parigi (1255 ca.-1306), emerge un’ulteriore prospettiva dalla quale si cerca di comprendere il fenomeno della proprietà privata. Se negli esempi ricordati finora la discussione si svolge attorno alla fondazione dei criteri con i quali si procede alla divisione di beni precedentemente detenuti in comune, e ci si limita a far riferimento a un’attività ordinatrice da parte di chi è legittimato a farlo, Giovanni formula un principio sulla base del quale un singolo possa rivendicare un bene come suo.
Se in altre opere, sulla scia di Tommaso d’Aquino, Giovanni aveva parlato della proprietà privata come «non esclusa» dal diritto di natura, nel suo trattato volto a stabilire ambiti e limiti del potere temporale e di quello spirituale, il teologo domenicano afferma che il lavoro, la fatica e l’ingegno fondano un diritto a un bene che non è sottoposto agli interventi delle autorità ecclesiastiche, ma neppure a quelli del sovrano laico (J. Coleman, The intellectual milieu of John of Paris OP, in Das Publikum politischer Theorie im 14. Jahrhundert, hrsg. J. Miethke, 1992, pp. 173-206). Alcuni interpreti hanno visto in questa posizione anche il richiamo al diritto naturale, inteso tuttavia non solamente nella prospettiva di un insieme di norme oggettive, ma come fondazione di un diritto che inerisce a un soggetto, in breve un diritto naturale soggettivo. Una posizione analoga verrà sostenuta da John Fortescue (n. tra il 1390 e il 1400 e m. nel 1476) un secolo e mezzo dopo, nel suo De natura legis naturae (1461-1463).
Nella controversia che oppose Giovanni XXII (1245 ca.-1334) a eminenti esponenti dell’ordine dei minori sulla teoria della povertà francescana, teorici come Guglielmo di Occam (fine 13° sec.-1347) formularono in modo ancor più netto e articolato una posizione analoga a quella di Duns Scoto. Prima della caduta esisteva una comunione non di proprietà ma di uso. A questa concezione, Giovanni XXII opponeva l’idea di un’origine direttamente divina della proprietà, già nello stato di innocenza, e vedeva in Adamo il primo proprietario. Nonostante la netta sconfitta subita dalla parte francescana nel conflitto che fece seguito alla disputa sulla povertà di Cristo e degli Apostoli, alcune tesi sostenute da Occam entrarono a far parte del bagaglio concettuale con il quale, nei secoli seguenti, si affrontò la questione dell’origine della ‘proprietà privata’.
Una tradizione storiografica che si va consolidando in questi anni riconosce ormai l’importanza seminale di questi dibattiti per il definirsi del discorso dei diritti naturali soggettivi (A.S. Brett, Liberty, right and nature. Individual rights in later scholastic thought, 1997), nel contesto del quale la proprietà riveste un ruolo particolarmente rilevante. Richard Fitzralph (1295 ca.-1360) e John Wycliffe (1330 ca.-1384), insieme con i loro critici, subirono questo influsso in ambito inglese, mentre sul continente Jean Gerson (1363-1429) attaccò i dottori anglicani (Fitzralph e Wycliffe) appunto sulle caratteristiche del dominium naturale e di quello politico o civile. Pur nel contesto di concezioni ecclesiologico-politiche molto diverse, questi teologi di formazione oxoniense avevano sostenuto che la legittimazione alla proprietà era strettamente vincolata allo stato di grazia. Wycliffe ne aveva sviluppato una dottrina secondo la quale tutta quanta la Chiesa doveva essere assolutamente povera, vale a dire priva di diritti di proprietà. A questo nesso tra grazia e diritto, Pietro d’Ailly (1350 ca.-1420), prima, e Gerson, con argomentazioni ancora più articolate, contrapposero l’origine pattizia della proprietà, rivendicandone una legittimità puramente umana, e vigente in modo pieno anche tra i peccatori e i non cristiani (R. Lambertini, Dominium e povertà in Gerson: un’eredità francescana?, in Virtute et labore. Studi offerti a Giuseppe Avarucci per i suoi settant’anni, a cura di R.M. Borraccini, G. Borri, 2008, pp. 1029-48, con bibl. prec.).
Nel Quattrocento, anche tra i pensatori più studiati dalla storiografia che si occupa di pensiero economico, si possono ritrovare sia la posizione più vicina a Tommaso d’Aquino, ben rappresentata dalla Summa moralis di Antonino da Firenze; sia quella inaugurata da Duns Scoto, riprodotta in modo esplicito nel Collectorium circa quatuor libros Sententiarum di Gabriel Biel (1420 ca.-1495).
È noto che questo dibattito fu ripreso in pieno da quel movimento di pensiero noto come ‘seconda scolastica’, caratterizzato da una crescente importanza delle opere di Tommaso d’Aquino, in particolare della Summa, come libri di testo e oggetti del lavoro di commento. Domingo de Soto (1494-1560), per non fare che un esempio, con le sue riflessioni sul concetto di dominium si misura con la tradizione precedente citando esplicitamente il dibattito trecentesco sulla povertà francescana. Nel suo De iustitia et iure, dopo aver ribadito che il diritto naturale non prescrive l’opposto della divisione dei beni, sostiene che fu lo ius gentium a introdurre la proprietà privata, intendendo con questa espressione quell’insieme di norme che la ragione può derivare dai primi principi «scritti nel cuore dell’uomo» e che quindi sarebbero comuni a tutte le genti (G. Rossi, La Relectio de dominio di Domingo de Soto: una riflessione tra teologia e diritto, in I beni di questo mondo, 2010, pp. 305-26).
Analogo è l’approccio di pensatori appartenenti alla Compagnia di Gesù come Francisco Suárez (1548-1617), nel cui De legibus, tuttavia, emerge un elemento nuovo, nello specifico la considerazione che non sarebbe da escludere, ovviamente in via controfattuale, che un’umanità non peccatrice adottasse anch’essa il sistema della proprietà privata (F. Gomez Camacho S.J., Spanish economic thought in the XVIth and XVIIth century, in Ancient and medieval economic ideas, 1998, pp. 503-62).
Se è noto il legame di continuità tra prima e seconda scolastica (che pure non impedisce forti slittamenti, per es., a proposito dei cosiddetti diritti naturali soggettivi), non vanno trascurati importanti pensatori di ambito protestante che attinsero a piene mani a questa tradizione. È stato, per es., possibile mostrare (J. Kilcullen, The origin of property: Ockham, Grotius, Pufendorf, and some others, in William of Ockham, Work of ninety days, trad. J. Kilcullen, J. Scott, 2001, pp. 883-932) che Ugo Grozio (1583-1645), nel corso della sua vicenda intellettuale, passa da una teoria secondo la quale nello stato di natura esisteva la proprietà, limitata tuttavia ai beni consumabili con l’uso (concordando in questo con i critici della posizione francescana), a una posizione (molto vicina a quella che era già stata di Duns Scoto) secondo la quale ogni forma di diritto di proprietà, anche quella derivante dall’appropriazione primitiva, si fonda su un consenso preliminare e quindi non è ‘naturale’. Nel suo De iure naturae ec gentium Samuel Pufendorf (1632-1694) nega che Adamo possa avere avuto un rapporto di ‘proprietà’ con i beni, per quanto Dio gli avesse concesso un dominio su tutte le cose; la divisione tra le diverse proprietà ha origine pattizia (K. Saastamoinen, Liberty and natural rights in Pufendorf’s natural law theory, in Transformations, 2006, pp. 225-56).
È stato opportunamente notato che questa ripresa non avviene senza significativi mutamenti di contesto e conseguenti slittamenti semantici: in Grozio e Pufendorf il ruolo del peccato diviene molto più sfumato (F. Todescan, Il problema del diritto naturale fra seconda scolastica e giusnaturalismo laico secentesco, una introduzione bibliografica, in Iustus ordo e ordine della natura. Sacra doctrina e saperi politici fra XVI e XVIII secolo, a cura di F. Arici, F. Todescan, 2007, pp. 1-61). Questo trascolorare del passaggio tra stato della natura integra a quello della natura corrotta in un discorso sul passaggio dalla ‘naturalità’ alla ‘civiltà’ si rileva anche nei Two treatises of government (1690) di John Locke (1632-1704). Il primo è dedicato alla contestazione dell’esistenza di un dominio primigenio di Adamo su tutto il mondo, sostenuta da Robert Filmer: a questa concezione Locke oppone l’idea che il dominio concesso da Dio ad Adamo fosse in comune con l’umanità tutta; nel secondo, attingendo – come ha fatto notare Janet Coleman (Dominium in Thirteenth- and Fourteenth-century political thought and its Seventeenth-century heirs: John of Paris and Locke, «Political studies», 1985, 33, pp. 73-100) – a una linea di pensiero già testimoniata da Giovanni di Parigi, Locke fonda il diritto di proprietà sul lavoro, l’azione con la quale gli uomini traggono un bene dallo stato di natura e lo sottomettono al proprio uso. Non è senza rilevanza che, nell’illustrare questo passaggio, Locke argomenti che i beni, prima comuni, non possono non entrare nella sfera del diritto del singolo quando sono consumati, il che costituisce una riproposta, in una funzione diversa, della obiezione antifrancescana (J. Locke, Two treatises on government. Second treatise, V, 25, ed. P. Laslett, 1960, in partic. pp. 303-05).
La discussione sull’origine naturale o positiva dei diritti di proprietà può evidentemente esercitare un influsso, anche se mediato, sulla più generale percezione dei fenomeni economici, sebbene sia opportuno evitare di postulare nessi troppo rigidi che non rendono ragione della molteplicità storica delle teorie. È comunque verosimile che la sottolineatura dell’origine pattizia della divisione dei beni porti con sé un approccio meno ‘naturalistico’ alle dinamiche di scambio dei beni, in cui maggior spazio è accordato sia al consenso tra i soggetti economici, sia all’intervento della legislazione positiva.
È stata ampiamente rivista un’interpretazione dei linguaggi economici medioevali come ossessivamente dominati dalla questione dell’usura, della sua proibizione e della dialettica tra il suo divieto e le pratiche creditizie. Tuttavia, rimane valida la constatazione che gran parte delle fonti a nostra disposizione formula indicazioni etico-economiche a partire dalla questione del prestito.
In questo ambito problematico, a partire dal 13° sec., è emersa con chiarezza la ricerca di argomentazioni che dimostrassero l’inammissibilità dell’usura a prescindere dal dato rivelato di una sua proibizione contenuta nella Sacra Scrittura e nella tradizione. Senza dubbio tale ricerca ha trovato stimolo – ma non origine – nella riscoperta della Politica di Aristotele e quindi nella presa di coscienza che anche il filosofo per eccellenza giudicava negativamente il prestito ‘a interesse’ in cui il denaro è fine e non mezzo (Aristotele, Politica, 1258b, 2-8). Alla ricerca di tali fondamenti ‘razionali’ la scolastica medioevale ha sviluppato una serie di argomentazioni ben più articolate di quanto si potesse ritrovare nel primo libro della Politica. A rendere rilevanti tali argomenti per la presente trattazione è anche la circostanza per la quale un autore dello spessore di Pietro di Giovanni Olivi (1248-1298) li considera dimostrazioni della tesi che l’usura è contraria al diritto naturale e all’equità naturale (Un trattato di economia politica francescana. Il “De emptionibus et venditionibus, de usuris, de restitutionibus” di Pietro di Giovanni Olivi, a cura di G. Todeschini, 1980, pp. 68-73).
Gran parte dell’impegno analitico di Odd Langholm (1992) è stato dedicato a individuare questi argomenti e a mostrarne le vicende tra 1200 e 1350, anni in cui numerosissimi testi (molti attribuiti, molti anonimi) si sono misurati con questi argomenti, non solo proponendoli e riformulandoli, ma anche contestandoli. Tra gli argomenti più noti è quello secondo il quale l’usuraio, facendosi restituire più di quanto prestato, non farebbe che vendere il tempo per il quale ha messo a disposizione il denaro, ma, così facendo, si farebbe pagare qualcosa che non è suo, bensì di Dio. A dispetto della sua fama, questo argomento fu in realtà presto o abbandonato o radicalmente riformulato.
Quasi altrettanto noto è l’argomento che si fonda sulla cosiddetta sterilità del denaro, presente nella tradizione medioevale ben prima della traduzione della Politica. In questa prospettiva, a rendere produttivo il denaro è solo il lavoro, e di conseguenza l’usuraio si arricchirebbe con i frutti dell’impegno di chi ha ricevuto il prestito. Vicino a questo è l’altro argomento, che evidenzia la mancanza di rischio da parte del prestatore.
In realtà, già con Pietro di Giovanni Olivi, si fa strada la contro-obiezione che il denaro, non in sé, ma in quanto impegnato in un’attività economica, possiede una potenzialità fruttifera, come si esprime Olivi stesso, una «ratio capitalitatis» (S. Piron, Perfection évangélique et moralité civile: Pierre de Jean Olivi et l’étique économique franciscaine, in Ideologia del credito, 2001, pp. 103-43).
Altri argomenti risultano più tecnici: quello denominato tomista, perché è stato formulato in modo più chiaro per la prima volta da Tommaso d’Aquino, prende le mosse dall’assunto dell’inseparabilità – nel denaro come negli altri fungibili – tra uso e proprietà. Ne conseguirebbe che, mentre per un bene come un’abitazione si può cedere l’uso e non la proprietà, chiedendo quindi in modo legittimo un prezzo per l’uso, il denaro non potrebbe essere ‘affittato’. Questo argomento si sarebbe presto trovato in contrasto con la teoria della povertà francescana fondata, com’è noto, sulla separabilità di uso e proprietà nel caso dei beni consumabili con l’uso, ai quali era assimilato anche il denaro (Lambertini 2000, pp. 227-47). In effetti, è stato osservato che uno dei presupposti di gran parte di queste argomentazioni è una concezione del denaro come bene consumabile con l’uso.
Un ulteriore argomento prendeva invece spunto da un’etimologia ‘fantastica’ del termine mutuum – per altro incastonata nelle Istituzioni del corpus giustinianeo – che deriverebbe da «de meo fit tuum». Se ne traeva la conclusione che il prestatore non poteva avanzare rivendicazioni su di un bene non più suo, perché con il prestito avviene un autentico passaggio di proprietà.
Formulato in termini ancora più tecnici è l’argomento che si basa sul principio per il quale i fungibili come il denaro si ‘autovalutano’. L’usura, facendo sì che una quantità di denaro prestata equivalga a un’altra quantità, minerebbe la funzione di misura del valore dei beni che spetta alla moneta. Spesso, quindi, nelle fonti, si incontra l’espressione secondo la quale la pratica usuraia «diversificherebbe le misure ». Langholm ha dedicato grande attenzione anche a un ragionamento che pone in primo piano i ‘rapporti di forza’ economica e sociale tra chi concede e chi riceve un prestito: l’argomento prende le mosse dal fatto che chi riceve il prestito è costretto contro la sua volontà, in quanto non accetterebbe la condizione se non messo alle strette dalla sua situazione: di conseguenza, il prestito ‘usuraio’ si avvicinerebbe significativamente alla vendita di un bene a un prezzo eccessivamente elevato, resa possibile dall’effettiva impossibilità, da parte del compratore, di rivolgersi altrove. Non pochi autori partono da questa considerazione per mettere in discussione la validità del contratto e quindi il dovere, da parte del debitore, di rispettarne i termini (Langholm 1998).
Non mette conto, qui, discutere dell’adeguatezza o meno di tali argomentazioni, dal punto di vista della contemporanea ‘scienza economica’. Piuttosto, è opportuno evidenziare che, a proposito di queste argomentazioni, si sono registrate opinioni molto diversificate, anche quelle di autori, come, per es., Francesco di Meyronnes (1288-1328), almeno in parte, e Gerardo di Odone (1273-1348), in modo più esplicito, secondo i quali la proibizione dell’usura è fondata esclusivamente sul diritto divino, mentre gli argomenti ‘razionali’ contro di essa possono essere confutati (Langholm 1992, pp. 403-29, 508-35).
In questo periodo, quindi, la discussione non verte tanto sull’ammissibilità dell’usura, comunque considerata in modo negativo, ma sulla natura dei fondamenti della sua condanna. È quindi ben comprensibile che l’attenzione della storiografia si sia concentrata su un aspetto della discussione che, fermo restando il rifiuto dell’usura, prendeva in esame la questione dei cosiddetti titoli estrinseci all’interesse, vale a dire le situazioni in cui si riteneva legittimo che il creditore ricevesse in restituzione di più di quanto prestato. Se sul danno subito dal prestatore, per es., per un ritardo nel saldo, i pareri erano per lo più concordi, solo con il tempo (Tommaso d’Aquino non lo riconosce, Olivi sì) si afferma il riconoscimento di un ‘guadagno mancato’, concetto che apriva ovviamente l’orizzonte a una serie di analisi sulle potenzialità del denaro investito e sul ruolo dell’industria del mercator.
Il dibattito sulla liceità del prestito a interesse riguardava non solamente la pratica del credito, ma anche forme contrattuali diverse, nelle quali poteva essere inserita, in un qualche modo, una forma di usura. Uno degli esempi più risalenti, e noti, è costituito dalla discussione sulla venditio ad terminum: per autori che consideravano valido, contro il prestito a interesse, l’argomento della «vendita del tempo», l’aumento del prezzo di una merce a fronte di un pagamento posticipato finiva per avere un «forte sapore di usura».
Se questo dibattito riguardava specificamente la pratiche che si andavano affermando, con la ‘rivoluzione commerciale’, nei mercati dell’Occidente, un altro tipo di accordo economico, il cosiddetto contratto di censo, coinvolgeva direttamente anche gli enti ecclesiastici, che vi facevano ampiamente ricorso. Le opinioni si dividevano: alcuni consideravano contratti di questo tipo in via di principio non esenti da un sospetto di usura perché in forza di essi, qualora il ‘censo’ fosse corrisposto in moneta, una determinata quantità di denaro, versata in un’unica soluzione, dava diritto a una restituzione che, a condizione della longevità del soggetto, poteva superare di gran lunga quanto versato. Altri, negando in via di principio che si potesse distinguere tra rendite in natura o in denaro, ritenevano che il contratto in questione fosse sostanzialmente una compravendita (Ceccarelli 2006). Un teologo francescano come Riccardo di Mediavilla (n. 1249 e m. tra il 1300 e il 1308) ritenne di potersi appellare alla ‘legge di natura’ per difendere la legittimità dell’acquisto di rendite ereditarie, appellandosi al principio secondo il quale un beneficio per i propri discendenti vale meno, al momento presente, di un beneficio di cui goda direttamente il soggetto che sigla un contratto (Langholm 1992, p. 341).
A partire dalla metà del Trecento, con l’affermarsi, in alcune città italiane, di pratiche di consolidamento del debito da parte dei governi comunali, di emissione di titoli di credito che davano diritto a una somma percentuale annua (mentre il capitale non veniva restituito), e con la nascita di un mercato di questi titoli, si apre un dibattito sulla liceità morale di queste operazioni finanziarie (per una sintesi della questione, cfr. M. Conetti, Un’etica per i prestiti pubblici. Teologia, canonistica e Monti del Comune, in I beni di questo mondo, 2010, pp. 231-49). Non mette conto qui ricostruire le prese di posizione, note e meno note, da parte di teologi e giuristi, che giunsero a conclusioni anche molto divergenti; è sufficiente ricordare che in esse non si discuteva della liceità dell’usura; si dibatteva, piuttosto, se le pratiche economiche in discussione, o aspetti di esse, potessero o meno essere equiparate all’usura, come risulta molto bene anche dalla sintesi di Lorenzo de’ Ridolfi (morto nel 1442; v. L. Armstrong, Usury and public debt in early Renaissance Florence: Lorenzo Ridolfi on the ‘Monte Comune’, 2003).
Questa dinamica, per cui non è tanto in discussione la condanna dell’usura, quanto piuttosto quali forme di comportamento economico siano colpite da tale condanna e quali ne risultino esenti, caratterizza anche molta letteratura quattrocentesca in questo campo, sia che si tratti di Summae morali di famosi autori appartenenti agli ordini mendicanti, come quella del domenicano Antonino da Firenze (R. Schüssler, Antonino von Florenz als Ökonom. Eine Verteidigung, in I beni di questo mondo 2010, pp. 28-304, con bibl. prec.), o quella del francescano osservante Angelo Carletti da Chivasso (G. Todeschini, Credito ed economia della Civitas: Angelo da Chivasso e la dottrina della pubblica utilità fra Quattro e Cinquecento, in Ideologia del credito, 2001, pp. 59-83, con bibl. prec.), sia che i problemi siano affrontati in modo ‘monografico’ in opere intitolate appunto De contractibus (che si configurano come un vero e proprio genere letterario), sia che la questione sia discussa in raccolte di testi connesse con cicli di predicazione, com’è il celebre caso di Bernardino da Siena (O. Capitani, San Bernardino e l’etica economica, in Una economia politica, 1987, pp. 121-41, con bibl. prec).
Nella storiografia si era affermata una tendenza (oggi in via di superamento) ad attribuire la qualifica di aperto e progressista agli autori che riducevano l’abito delle pratiche che, sulla base di argomenti ‘razionali’ erano considerabili usurarie, mentre conservatore era considerato chi difendesse un concetto ‘allargato’ di usura. Più importante, tuttavia, risulta evidenziare che il comune richiamo a principi razionalmente condivisibile non toglieva la possibilità di interpretazioni anche incompatibili delle medesime pratiche economiche.
Qualcosa di analogo si può constatare a proposito della controversia che oppose i francescani osservanti in particolare a esponenti di altri ordini mendicanti, i quali sostenevano che i Monti di Pietà, promossi dai primi, funzionassero in modo da sancire, di fatto, una pratica usuraria.
È noto che tali tensioni portarono sia al tentativo di istituire Monti (detti sine merito) che non richiedessero al mutuatario alcuna forma di interesse, sia infine alla richiesta di un intervento in materia del pontefice romano. Nel 1515, con la bolla Inter multiplices, Leone X si pronunciò a favore della riscossione di un moderato interesse da parte dei Monti, stabilendo che, in questo caso, non si trattava di usura. Per quanto l’intervento papale sia stato di notevole portata, la sua stessa formulazione, se puntava a chiudere d’autorità la controversia sui montes pietatis, non intendeva né poteva porre la parola fine al dibattito su pratiche legittime e illegittime di credito (Muzzarelli 2001).
In effetti, discorsi etico-economici sul credito, arricchitisi nel Quattrocento con l’apporto di numerosissimi interventi, tra cui si devono ricordare, oltre ai già menzionati Bernardino da Siena, Antonino da Firenze, Angelo da Chivasso, gli esponenti della ‘scuola di Tübingen’ come Gabriel Biel, Conrad Summenhart, e Johannes Eck che nel medesimo anno (1515) della bolla Inter multiplices disputò pubblicamente a Bologna in difesa di complessi contratti finanziari da molti ritenuti usurari.
Un forte elemento di continuità tra tardo Medioevo e prima età moderna è costituito dal permanere di questi dibattiti nel contesto della seconda scolastica, anche all’interno della quale si manifestano, per altro, notevoli discordanze.
Di particolare interesse la posizione di Domingo de Soto il quale si distacca dalla tradizione, non tanto per il numero – in verità assai elevato – delle pratiche che considera usurarie, quanto per la tesi, che si colloca decisamente agli antipodi delle persuasioni condivise dagli autori della scolastica, secondo la quale nella Rivelazione non sarebbe contenuta una condanna dell’usura, ma il reale fondamento della proibizione consisterebbe unicamente nel diritto naturale.
Martin de Azpilcueta, detto il Navarro, assumerà una posizione di forte dissenso rispetto a De Soto (C. Zendri, L’usura nella dottrina dei giuristi umanisti. Martin de Azpilcueta (1492-1586), in Credito e usura, 2005, pp. 265-90). Luis de Molina (1535-1600), esponente di spicco della seconda scolastica gesuita, si distinse per un’interpretazione molto estesa dei titoli di interesse che, nel rapporto creditizio, non potevano essere considerati usura (F. Gomez Camacho S.J., Spanish economic thought in the XVIth and XVIIth century, in Ancient and medieval economic ideas, 1998, pp. 503-62).
È noto che l’affermarsi della Riforma, in realtà in particolare del pensiero di Giovanni Calvino, visto che Martino Lutero la riteneva contraria al diritto naturale (C. Lindberg, Luther’s struggle with social-ethical issues, in Cambridge companion to Martin Luther, dir. D.K. McKim, 2003, pp. 165-78), ha introdotto una radicale messa in discussione dei fondamenti della proibizione dell’usura (Jones 2004).
Tuttavia, si deve tenere presente che, secondo Grozio, esponente della chiesa calvinista dei Paesi Bassi, gli argomenti di ‘diritto naturale’ a favore o contro la liceità del prestito a interesse sono considerati entrambi non concludenti; la proibizione, secondo il giurista olandese, sarebbe fondata esclusivamente sul diritto divino (De iure belli ac pacis, II, cap. 20).
È Pufendorf, invece, in polemica anche con lo stesso Grozio, a dedicare una trattazione alla confutazione del natural law case contro l’usura e a sostenere esplicitamente la legittimità del credito a interesse, purché i tassi siano «moderati» (De iure naturae ac gentium, Libro V, cap. VII, de Mutuo).
I discorsi etico-economici medioevali e moderni non si sono certo incentrati esclusivamente sull’origine della proprietà e le dinamiche del credito. Anche lo scambio ha suscitato un’ampia riflessione volta a individuare criteri per definire l’equità in questo tipo di rapporti. È questa la prospettiva in cui nasce la discussione sul giusto prezzo (anche se spesso indagata dalla storiografia per cogliervi spunti di ‘teoria del valore’), che in realtà si struttura come uno sforzo non di scoprire ‘leggi economiche’, ma di normare un commercio che si possa considerare ‘equo’ e conforme ai bisogni della societas cristiana. Nella pluralità dei fattori che vengono considerati come rilevanti per la costituzione del prezzo, dalla scarsità, all’utilità, alla preferenza soggettiva, all’accordo tra soggetti, agli interventi legislativi, il nesso con principi di ‘diritto naturale’ diviene meno immediatamente riconoscibile, pur fermo restando il principio che la giustizia negli scambi sia un principio razionale autoevidente. In questo dibattito, nell’ambito del quale numerosi pensatori propongono un’equivalenza tra prezzo giusto e quello che noi chiameremmo prezzo di mercato, a una concezione – come rileva Paolo Prodi (2009, pp. 162-67) – progressivamente più impersonale del mercato stesso, si affianca, nella seconda scolastica, la tendenza a denominare naturale il prezzo che si definisce nella dinamica mercantile della domanda e dell’offerta, anche per opposizione rispetto ai prezzi stabiliti dall’autorità politica (F. Gomez Camacho S.J., Spanish economic thought in the XVIth and XVIIth century, in Ancient and medieval economic ideas, 1998, pp. 503-62).
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