GIUSTINIANI (Giustiniano)
Famiglia di ceramisti attivi in Campania dal XVII secolo fino alla fine del XIX. Originaria di Vietri sul Mare, dove alla seconda metà del Seicento operarono un Ambrogio e i figli Ascenzio e Domenicantonio (Tesauro), la famiglia, che constava di diversi rami tutti imparentati e dediti alla lavorazione della ceramica, ebbe nella discendenza di Antonio, nato a Napoli, ma operoso a Cerreto Sannita nella prima metà del XVIII secolo, il ramo più importante.
Cerreto vantava una lunga tradizione di produzione ceramica, caratterizzata da uno stile rustico che riproponeva attraverso un modellato esuberante, decorato con colori vivaci su fondo bianco, gli oggetti altrimenti prodotti a Napoli in materiali pregiati: acquasantiere, servizi da tavola, calamai. Per favorire la ripresa economica della cittadina sannita, dopo il terremoto del 1688 che l'aveva distrutta interamente, era stata sancita l'esenzione fiscale quinquennale per i forestieri che avessero inteso aprirvi una "faenzera". Numerosi ceramisti furono pertanto indotti a trasferirvisi, dividendosi tra Cerreto e la vicina frazione di San Lorenzello, dove il fiume Titerno garantiva l'acqua per azionare i molinelli di macinatura della creta e dei colori.
Antonio, figlio di Simone, nacque a Napoli il 1° nov. 1689; fu battezzato nella chiesa di S. Michele Arcangelo all'Arena (Borrelli, 1972, p. 17), in prossimità di borgo Loreto, dove risiedette sino al 1706 anno in cui si trasferì a Cerreto. Nel 1708 sposò Vittoria Mazzarella, dalla quale ebbe cinque figli (Vigliotti, p. 16); tra questi il primogenito, Simone, certamente fu ceramista. Rimasto vedovo nel 1718, Antonio si risposò l'anno seguente con Lucia di Clemente; dei sei figli nati dall'unione si ricordano, oltre a Nicola, futuro fondatore a Napoli della Manifattura Giustiniani, Francesco, nato nel 1735, che ugualmente operò a Napoli (ibid., p. 30). Nel 1722, dopo aver lavorato presso la fucina di Nicola Russo, napoletano trapiantato a Cerreto, Nicola aprì una propria bottega a San Lorenzello dove, nel 1727, firmò e datò il timpano in maiolica del portale della Congrega di S. Maria della Sanità.
Il pannello rappresenta la Madonna con il Bambino circondati da decori floreali. Dal punto di vista cromatico l'artista adotta i colori tipici della ceramica cerretese: giallo di manganese, turchino e paonazzo. Ugualmente la raffigurazione, caratterizzata da una marcata vena popolare e da qualche ingenuità di tratto, ben si inserisce nel solco della produzione di Cerreto.
Nel 1727 Antonio rilevò una faenzera da Giuseppe Bonanotte di Capracotta (Donatone, 1992, p. 46); nel 1734 era capo lavorante della bottega di Nicola Russo (distrutta da un incendio in quello stesso anno); mentre suo figlio Simone, nato a Cerreto l'8 genn. 1710, presumibilmente continuava a gestire la bottega di famiglia. Nei Catasti onciari del 1754 (Id., 1968) Antonio non figura più. Morì a Cerreto nel 1764 (Vigliotti, p. 34), anno in cui Simone risulta gestire una fornace presa in affitto (Donatone, 1992, p. 51).
Altri componenti della famiglia G. dimorarono e operarono a Cerreto, certamente imparentati con Antonio; tra questi un Giuseppe di Gaetano, che risulta essere attivo anche a Maddaloni nel 1734, e un Domenico, cui si attribuisce l'introduzione nel centro sannita della tecnica en camaieu bleu, cioè a chiaroscuro turchino, utilizzata tradizionalmente per i vasi da farmacia.
Dalla metà del XVIII secolo le vicende del ramo cerretese dei G. si intrecciarono con quelle del ramo partenopeo, specializzato da generazioni nella produzione di mattonelle da pavimento (i cosiddetti "riggiolari"). Si ricorda, in particolare, un Ignazio di Matteo, nato a Napoli nel 1686 e autore del pavimento maiolicato della chiesa di S. Andrea delle Dame (1729) e di quello di palazzo Corigliano ultimato nel 1742 (Borrelli, 1972, p. 16). Il pavimento della chiesa è caratterizzato da un suggestivo repertorio ornamentale di gusto francese, ricco di festoni vegetali e floreali, puttini e uccelli, che appare aggiornato sul gusto rococò.
Nicola, penultimo figlio di Antonio, nacque a Cerreto il 7 genn. 1732 e si formò a fianco del padre; giunse a Napoli nel 1752 e si stabilì in via Marinella, strada sulla quale si aprivano le maggiori fornaci partenopee. Nel 1755 sposò Antonia Letico dalla quale ebbe otto figli. Nel 1756 risulta essere membro della corporazione dei ceramisti che faceva capo alla Congregazione del Ss. Rosario presso la chiesa della Maddalena, dato che indica la sua piena integrazione nella compagine professionale napoletana. Tra le poche opere autografe di Nicola, si ricordano due mattonelle dipinte, firmate e datate 1758, raffiguranti un Capriccio di rovine architettoniche (Graz, Landesmuseum Johanneum).
Le pitture si ispirano alla maiolica aulica di Castelli d'Abruzzo sia nella tavolozza dei colori dominata dal giallolino, dal verde e dal bruno, sia nel soggetto - evidente il rimando a certe maioliche di Francescantonio Grue - che pure rivela un'attenzione alla coeva pittura napoletana di paesaggio. In entrambe è raffigurato un insieme di rovine, popolato da piccole figure immote, che si staglia imponente su di uno sfondo caratterizzato da ampi squarci di cielo solcato da nubi. In queste opere Nicola rivela doti di raffinato pittore, benché negli anni seguenti la sua fama derivasse soprattutto dalle sue doti di estroso plasticatore che gli valsero il soprannome di Nicola Belpensiero o de' Pensieri.
Nel 1761 Nicola firmò e datò le mattonelle per uno dei pavimenti di palazzo Santa Croce - Sant'Elia a Palermo (Donatone, 1997, p. 63), ancora in situ ma in mediocri condizioni di conservazione. Al centro compaiono Pan e Siringa, attorniati da una ricca decorazione a festoni e volute, risolta con colori chiari e brillanti e con una notevole scioltezza di segno. Una commissione di lavoro in Sicilia rivela che la sua la fama di maiolicaro doveva essersi ormai consolidata.
Presumibilmente intorno agli anni Settanta, Nicola fondò la "Figulina Giustiniani" situata alla Marinella.
Dopo un esordio caratterizzato dalla produzione di maioliche di impronta cerretese (peraltro scarsamente documentate), secondo la tradizione critica ottocentesca la manifattura conobbe il successo grazie alla lavorazione della terraglia "all'inglese", sperimentata in Inghilterra da J. Wedgwood e introdotta a Napoli ancora prima della Real Fabbrica Ferdinandea che la adottò a partire dal 1782. Negli ultimi anni del secolo furono prodotte soprattutto mattonelle, stoviglie, vasi, di gusto sobrio, le cui forme, già di ispirazione neoclassica, presentano un repertorio decorativo ancora rococò: colori pastello, minuti fiorellini su fondo bianco, putti che denunciano una transizione cauta verso il nuovo, verosimilmente per ragioni commerciali. Tra gli esempi più rappresentativi si ricorda il vaso a forma di cratere, interamente smaltato di bianco e decorato con fiorellini, raffigurante, nella svasatura del collo, da un lato una scena di ballo campestre - la cosiddetta Allegria d'està - dall'altro la Fontana Medina, descritte con gusto miniaturistico e con colori delicati (Napoli, Museo artistico industriale). Il vaso poggia su di un ampio piede bombato orlato di nero, così come neri sono i manici alla greca. Principale fonte d'ispirazione dell'opera si rivela la coeva produzione della manifattura regia, che in quegli anni realizzava porcellane, terraglie e ceramiche di elevata qualità formale.
Dalla fabbrica uscirono anche figure e gruppi plastici, prima in terraglia e successivamente in porcellana; ma la ricostruzione critica di questo corpus di oggetti, spesso non marcato, appare difficile poiché di frequente furono ingaggiati plasticatori autonomi, spesso usciti dalla manifattura reale della quale, una volta chiusa (1806), vennero adoperati, benché ciò fosse proibito, forme e stampi. Fittipaldi (1992, n. 472), in particolare, ha attribuito alla Figulina Giustiniani un gruppo raffigurante l'Adorazione dei pastori (Napoli, Museo della Certosa di S. Martino) databile intorno alla fine del XVIII secolo. Tra la fine del Settecento e l'inizio del secolo successivo, i manufatti in terraglia presentano una marca "G" incussa e una pasta più porosa rispetto a quella utilizzata dalla manifattura reale, oltre a un tipo di vernice di copertura meno trasparente che determina in superficie una maggiore craquelure.
Sullo scorcio del secolo la manifattura si dedicò principalmente alla riproduzione dei vasi greci ed "etruschi" rinvenuti in quegli anni nelle campagne di scavo a Pompei ed Ercolano e che erano molto richiesti dal pubblico anche internazionale.
Nel 1789 Nicola si recò ad Ascoli Piceno con il figlio Michele, su invito dell'abate V. Malaspina, del monastero olivetano di S. Angelo in Texello, allo scopo di impiantare e condurre una fabbrica di maioliche per la quale l'abate aveva ottenuto da papa Pio VI una privativa di dieci anni.
Il contratto sanciva la costituzione di una società tra il ceramista e l'abate, il quale avrebbe procurato i denari necessari all'avvio dell'attività e gli stipendi del primo anno; contemporaneamente Nicola si impegnava a fornire il suo lavoro e a insegnare il mestiere a lavoranti e apprendisti locali, restituendo il denaro ricevuto in anticipo tramite i guadagni ricavati dal primo anno d'esercizio. Da ciò risulta evidente il forte potere contrattuale assunto da Nicola, il cui bagaglio tecnico veniva stimato pari al capitale imprenditoriale.
Nel 1790, forse a causa di problemi insorti con l'approvvigionamento idrico, Nicola tornò a Napoli. Nel 1792 Giovanni, figlio di Nicola, chiese di essere ammesso a lavorare nella Real Fabbrica Ferdinandea (Carola Perotti, 1978).
Nicola morì a Napoli nel 1815; e la conduzione dell'impresa fu assunta dal figlio Biagio. Nato il 3 febbr. 1763, questi già da tempo affiancava il padre, con il concorso dei fratelli, ognuno impiegato in uno specifico settore della lavorazione: Paolo Antonio (nato il 25 marzo 1774), per esempio, era specializzato nella pittura di manufatti di pregio. Biagio sperimentò nuovi materiali e fu imprenditore attento alle richieste del mercato. Mise a punto delle ricette di sua invenzione e promosse l'utilizzo di materie prime estratte all'interno del Regno, meno costose e ricche di valenze estetiche, come la creta proveniente da Tressanti, in Puglia, caratterizzata da un particolare colore giallo. A partire dal secondo decennio del XIX secolo, sempre sotto la direzione di Biagio, la fabbrica conobbe il massimo impulso - si giunse a impiegare sessanta maestri e oltre cento lavoranti - associandosi per alcuni anni, allo scopo di acquisire maggiore competitività sul mercato, alla più giovane ditta Migliuolo sita ugualmente alla Marinella; insieme con questa partecipò ad alcune mostre dedicate alla produzione industriale - tra quelle che si tenevano ogni due anni a Napoli - e si aggiudicò anche alcune medaglie (Donatone, 1991, p. 65 n. 2).
Di questa società, che si distinse per un tipo di produzione di notevole livello, sia tecnico sia estetico, è testimonianza il servizio da tavola Charlesworth (collezione privata: ibid., tavv. 8-12), marcato "FMGN", elegante e lineare nelle forme e impreziosito da paesaggi la cui "delicata e vivida policromia degli smalti riflette ancora un'aura fine Settecento" (ibid., p. 78).
La crescita della fabbrica negli anni seguenti è documentata dalle relazioni delle esposizioni, che riportano, per esempio nel 1834, ben undici linee di produzione tra le quali spiccano la porcellana di tipo trasparente e il biscuit, oltre a una originale "porcellana opaca" (Mosca, p. 118) preparata a partire da scarti di produzione e utilizzata per realizzare apprezzati vasi "all'etrusca", libere rielaborazioni nei colori turchino e oro dei vasi classici. La produzione di porcellana, per la quale Biagio aveva invano chiesto nel 1828 una privativa quinquennale al re Francesco I, cessò quando fu abolito il dazio sulla porcellana estera. Si proseguì con la ceramica e la terraglia; ma fu l'inizio della decadenza. Biagio morì intorno al 1838; la guida dell'impresa fu assunta dai figli Antonio e Salvatore nati dal matrimonio con Maria Rosa Nigro. Dieci anni dopo, nel 1848, la grande manifattura alla Marinella chiuse a causa di un contenzioso con il barone Valiante, proprietario dei locali, risolto a favore di quest'ultimo, che espropriò merce e macchine. Ridotti a operare in piccolo, i G. cessarono dall'attività poco dopo. Solo dopo alcuni decenni, intorno alla fine degli anni Sessanta, la fabbrica riaprì per mano di uno dei discendenti, Michele. La produzione riscosse un discreto, ma effimero, successo, presentando prodotti di qualità modesta e moduli decorativi stanchi e ripetitivi. Si ignorano le date di nascita e di morte di Michele che, "per condurre una vita piena di lusso e di sciupi, si ridusse a morire miserabile" (Mosca, p. 151).
La fabbrica chiuse definitivamente poco dopo il 1885, anno in cui i suoi manufatti furono presentati all'Esposizione industriale di Milano.
Fonti e Bibl.: G. Novi, I fabbricanti di maioliche e di terraglia in Napoli. I continuatori…, in Atti dell'Accademia Pontaniana, XIV (1879), pp. 527-531; L. Mosca, Napoli e l'arte ceramica (1908), Napoli 1963, pp. 118, 123, 141-151; M. Rotili, La Manifattura Giustiniani (1967), revis. di A. Putaturo, Roma 1981; G. Donatone, La ceramica di Cerreto Sannita, Roma 1968, p. 11; G. Borrelli, Note inedite sulle famiglie Massa e Giustiniano maiolicari del Settecento napoletano, in Faenza, I (1972), pp. 15-22; A. Carola Perrotti, Porcellane e terraglie napoletane dell'Ottocento, in Storia di Napoli, IX, Napoli 1972, pp. 833-879; G. Donatone, La Real Fabbrica di maioliche di Carlo I a Caserta, Caserta 1973, pp. 85 s.; N. Vigliotti, I G. e la ceramica cerretese, Marigliano 1973; G. Donatone, La maiolica popolare campana, Cava de' Tirreni 1976, passim; G. Borrelli, Le riggiole napoletane del '700. Tecnica e organizzazione sociale, in Napoli nobilissima, V-VI (1977), pp. 161-176, 218-233; F. Apolloni Ghetti, Maioliche G. a Roma, in Strenna dei romanisti, XXIX (1978), pp. 13-25; A. Carola Perrotti, La porcellana della Real Fabbrica Ferdinandea, Napoli 1978, p. 245; G. Donatone, La maiolicanapoletana nel Settecento (catal.), Napoli 1981, pp. 72 s., nn. 37-45; Id., Pavimenti e rivestimenti maiolicati in Campania, Cava de' Tirreni 1981, pp. 71-73; A. Carola Perrotti - G. Donatone - C. Ruju, Porcellane e terraglie a Napoli dal tardo barocco al liberty, Napoli 1984, pp. 60 s., tavv. 49-52, 54-56, 60-65; A. Carola Perrotti, Le porcellane napoletane dell'Ottocento, Napoli 1991, pp. 147-149, ill. 293-300; G. Donatone, La terraglia napoletana, Napoli 1991, pp. 62-65, 73-89, ill. 58-168; Id., La ceramica di Vietri sul Mare dalle origini all'Ottocento, Napoli 1991, pp. 45 s.; A. Tesauro, Maestri cretari e faenzari a Vietri tra '500 e '600, Salerno 1991, pp. 5 s., n. 6; G. Donatone, Maiolica decorativa e popolare di Campania e Puglia, Napoli 1992, pp. 44-46, 51 s.; T. Fittipaldi, Ceramiche. Castelli, Napoli, altre fabbriche, Napoli 1992, nn. 468-505; L. Arbace, Note sulla produzione ceramica: dagli slanci imprenditoriali d'inizio secolo alla decadenza, in Civiltà dell'Ottocento. Le arti figurative (catal.), Napoli 1997, pp. 99-101, 106 s., 109; C. Dell'Aquila, I pannelli maiolicati…, in Quaderno del Centro di studi di storia della ceramica meridionale, 1997, pp. 71-86; G. Donatone, La riggiola napoletana, Napoli 1997, pp. 60-65, 105-108, 112-118, tavv. 8-12; U. Thieme - F. Becker, Künstlerlexikon, XIV, p. 226 (s.v. Nicola Giustiniani).