GIUSTINIAN, Ascanio, detto Giulio
Quarto dei figli maschi di Antonio del ramo a S. Stae e di Lucrezia Surian di Nicolò di Girolamo, nacque a Venezia il 28 sett. 1640, e fu detto Giulio per distinguerlo dall'omonimo fratello maggiore.
Di famiglia ricca e prestigiosa (lo zio Giovanni era stato ambasciatore presso quasi tutte le principali corti europee), non appena raggiunto il requisito dell'età il G. intraprese la carriera politica ricoprendo per un biennio il saviato agli Ordini, ancorché ogni volta per pochi mesi (dal 4 novembre al 31 dic. 1665 e dall'8 maggio al 30 sett. 1666); dopo di che fu provveditore sopra gli Uffici (26 nov. 1666 - 25 nov. 1667) e savio alle Decime per pochi giorni, dall'11 genn. 1668 sino al successivo 4 febbraio, quando entrò a far parte dei savi di Terraferma, restandovi sino a giugno. La spiegazione di questo anomalo e frammentario avvio di carriera (per solito l'iter consisteva nella progressione a partire da savio agli Ordini, savio di Terraferma sino a savio del Consiglio) va ricercata nella contemporanea presenza di altri due Giustinian (benché di rami diversi: Pietro di Francesco e Girolamo Ascanio di Girolamo) tra i membri del Collegio; ma dopo questo incerto esordio la carriera del G. ebbe uno sviluppo lineare e costante nell'ambito delle più prestigiose magistrature. Anzitutto il saviato di Terraferma gli fu riconfermato per altri quattro anni, ininterrottamente dal 1669 al 1772, sempre per il primo semestre. Poi i concittadini vollero addossargli un rettorato e lo elessero podestà a Bergamo il 19 apr. 1672; il G. però riuscì a far "tagliare" l'elezione optando per la sede di Vicenza, che gli venne affidata appena quattro giorni dopo, il 23 aprile, ma neppure questa città doveva ospitarlo, dal momento che egli riuscì (13 novembre) a farsi eleggere podestà a Verona, dove soggiornò dall'inizio del 1672 alla primavera del 1673.
Nominato ambasciatore in Francia il 16 nov. 1671, il G. ricevette le commissioni solo il 6 maggio 1673, giunse a Parigi nel novembre, accompagnato dal fratello Girolamo, e vi si trattenne sino al luglio 1776. Di notevole levatura è la relazione conclusiva, sottesa da manifesta ammirazione per un monarca allora all'apogeo della potenza.
Un apprezzamento annunciato sin dall'esordio ("Non può il gran mondo di Francia esser totalmente compreso da una mente"), e che poi si esplicita nell'esaltazione del re Sole, di cui tralascia il ritratto sin troppo conosciuto per riassumerne il connotato vincente nell'impegno della gestione diretta del potere: "Osservò che i di lui predecessori comprarono i riposi a contanti di gloria acquistata da' loro primi ministri […], onde seppellita con Mazarino la carica ed il nome di quella, negò che altra mano maneggiasse lo scettro che la sua sola". Alla figura di Luigi XIV bastano peraltro poche righe, mentre il G. si sofferma piuttosto a descrivere gli effetti della sua opera, riflesso della demiurgica potenza sovrana; si susseguono quindi i ritratti dei principali ministri, a cominciare da M. Le Tellier, marchese di Louvois (con il quale aveva dovuto trattare la spinosa questione dei corrieri), le cui "massime sono […] di esaltare in ogni forma la potenza del regno […]. Crede il regno di Francia superiore ad ogni forza e che non vi sia potenza, benché unita, che possa turbarne la durata e la gloria. Non approva le repubbliche, conosciute come argini ai torrenti delle monarchie". Sobri cenni a J.-B. Colbert ("senza riguardo al poco gusto dei sudditi ha posto in istato l'erario regio, tenendolo sempre anticipatamente provvisto almeno per la spesa di un anno avvenire"), a S. Arnauld marchese di Pomponne, al Laurillier; poche righe sono parimenti accordate ai membri della famiglia reale, all'economia (solo un cenno agli "specchi e cristalli [che] con danno notabile di questa Dominante ivi perfettamente si fabbricano"), alla finanza, alle strutture amministrative e giudiziarie; più spazio è invece lasciato alle forze militari, oggetto di particolari attenzioni da parte del sovrano quale fondamentale strumento della sua affermazione politica ("Non devo omettere che a consolazione dei soldati si è principiata a mio tempo e finita poi prima del mio partire una fabbrica capace di ventimila persone, destinata al ricovero degli invalidi"); una politica prestigiosa, ma dai costi elevatissimi come prova il "tanto incendio che arde miseramente lo stato del Cristianissimo". Una minuziosa disamina dei rapporti tra la Francia e le diverse potenze europee, con consolatorio bilancio per Venezia, conclude il documento, che s'impone per lucidità ed eleganza espressiva.
Rimpatriato con il titolo di cavaliere, il G. ricoprì la carica di censore, alla quale era stato eletto durante la legazione parigina, ma già il 3 luglio 1677 lasciava nuovamente Venezia alla volta di Vienna, per assumere l'ambasceria di Germania.
Avrebbe trascorso oltre quattro anni tra Vienna e Praga, in una società assai meno brillante e aperta di quella parigina e per di più ripetutamente minacciata dalla peste. Anche di questa legazione possediamo la relazione, datata 28 febbr. 1682: è uno scritto abbastanza contenuto, strutturato sulla falsariga di tanti consimili documenti; rispetto al precedente appare forse meno incisivo, con indulgenza a involuzioni stilistiche di sapore barocco. Soprattutto è ispirato a notevole prudenza, il che si spiega tenendo presente la congiuntura politica in cui venne redatto, nell'imminenza cioè del conflitto austro-turco della Lega santa (1684) in cui sarebbe stata coinvolta anche Venezia. Positivo il giudizio sull'imperatore Leopoldo, "insignito di doti le più rare […], potendo esser d'essempio a' successori nella sublimità dell'ingegno, contenendosi con tal morigeratezza, ch'asseconda più il genio nel coprirla che nel farla palese. Parla perfettamente cinque lingue […], si tiene occupato molt'hore del giorno nel leggere et scrivere […]; impiega gran parte del tempo in spirituali essercitij, nelle caccie e nella musica, nella quale trova maggiore il piacere". Ma Leopoldo non vale Luigi, né i suoi virtuosi costumi sortiscono effetti paragonabili all'autorevolezza del secondo; così l'azione imperiale è troppo spesso frenata dalle prevaricazioni della nobiltà di corte e dei magnati ungheresi, sempre pronti a giocare la carta dell'alleanza con il Turco ("Agitato da tali confusioni interne de' ministri, da' loro ambitiosi ragiri, dall'attentione di colpirsi l'un l'altro, è ben facile comprender come passi il governo di quella Corte; della quale […] dirò ch'ogni operatione et ogni consiglio è prodotto da occulte intentioni e diretto da secondi fini, e che sotto il manto del cesareo servitio s'ascondono per il più gl'interessi e maneggi privati"). Si spiega quindi la persistente debolezza politica e finanziaria, con pesanti ripercussioni sulla forza militare: "Se è mal servito nell'erario, non è l'Imperator ben condotto negli affari delle militie. Lo stato abbondante per se stesso de' popoli, i popoli dotati di complessioni robuste aprono un'habilità a chi dirigge di poter formare tali esserciti, che […] potrebbero […] estendere i Stati e trionfare de' suoi nemici; ma la pietà di Cesare, ch'ha sempre nel suo buon genio nutrito gli ulivi alla quiete de' sudditi, l'ha divertito da dimostrarsi […] più bellicoso". Certo, il G. non poteva sapere che presto l'Impero avrebbe potuto avvalersi della capacità militare di un Eugenio di Savoia, ma questo solo in parte può scusare la sua errata valutazione della potenzialità asburgica, che si manifesta pure a proposito dei rapporti con Venezia: "A questa Serenissima Republica corrisponde Cesare con benignissimo amore […]; ritrovandomi obligato di considerarle che la preservatione di sua persona, e sicurezza de i di lui Stati, si possono annoverare tra gl'interessi di questa gran patria. Quella parte del publico Dominio, che riguarda la Germania, nella di lui sosistenza godrà una continua tranquillità". L'Austria, insomma, non desta timori, premuta com'è dai Turchi, vessata da turbolenze, funestata da ricorrenti calamità, che il G. non manca di rammentare con un tocco di lugubre compiacimento per i disagi e pericoli affrontati: "Intorbidato il cielo germanico di pestifere influenze, convertita la città in un sepolcro de spirati e mal vivi, profugo Cesare e fugitiva la Corte, in ogni parte spirava orrore, e spavento".
Ritornato a Venezia a fine agosto del 1681, il G. ottenne il posto di savio del Consiglio, che tenne sino al 31 marzo 1682; dall'aprile al settembre 1682 e dall'ottobre 1683 all'ottobre 1684 fu quindi provveditore all'Armar, e nel frattempo fece parte del Consiglio dei dieci (ottobre 1682 - settembre 1683). Ancora savio del Consiglio per il primo semestre del 1684, prese parte alle discussioni che si svolsero in Senato nel gennaio di quell'anno: si trattava di decidere se accedere alla Lega antiturca, dopo che la vittoria del Kahlenberg aveva aperto nuove insperate prospettive contro il secolare nemico. La sua posizione fu ambigua: in un primo tempo si disse contrario all'intervento, ma nella fase risolutiva del dibattito finì per schierarsi a favore della Lega; forse il sorprendente successo degli imperiali e loro alleati del settembre 1683 aveva incrinato le sue convinzioni circa l'endemica debolezza dell'Impero, che però a questo punto, con totale rovesciamento di prospettiva, poteva anche rivelarsi un alleato potente e pericoloso, considerate le sue tradizionali rivendicazioni sulla Dalmazia. Il G. fu ancora savio del Consiglio per poche settimane, dal 25 gennaio alla fine di marzo del 1685; il 17 maggio venne eletto, assieme a Girolamo Zen, ambasciatore straordinario presso Giacomo II d'Inghilterra in occasione della sua ascesa al trono, con la speranza - così le commissioni - di ottenere aiuto contro i Turchi, in considerazione della nota inclinazione al cattolicesimo del sovrano.
Si trattava di una mossa propagandistica, perché a Venezia non si pensava di riuscire nell'intento; tuttavia la legazione, pur breve, fu costosissima e sontuosa. Quale importanza il Senato le attribuisse si può desumere anche dalla celerità con cui i due ambasciatori intrapresero il viaggio. Lasciata Venezia nella stagione peggiore, il 1° ott. 1685, con un gran seguito di parenti e amici (oltre ai nipoti - rispettivamente: Antonio Giustinian di Girolamo [II], Vincenzo e Marco Zen di Domenico - fecero parte della comitiva Nicolò Cappello, Gabriele Emo, Marco Gradenigo, Sebastiano Mocenigo, Girolamo Morosini, Bernardo Trevisan), essi giunsero a Londra il giorno di Natale e furono ricevuti dal re il 30 dicembre e ancora il 10 gennaio; lasciata l'Inghilterra il 1° febbraio, il 20 maggio 1686 lessero la relazione in Senato. Era un documento di grande perspicacia e finezza, che colse appieno la contrapposizione di forze che avrebbe condannato alla paralisi l'azione dello Stuart. Non si illusero, i veneziani, nonostante le positive qualità che ritrovavano in Giacomo ("è la Maestà Sua di umanissimo aspetto, di tratti amabilissimi […]. Li divertimenti non lo stornano dalla attenzione agli affari del governo […]. Invigila con particolare studio a migliorare l'ecconomia […], determina con risoluzione e vigore"); non era possibile lusingarsi sulla "tenuta" del nuovo sovrano perché in Inghilterra "vive da qualche tempo tenacemente radicata nei petti di quella gente una costante brama di formare di sé medesime un libero e ben ordinato governo […]. Da questo fonte è certamente diramato il torrente che innondò di sangue incolpato la real casa". Ben note le cause di tale disposizione d'animo: "l'essere passati i ricchi capitali e le opulenti rendite degli ecclesiastici in possesso dei laici, servirà sempre mai di ostacoli potenti ai regi pietosi sforzi". Un quadro, dunque, di notevole chiarezza politica, nel quale i veneziani non mancano di lasciare un poco di spazio a considerazioni di ordine economico, a suggerire un esplicito paragone con l'ormai languido emporio realtino: a Londra, scrivono, "fiorisce con pieno concorso il più vivo negozio, e l'intiera università delle arti vi travaglia a perfezione gran copia di eccellenti manifatture. L'acciaro specialmente, che ha ricche miniere nei stati di V. S., rimane trasportato colà e da maravigliosa industria convertito in usuali finissimi lavori con notabile profitto di quella piazza, quando la professione di un siffatto mestiere doverebbe esercitarsi con più naturale vantaggio in questa Dominante".
Rimpatriato, per un quindicennio il G. non lasciò le lagune, coinvolto in un incessante susseguirsi di cariche: savio del Consiglio per il semestre aprile-settembre 1696, poi ancora dall'ottobre 1689 al marzo 1690 e dall'ottobre 1691 al marzo 1692 e così nel successivo quinquennio (1692-96), sempre per lo stesso arco di tempo ottobre-marzo, e infine per il primo semestre degli anni 1699 e 1700. Fu inoltre sopraprovveditore alla Sanità dal 10 ott. 1686 al 9 ott. 1687 e dal 5 apr. 1696 al 4 apr. 1697; nobile sopra i Lidi (magistratura straordinaria che si attivava in tempo di guerra) dal 27 nov. 1686; provveditore sopra Danari dal 9 ott. 1687 all'8 ott. 1689 e dal 2 apr. 1695 al 1° apr. 1697; consigliere ducale per il sestiere di Santa Croce (1° giugno 1688 - 31 maggio 1689; 1° giugno 1690 - 31 maggio 1691; 1° febbr. 1697 - 31 genn. 1698); provveditore all'Arsenal (giugno-settembre 1689); inquisitore di Stato (eletto il 1° giugno 1690); provveditore sopra Ogli (giugno-settembre 1691); riformatore dello Studio di Padova (8 ag. 1691 - 7 ag. 1693; 7 marzo 1699 - 6 marzo 1701); provveditore alle Artiglierie (aprile-settembre 1692); alle Biave (aprile-settembre 1694); alle Pompe (3 apr. 1694 - 2 apr. 1696); sopraintendente alle Decime del clero (aprile-settembre 1695); provveditore sopra le Miniere (eletto il 30 apr. 1696). Il 25 giugno 1696 venne eletto ambasciatore straordinario in Polonia, a causa della morte di Giovanni III Sobieski. Con la Polonia la Repubblica non intratteneva regolari rapporti diplomatici, ma essendo in corso la guerra antiturca della Sacra Lega, da diverso tempo era residente a Varsavia il "cittadino" Girolamo Alberti; a costui il Senato aveva pensato di affiancare pro tempore un ambasciatore, dal momento che il desiderio di Pietro il Grande di entrare nella coalizione sollevava i timori dei Polacchi, sospettosi del potente vicino russo. Tuttavia la confusa e convulsa crisi in cui precipitò ben presto il Regno polacco (risolta solo l'anno dopo con l'elezione al trono di Augusto II di Sassonia) sconsigliò il governo marciano dal compiere un passo che avrebbe potuto coinvolgerlo in futuri imprevedibili impegni, e così il G. non lasciò Venezia.
Revisore e regolatore alla Scrittura nel 1698-99 e, nello stesso periodo, esecutore contro la Bestemmia, il 28 dic. 1700 il G. risultò eletto podestà a Padova; lo era già stato un anno e mezzo prima, l'8 giugno 1699, ma allora aveva rifiutato l'oneroso incarico. Alla seconda elezione dovette accettare la nomina, probabilmente con l'assicurazione che al nuovo reggimento sarebbe seguito - come in effetti seguì - il remunerativo bailato a Costantinopoli. Della permanenza a Padova del G., protrattasi per ventidue mesi, possediamo la relazione, donde ricaviamo che, percorsa la Terraferma dai contrapposti eserciti francese e imperiale, impegnati nella guerra di successione spagnola, aveva dovuto gravare i suoi amministrati, già colpiti da una grave carestia, con straordinarie contribuzioni, puntualmente versate "con miracolo di fede" dalla popolazione di un "miserabile territorio". Largo spazio è concesso allo Studio, sui cui mali il G. si sofferma non per esternare le usuali generiche lamentazioni sulla "estrema declinatione" degli iscritti, oramai ridotti a poche centinaia di unità, ma per proporre interventi mirati a risollevarne le sorti, per quanto riguarda le spese addossate agli studenti e anche per la loro disciplina, la capacità dei docenti e persino le procedure invalse presso la facoltà medica nell'anatomia dei cadaveri.
Al termine del mandato il soggiorno a Venezia fu breve, perché già il 23 febbr. 1703 il G. salpava alla volta di Costantinopoli dove giungeva il 30 giugno, accolto dal predecessore Lorenzo Soranzo. Vi sarebbe rimasto per sette anni, un tempo quasi doppio rispetto all'ordinaria durata della carica; non per sua volontà né con suo gradimento, ché il suo giudizio sull'Impero ottomano rimase sempre improntato alla tradizionale diffidenza per un mondo che gli appariva estraneo e lontano: anche nell'ultimo dispaccio non avrebbe mancato di definirlo "un paese di barbari, ove non regna che insidie e avanie".
Era giunto da poco a Costantinopoli quando assistette all'ingresso nella capitale del nuovo sultano Ahmed III ("corpo magro, faccia lunga, color bianco, occhio nero, con poca barba, nutrita solo dopo la di lui esaltazione al trono nell'età sua presente, che apparisce d'anni 32 in circa"); l'avvento del nuovo monarca sarebbe stato accompagnato, secondo una prassi non insolita alla corte ottomana, dall'incarcerazione dei vecchi ministri e dalla distribuzione delle loro ricchezze ai giannizzeri, senza che tale panacea riuscisse a porre fine agli incessanti intrighi, ai torbidi e alle violenze che degradavano l'ambiente, paralizzavano la trattazione degli affari e, naturalmente, complicavano il già difficile compito del bailo. Queste, almeno, le ricorrenti lamentele del G., che pure tra l'agosto 1705 e il settembre 1706 ebbe accanto a sé l'abile ed esperto Carlo Ruzzini, inviato colà nella veste di ambasciatore straordinario per il rinnovo delle capitolazioni di Carlowitz. Sin da allora il G. aveva chiesto che fosse nominato un successore, accusando cattiva salute e persistenti malesseri. Era stato votato Angelo Morosini, ma ne era seguito un crescendo di avversità: il Morosini, eletto bailo il 27 giugno 1706, venne dispensato il 25 luglio e rieletto il 27 dicembre, ma morì prima di partire. Tutto questo costrinse il G. a prolungare la dimora costantinopolitana. Solo nel maggio 1710 poté rimpatriare, portando con sé la convinzione dell'ineluttabile decadenza della potenza turca, minata dalla corruzione interna e premuta ai confini dalla minaccia russa: nulla gli faceva presagire temporanee riprese o possibili colpi di coda, come invece sarebbe accaduto di lì a pochi anni quando i Veneziani dovettero subire l'invasione e la perdita della Morea: in tale errata valutazione - la seconda, dopo il giudizio negativo espresso a suo tempo sulle forze degli Asburgo - possiamo cogliere i limiti della capacità dell'uomo, diplomatico certamente abile ed esperto, ma privo di una visione politica d'ampio respiro; a meno che - ma è difficile pensarlo - egli non volesse guadagnarsi la benevolenza del Senato accarezzandone l'intima aspirazione a una pace fondata sul prestigio recentemente acquisito sul campo militare, e in particolare nel settore marittimo.
Qualche settimana prima del ritorno il G. fu ricompensato con l'elezione a procuratore di S. Marco de ultra (29 apr. 1710); in patria lo attendeva anche un posto tra i savi del Consiglio, che ricoprì per il secondo semestre dello stesso 1710 e poi dall'ottobre 1711 al marzo 1712, senza peraltro esservi ulteriormente confermato, forse per la cattiva salute (fece testamento il 1° sett. 1712). Accettò qualche altra carica di minor impegno e fu sopraprovveditore alla Sanità dal settembre 1712 all'agosto 1713, quindi aggiunto ai sopraprovveditori alle Pompe dal settembre alla morte.
Si spense a Padova nella sua casa in contrada S. Massimo il 14 giugno 1715, dopo quattro mesi di "febbre e cancrene". Venne sepolto a S. Stae dal nipote ed erede Antonio, con il quale si estinse questo ramo del casato.
Fonti e Bibl.: Arch. di Stato di Venezia, Misc. codd., I, St. ven., 20, M. Barbaro - A.M. Tasca, Arbori de' patrizi veneti…, VII, pp. 451, 472; Segretario alle voci, Elezioni del Maggior Consiglio, regg. 21, c. 78; 22, cc. 7, 22, 73, 145, 147, 154; 23, c. 229; 24, cc. 1-2, 5, 143, 228; 25, c. 155; Elezioni dei Pregadi, regg. 18, cc. 10, 19, 20; 19, cc. 5, 7-9, 47-48, 130; 20, cc. 7-8, 10-11, 42, 44, 48, 69, 71, 73, 81, 87, 94, 109, 137, 157, 171; 21, cc. 1-3, 8-9, 42, 62, 69, 74, 86, 97, 138-139, 144, 155; Consiglio dei Dieci, Misc. codd., regg. 64-65 passim; Senato, Dispacci Francia, filze 153-160; Ibid., Dispacci Germania, filze 148-155; Ibid., Dispacci Inghilterra, filza 70 bis; Ibid., Dispacci Costantinopoli, filze 167-170; Archivio Gradenigo rio Marin, b. 258, cc. n.n. (testamento); Provveditori alla Sanità, Necrologi, reg. 912, sub 15 giugno 1715; Venezia, Bibl. del Civico Museo Correr, Mss. Morosini-Grimani, b. 535/11, Dispacci di A. G. bailo a Costantinopoli a Francesco Grimani provveditore generale da Mar (1705-1708); Relazioni di ambasciatori veneti al Senato, a cura di L. Firpo, I, Inghilterra, Torino 1965, pp. XXXI, 943-959; IV, Germania (1658-1793), ibid. 1968, pp. 243-272; VII, Francia (1659-1792), ibid. 1975, pp. 283, 285-306; Relazioni dei rettori veneti in Terraferma, IV, Podestaria e capitanato di Padova, a cura di A. Tagliaferri, Milano 1975, pp. 417-423 (per la relazione di Padova); R.C. Moti - G.A. Moti, L'aquila triforme al foro di Padova nella reggenza pretoria di A. G.…, Padova 1702; L'eroe, ossia l'amor della patria in grado eroico, Venezia 1710 (per l'ingresso a procuratore); E.A. Cicogna, Delle inscrizioni veneziane, I, Venezia 1824, p. 64; S. Romanin, Storia documentata di Venezia, VII, Venezia 1974, p. 339; Relazioni veneziane. Venetiaansche Berichten over de Vereenidge Nederlanden van 1600-1795, a cura di P.J. Blok, 's-Gravenhage 1909, pp. 313 ss., 337; D. Levi Weiss, Le relazio-ni fra Venezia e la Turchia dal 1670 al 1684 e la formazione della Sacra Lega, in Arch. veneto-tridentino, IX (1926), p. 111; I "Documenti turchi" dell'Archivio di Stato di Venezia, a cura di M.P. Pedani Fabris, Roma 1994, pp. 443, 445; M. Casini, Cerimoniali, in Storia di Venezia dalle origini alla caduta della Serenissima, VII, La Venezia barocca, Roma 1997, p. 152.