MAGGIO, Giustina Maria (Pupella)
Nacque a Napoli il 24 apr. 1910 da Domenico e da Antonietta Gravante.
Domenico (Napoli, 4 marzo 1879 - Roma, 6 giugno 1943), figlio di Vincenzo, "fornaro e pizzaiolo" che aveva bottega nel quartiere di Porta Capuana, fu fondatore di una famiglia di teatranti emblematica di uno specifico modo di fare teatro popolare e in particolare teatro "napoletano". Dotato di una bella voce forte, cominciò, mentre ancora lavorava da apprendista barbiere, a prodursi come cantante da serenata e nelle periodiche, piccole rappresentazioni che si svolgevano in case private. Il passaggio al professionismo avvenne dopo l'incontro, nel 1896 al politeama della Villa del popolo sulla marina napoletana, con una giovanissima cantante "eccentrica" (termine in uso finché non fu sostituito dal più esotico soubrette), Antonietta Gravante (Morano 1880 - Roma 1940), autentica figlia d'arte, discendente da svariate generazioni (sette diceva la tradizione familiare) di artisti circensi. I due formarono un duetto con un buon repertorio di canzoni e numeri misti (ballo e recitazione oltre al canto) e nel 1900 si sposarono: dal matrimonio sarebbero nati 16 figli, molti dei quali morti in giovanissima età e molti destinati a prodursi nel mondo dello spettacolo. Lo svolgersi della carriera di Domenico fu insieme all'origine e lo sfondo dell'attività artistica dei figli, a cominciare dalla Maggio.
Napoli, tra Otto e Novecento una delle capitali dello spettacolo non solo italiano, produsse svariati modi rappresentativi di stampo "popolare", legati al mondo dei vicoli ma amati pure dai borghesi, alcuni originali, tutti, qual più qual meno, discendenti dal café chantant, dalla farsa tradizionale, dal dramma popolare, via via declinati come sceneggiata, avanspettacolo, rivista, i quali richiedevano una gran quantità di specializzazioni e ruoli, per un verso molto caratterizzati - cosicché spesso si fissavano in una sorta di "maschera", secondo la grande tradizione della commedia dell'arte -, per altro verso intercambiabili, secondo le necessità determinate al momento dal pubblico.
Domenico percorse molti sentieri di questa fitta foresta teatrale: inizialmente solo cantante, sia drammatico sia comico-melodista, cominciò a inserire piccole interpretazioni attoriali, via via crescenti per dimensione, i cui argomenti venivano tanto dal repertorio tradizionale, quanto direttamente dalle canzoni; fattosi capocomico negli anni Dieci del XX secolo, arrivò col tempo a produrre veri e propri spettacoli composti, e variati secondo le circostanze, di canzoni cucite fra loro, intermezzi per lo più comici, macchiette, numeri acrobatici, balli, concertati, farse, drammi e più tardi, fra i primi, sceneggiate (vale a dire spettacoli poi definitisi come vero e proprio genere, imbastiti sul testo di una canzone che figurava nel titolo e veniva cantata per intero alla fine). Il "cascione" della compagnia, la magica scatola in cui ogni capocomico teneva il suo repertorio, si arricchiva di testi originali e di copioni "classici" (le farse di A. Petito, i drammi tratti da F. Mastriani, tutto un pot-pourri di sketches e macchiette). Riuscì in breve a farsi un certo nome e il suo periodo migliore, in compagnia con Silvia Coruzzolo e R. Ciaramella, fu ai primi degli anni Venti con un repertorio di sceneggiate a Napoli, dove il suo teatro di riferimento era l'Orfeo (nei momenti "d'oro" anche il Trianon); la compagnia, inoltre, viaggiava per svariati mesi in tournées, in Sicilia soprattutto, Puglia, Calabria (nel 1912 era stata anche in America e qualche volta a Parigi) e ospitò, agli inizi di carriera, nomi destinati a grande celebrità: Totò, Tina Pica, Titina De Filippo, Nino Taranto. Il declino cominciò in corrispondenza con l'ascesa della Cafiero-Fumo, grande compagnia di sceneggiate che aveva in ruolo fino a 25 persone, sicché lentamente Domenico, non in grado di tenerle il passo, ritornò al varietà e soprattutto all'avanspettacolo che, con l'affermarsi del cinema, andava prendendo sempre più piede. Continuò a lavorare per tutti gli anni Trenta con piccole compagnie, alternando all'avanspettacolo prosa e rivista, con lunghe soste a Napoli, tournées al Sud ma spesso anche a Roma, chiamato dall'impresario Giuseppe (detto Peppino) Jovinelli, proprietario dell'omonimo teatro.
A Roma, sul finire del 1939, fu scritturato per tre serate dal teatro Centrale; per svariate circostanze, tra le quali anche lo scoppio della guerra, doveva rimanerci tre anni e qui morirono prima la moglie, che aveva diradato molto la sua presenza in scena fin dal 1925, dopo la morte del figlio Icadio, poi lo stesso Domenico.
Domenico e Antonietta, seconda il repertorio e le necessità, portarono i loro figli in palcoscenico; così capitò anche alla M., che dovette il soprannome con cui fu sempre nota in arte, "Pupella", appunto al fatto di essere messa, anzi legata perché non cadesse, intorno ai due anni, in una culla per una rappresentazione de La pupa movibile arrangiata da E. Scarpetta - il "riformatore" della farsa in dialetto e padre dei tre De Filippo - sulla base di una pochade francese di E. Audran, La poupée.
Da allora la M. non lasciò più il palcoscenico; tuttavia questa realtà esistenziale non fu mai da lei idealizzata, anzi nei suoi ricordi e nelle interviste l'infanzia e l'adolescenza vissute nel teatro e di teatro sono raccontate e sentite piuttosto come un dovere e un destino, a lungo e troppo spesso materiati di fame e disagi.
A Napoli la M. fu iscritta a scuola ma non andò oltre la seconda elementare: a suo dire fu radiata da tutti gli istituti del Regno per aver colpito violentemente una compagna durante una lite, come prima manifestazione pubblica di un "cattivo carattere" che le fu pressoché plebiscitariamente imputato per tutta la vita.
Magrissima, un vero scricciolo - "un passerotto con scritto in fronte tutto il dolore del mondo" - con due begli occhi estremamente espressivi, un naso "importante", non fu mai bella ma seppe da sempre superare questo limite grazie alla prorompente vitalità e alla presenza scenica.
A otto anni già cantava nei panni di uno "scugnizzo" in una protosceneggiata Vita 'e notte e veniva impiegata come spalla del fratello maggiore Beniamino. Avendo in gioventù una bella voce, si produsse spesso come cantante; la sua prima passione fu comunque il ballo e cominciò anche a frequentare una scuola di danza che però interruppe presto. Il debutto in un ruolo di prima attrice avvenne nel 1924, in tournée a Catania, in sostituzione della prima donna di una celebre compagnia d'operetta, Cettina Bianchi, improvvisamente ammalatasi. In effetti Domenico come capocomico non era geloso dei figli: appena si rendevano autonomi era permessa e quasi incoraggiata una scrittura migliore presso un'altra compagnia; non sempre in accordo fra loro, questi, poi, lavorarono spesso insieme ma mai tutti insieme.
Un incidente sui diciotto anni, fra il 1927 e il 1928, fu la circostanza che, chiudendole la possibilità di prodursi come ballerina professionista, orientò definitivamente la M. al teatro "di parola". Doveva passare del tempo però prima che arrivasse alla celebrità e alle grandi compagnie; la gavetta fu lunga e per anni la M. che intanto, nel 1931, aveva avuto l'unica figlia, Maria, si produsse nel vario e insieme stilizzato repertorio del teatro popolare: sceneggiate, drammoni tratti da celebri feuilletons come La cieca di Sorrento o Le due orfanelle, farse, ma anche rivista, avanspettacolo, con o senza i fratelli, su tanti palcoscenici, tante "piazze" secondo la migliore tradizione del teatrante, con un cursus honorum su cui si hanno indicazioni confuse, basate su ricordi e testimonianze non sempre attendibili, difficile da ricostruire. Nel 1943 fece anche un serio tentativo di lasciare il teatro impiegandosi in un'industria elettrica a Terni; ma durò poco e nell'immediato dopoguerra riprese a lavorare con i fratelli Dante ed Enzo nella compagnia di G. Cioffi, autore di canzoni di successo (Scalinatella, Agata).
L'autentica svolta della sua carriera si ebbe nel 1954, quando fu segnalata, sembra dal fratello Beniamino, a M. Mancini, il quale stava reclutando attori per la Scarpettiana, la compagnia voluta da Eduardo De Filippo per il suo teatro, l'appena rinnovato S. Ferdinando, dove il grande attore-autore voleva mettere in scena, accanto al proprio, il repertorio classico napoletano e soprattutto quello paterno. Fu l'inizio di un rapporto attoriale destinato a durare più di vent'anni, con pause e riprese dovute in parte a due caratteri difficili ma anche, da un certo momento in poi, a un diverso modo di praticare il mestiere.
La M. cominciò con parti progressivamente sempre più significative nei titoli di Scarpetta e compagnia: un vorticare di ruoli da quelli da pochade, francamente buffoneschi, a quelli più sottilmente sentimentali.
Un lavoro che le permise di mostrare la perfetta padronanza dei tempi comici e la capacità mimica conquistate sulle tavole del varietà, cui il tempo e il magistero eduardiano aggiunsero la sapienza e l'espressività dei silenzi e delle mezze voci, la forza tragica che erano già nel volto della M. (la "faccia di terracotta" di cui parlava Eduardo), tutti elementi necessari per conquistare il dono del grande attore, quella "verità teatrale" che la M. seppe raggiungere.
Il suo primo grande ruolo, quello che la incoronò prima donna della compagnia ed erede riconosciuta di Titina, fu la moglie in Natale in casa Cupiello, cui si aggiunsero in successione, in rappresentazioni napoletane o in tournées nelle maggiori città d'Italia, quasi tutti i principali titoli del teatro di De Filippo.
In questo ambito, fra i molti in cui la M. raggiunse una perfezione espressiva universalmente riconosciuta, giova ricordarne due in particolare: Filomena Marturano, perché ruolo femminile mitico del teatro napoletano, ipotecato appunto dall'interpretazione di Titina, per cui era stato scritto e che si riteneva insuperabile; la M., senza forzare e con estrema naturalezza, riuscì a dargli una colorazione diversa e altrettanto significativa, accentuando del personaggio più che la dimensione rassegnata e sofferente, la combattività, lo spirito di rivalsa nei confronti dell'uomo cui ha dedicato la vita. E soprattutto Sabato, domenica e lunedì, commedia pensata e scritta per lei per ammissione dello stesso Eduardo (1959), incentrata sulla tensione montante nella coppia al centro della vicenda per l'immotivata gelosia del marito, dove il personaggio di Rosa Priore acquista profondità insospettate proprio per l'interpretazione della M., che riusciva a comunicare tutte le sfumature di un carattere femminile forte e vitale, ma insieme vittima di inattese fragilità alimentate dalla segreta consapevolezza di non essere bella.
Raggiunto il massimo nell'ambito del teatro eduardiano, la M., pur senza abbandonarlo mai del tutto e ritornando spessissimo e per lunghi periodi in compagnia (almeno fino alla fine degli anni Settanta, quando sul piano artistico si ebbe una rottura definitiva), sentì il bisogno di tentare altre strade.
Dimostrava così di essere, a differenza dei fratelli e per certi versi anche dello stesso Eduardo, una di quegli artisti che, senza rinnegare il loro passato, anzi servendosene per affinare nuove sensibilità - la sua comprensione dei ruoli in assenza di una solida struttura culturale non fu infatti solo istintiva, ma mediata dall'esperienza e dalla fedeltà alla propria identità -, non si fermano mai e continuano a mettersi alla prova, ad accettare nuove sfide.
Nel prosieguo di una lunga carriera che doveva arrivare fino agli anni Novanta, vennero così, in successione e citando gli episodi più significativi: anzitutto l'esperienza de L'Arialda, di G. Testori, regia di L. Visconti (compagnia Morelli-Stoppa, Roma, teatro Eliseo, dicembre 1960), testo dei più dirompenti di quegli anni e ritenuto scandaloso.
Il ruolo della "terrona" Gaetana Molise, vedova Carminati, valse alla M. per la sua interpretazione "accorata, penetrante, umana" il premio S. Genesio.
Si avvicinò poi al teatro borghese e di "conversazione", ma ancora fortemente partenopeo, di G. Patroni Griffi.
Nel 1963 con In memoria di una signora amica (con Lilla Brignone, G. Giannini e per la regia di F. Rosi) e nel 1974 con Persone naturali e strafottenti (la storia di quattro reietti di Piedigrotta, ruolo di Violante). Nel 1967, questa volta per la regia dello stesso Patroni Griffi, aveva interpretato il testo di un altro grande del teatro napoletano Napoli notte e giorno, di R. Viviani. Nel 1975 si era avvicinata alle fonti settecentesche di quella tradizione con La monaca fauza, di P. Trinchera.
Nella stagione 1978-79 la M. entrò in rapporto con lo Stabile dell'Aquila e con il suo direttore, il regista A. Calenda, che le propose il ruolo di Pelagia Vlassova nel dramma La madre, che B. Brecht aveva tratto da un testo di M. Gor(kij.
Accolta la proposta la M. riuscì nella non facile impresa, per un verso, di depurare il personaggio brechtiano - una donna semplice e ignorante che per amore del figlio si avvicina alla cultura e per questa via diviene consapevole di se stessa e dei suoi propri diritti - dalle rigidezze ideologiche e dall'impianto didascalico; per l'altro, di recuperare, in parte forse proprio per il tramite della sua originaria esperienza della "maschera", una recitazione naturalmente "estraniata", perfettamente congrua al senso profondo e migliore dell'intendimento di Brecht. Questo indirizzo di recitazione giunse a perfetto compimento nel 1987 con l'interpretazione di uno dei testi sacri del teatro moderno, Aspettando Godot, di S. Beckett, ruolo di Lucky, con M. Scaccia, F. Fiorentini e S. Castellitto.
Nel 1984, sempre con Calenda, autore del testo con M. Prosperi, la M., che dal 1976, dopo la fine del suo unico matrimonio, contratto nel 1954, si era trasferita da Napoli a Roma, arrivò, sia pure a suo modo, a un altro ruolo capitale di ogni esperienza attoriale, quello di Amleto.
Questa sera Amleto: una vecchia attrice durante la guerra, per l'assenza del primo attore, è costretta a sostituirlo, improvvisando, appunto nel ruolo di Amleto; testo che ricorda nell'impianto La parte di Amleto, che Eduardo aveva scritto nel 1940.
Nel 1981, intanto, la M. era concretamente ritornata al repertorio che aveva accompagnato la vita professionale della sua famiglia, e quindi i suoi anni giovanili, rappresentando La farsa.
Lo spettacolo era composto da testi di A. Petito e la M. vi interpretava Pulcinella, una giovane ventenne, e Il portaceste del camerino della signora Cazzola, dove il facchino addetto al guardaroba di un'attrice descrive il mondo del teatro, il vecchio teatro ottocentesco, come lo vede lui, da dietro le quinte.
Fu il prologo a un altro spettacolo destinato a grande fama, costante successo e riconoscimenti quando, nel 1982, Calenda riuscì a riportare insieme tutti i Maggio ancora attivi (con l'eccezione di Dante), la M., Rosalia e Beniamino, liberi di spaziare nel loro repertorio e, in buona sostanza, nella loro storia: 'Na sera 'e Maggio.
Nella rappresentazione (prima al Festival di Montecelio di Guidonia il 31 luglio, poi ripresa per vari anni, fino a toccare le 300 repliche, in tutta Italia e anche al Festival d'automne di Parigi, nel 1984, dove ebbe tre serate) Beniamino e Rosalia presentarono duetti, canzoni, scene comiche, letture di poesie, la M. tenne per sé Pulcinella e Il portaceste; il pubblico, in quegli anni spesso tediato a teatro da un eccesso di intellettualismi, ma anche la critica scoprirono o riscoprirono tre autentici attori e una realtà teatrale, e soprattutto umana, viva, divertente, commovente.
Negli anni Novanta la M., trasferitasi a Todi, rallentò moltissimo l'attività ma continuò comunque a rimanere vicina al mondo del teatro: si occupò del festival estivo di Todi, curò qualche regia, scoprì tra i giovani attori che le capitava di incontrare dei buoni talenti come G. Cannavacciuolo e V. Salemme.
I rapporti della M. con il cinema non furono né intensi né particolarmente significativi.
Si possono ricordare due brevi apparizioni in La ciociara, di V. De Sica (1961), e Le quattro giornate di Napoli, di N. Loy (1962); e, più interessanti, le partecipazioni ad Amarcord di F. Fellini, in cui ricoprì il ruolo della madre di Titta, il protagonista, e a Nuovo cinema Paradiso, di G. Tornatore (1988); nel 1990 apparve nel ruolo di fianco di zia Memè nel rifacimento per la televisione di Lina Wertmuller (in due puntate, ma passò anche nelle sale) di Sabato, domenica e lunedì, con Sophia Loren nel ruolo che era stato il suo cavallo di battaglia. Per la televisione aveva all'attivo molte interpretazioni teatrali, spesso con Eduardo, in alcune celebri registrazioni dei lavori di quest'ultimo.
La M. morì a Roma l'8 dic. 1999.
Dei fratelli della M. che praticarono lo spettacolo, due, il già ricordato Icadio e Margherita morirono assai giovani; appena più rilevante la presenza di Vincenzo (Napoli, 10 ott. 1902 - 13 luglio 1973), l'unico ad aver terminato gli studi medi, dopo i quali si iscrisse alla Nunziatella, che però abbandonò presto per tornare al teatro; dal 1916, anno del suo primo ruolo di un certo peso in un dramma tratto da un lavoro di F. Mastriani, al 1960, quando si trasferì a Roma continuando a lavorare solo per il cinema in piccole o piccolissime parti (per esempio il ruolo del facchino d'albergo in Lo sceicco bianco di Fellini [1952]), pur essendo il maggiore fu di fatto l'eterno secondo, destinato prestissimo a fare da spalla ai fratelli più piccoli e più bravi come la M. e Beniamino; fra gli spettacoli più importanti: Napoletani a Napoli di E.L. Murolo (1956-57), con Beniamino, Dante e Rosalia; Girandola di successi (1958).
Beniamino (Napoli, 6 [o 10] ag. 1907 - 6 sett. 1990) fu, dopo la M., la personalità artisticamente più rilevante della famiglia. Buttato in palcoscenico a 5, 6 anni come tutti i suoi fratelli, cominciò come ballerino e cantante ma nel 1918 (secondo alcune fonti nel 1920) si spezzò una gamba che, per essere stata trascurata, gli rimase rigida; crescendo, anche la voce perse di smalto e fu quindi comico, attore di farsa, dramma e sceneggiata, duettista con i fratelli. Il suo mondo teatrale, nonostante un'intensa attività nel cinema (partecipò a 34 film), fu soprattutto quello dell'avanspettacolo (finché si poté parlare di avanspettacolo teatrale, cioè non quello squallido e volgare dopo gli anni Sessanta); della rivista (le più note: Dente per dente, 1943; Bottega della rivista, di Nelli-Mangini, a Roma durante la guerra; Venere con i baffi, di M. Amendola - M. Maccari, musiche di G. D'Anzi, 1957-58; Un italiano in Italia, con Elena Sedlak, 1958; nel 1961 sostituì F. Franchi in Rinaldo in campo, di Garinei e Giovannini e nel 1964 vinse il Festival della rivista organizzato da questi ultimi al Sistina); di Piedigrotta (tutti gli anni gli editori musicali gli davano una canzone da lanciare); della sceneggiata (in particolare negli anni Cinquanta al teatro Duemila di Napoli e poi con la rinascita del genere a metà dei Sessanta). Spesso in coppia con la sorella Rosalia, visse la vita del teatrante capace di cambiare tre compagnie a stagione, di fare tre spettacoli al giorno, come usava al Duemila, e di districarsi in qualsiasi parte e con qualsiasi pubblico; ma il ruolo in cui eccelse fu quello del "mamo", la maschera del tonto, più o meno finto, la cui comicità nasce dalla lentezza, dalla ridicola reazione alle sollecitazioni della spalla; questo tipo, una "maschera" che si può far risalire tranquillamente alle Atellane, ma che di fatto esiste in ogni comicità, Beniamino la declinò in una forma surreale ed estraniata, clownesca e lunare per cui, negli anni Ottanta-Novanta, quando rinacque l'interesse critico per il teatro "minore", fu definito l'unico attore brechtiano in Italia (dal critico francese B. Dart), "la via italiana al teatro epico" (Carlo Cecchi), l'unica grande maschera dopo Totò, un incrocio fra B. Keaton e A. Musco. La definizione migliore di se stesso la dette da solo, sottolineando sinteticamente e malinconicamente i caratteri della sua maschera (il viso bianco di biacca, enormi sopracciglia nere, gli occhi cerchiati di blu, i vestiti fuori misura): "sono moscio nel parlare, sono lento a camminare, sono basso di statura: 'nu pupazzo 'e segatura".
Dante (Napoli, 2 marzo 1909 - Roma, 3 marzo 1992) fu il più autonomo dalla famiglia sia come formazione sia nella carriera, forse in parte perché, ragazzo vivace e disobbediente, fu coinvolto giovanissimo in piccoli furti e il padre, per raddrizzarlo, lo lasciò due anni nel collegio punitivo Niccolò Tommaseo di Tivoli; quando lo riprese con sé gli fece fare l'attrezzista e quando si accorse che gli interessava recitare lo affidò per l'apprendistato a Viviani, di cui era amico; in seguito passò con la compagnia di Achille Maresca e, nel 1935, fu due anni con Anna Fougez e avviò una carriera intensa ma senza particolari distinzioni. Con due folte sopracciglia scure che gli davano una "comicità sinistra" come scrisse una volta di lui A. Savinio ("porta in sé tutta l'oscurità del Mezzogiorno") fu un'ottima spalla per O. Spadaro, V. Riento, A. Fabrizi, Totò, C. Dapporto in teatro ma anche, dagli anni Quaranta, soprattutto al cinema (primo film Ultimo amore di L. Chiarini, 1947). Nel cinema, immediatamente riconoscibile per l'espressione ammiccante, furba e maliziosa (lo chiamavano "lo spiritato"), si impegnò in un susseguirsi di ruoli di secondo e terzo piano, quasi sempre di amico devoto e fidato (fra i tanti vale citare i tre film di Fellini che evidentemente ne gradiva la maschera: Luci del varietà, codiretto con A. Lattuada, 1951; Le tentazioni del dottor Antonio, episodio di Boccaccio 70, 1961; I clowns, 1970).
Rosalia (Palermo, 1921 - Napoli, 25 luglio 1995), in quanto la bella di famiglia, "un girasole gaudioso", fu giocoforza soubrette: debuttò a Firenze al teatro Rex; nel 1937-38 fu nella compagnia di Anna Fougez con Dante; negli anni 1940-43 a Roma in compagnia col padre; nel dopoguerra fu scritturata da L. Ardenzi e da R. Paone; negli anni Sessanta passò anche lei alle sceneggiate con Beniamino e con M. Merola (Zappatore, Mammà, Chiamate Napoli 081(). Dopo un periodo difficile, in cui pensò di abbandonare la professione, nel 1968 riprese partecipando al film Ménage all'italiana, come madre della protagonista, interpretata da Romina Power; quindi ritornò alle sceneggiate al teatro Margherita con Merola e Trottolino. Dopo il successo di 'Na sera 'e Maggio, continuò a recitare e apparve spesso in televisione come ospite di talk-shows. Come ha scritto M. D'Amico, "Non era un'attrice versatile nel senso moderno ma la sua collocazione nello spettacolo leggero di arte varia, versione partenopea, quale furoreggiò agli inizi del secolo, prima che il cinema lo spingesse da parte e la Tv lo annientasse, era precisa" (necr. in La Stampa, 26 luglio 1995).
Fonti e Bibl.: Gran parte delle notizie sulla M. e la famiglia vengono da ritagli, interviste e ricordi: sono quindi spesso imprecise e qualche volta, per quanto riguarda date e luoghi, contraddittorie; si veda comunque la raccolta di recensioni e ritagli sulla M., su Beniamino, Dante e Rosalia conservata nella cartella Maggio, presso la Biblioteca teatrale del Burcardo a Roma (in particolare necrologi in La Repubblica, La Stampa e Corriere della sera, 8 sett. 1990, per Beniamino, e in La Repubblica e Corriere della sera [di G. Raboni], 9 dic. 1999, per la M.); vedi ancora per la M. sue interviste, da lei raccolte e ordinate, in P. Maggio, Poca luce in tanto spazio, Todi 1995. Per la famiglia, Follie del varietà, a cura di S. De Matteis - M. Lombardi - M. Somarè, Milano 1980, ad ind.; Si fa per ridere ma è una cosa seria, a cura di S. Bernardi, Firenze 1985, ad ind.; N. Masiello, Tempo di Maggio, Napoli 1994; S. Lori, Il varietà a Napoli: da Viviani a Totò, da Pasquariello a De Vico, Roma 1996, ad indicem.