Giustiniano e la riconquista dell'Occidente
Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
I 38 anni di regno di Giustiniano sono caratterizzati da un’intensa attività bellica strumentale al progetto di restaurare l’unità dell’impero romano, riconquistando i territori occidentali. Nonostante i numerosi successi, ottenuti con enorme dispendio di vite umane, energie e risorse finanziarie, i risultati si riveleranno ben presto effimeri.
Quando muore, nella notte tra il 13 e il 14 novembre 565, Giustiniano può a ragione confidare che la sua fama durerà nei secoli. Pur avendone più volte vantato i pregi e perfino lodato la bellezza, difficilmente, tuttavia, immagina, né forse desidera, che il suo nome verrà legato soprattutto ai “tre volumi” del Corpus iuris civilis, nei quali i suoi incaricati avevano condensato la sapienza giuridica dei Romani. Altre imprese, che si erano dipanate lungo tutti, o quasi, gli oltre 38 anni del suo regno, con enorme dispendio di vite umane, energie, risorse finanziarie, avevano apportato frutti inadeguati o che ben presto si sarebbero rivelati effimeri – se si escludono alcune straordinarie opere architettoniche, delle quali Hagia Sophia a Costantinopoli è solo la più celebre.
Petrus Sabbatius nasce verosimilmente tra l’1 e il 2 aprile 481 a Tauresium (o Taurisium), un villaggio della provincia Dacia Mediterranea sito nei pressi della fortezza di Bederiana, tra Naissus (Niš, in Serbia) e Scupi (Skopje, in Macedonia).
Nella zona prevale la professione di fede cristiana definita a Calcedonia nel 451 e si parla latino. Giustiniano si mostra legato alla sua regione natia: rafforza Bederiana, trasforma Tauresium in una piazzaforte a quattro torri ed edifica nei pressi una nuova città, Iustiniana Prima (i cui resti si trovano probabilmente presso Caričin Grad, a circa 45 km a sud di Niš), peraltro già decaduta a fine VI secolo e definitivamente abbandonata forse dopo un’incursione di Slavi nel 614/615. Del padre sappiamo appena il nome, Sabbatius, che sembra di origine tracica. Un fratello della madre (della quale non si conosce il nome, forse Vigilantia, come la sorella di Giustiniano), Giustino, nato a Bederiana nel 450 da povera famiglia contadina, si era recato a Costantinopoli durante il regno di Leone I e aveva percorso una brillante carriera militare soprattutto sotto Anastasio I. Quando questi muore, nella notte tra 8 e 9 luglio 518, Giustino è comes excubitorum, comanda cioè la guardia effettiva del palazzo. Dopo febbrili trattative, egli prevale su altri candidati ed è rivestito delle insegne imperiali nell’ippodromo il 10 luglio. Dalla moglie Lupicina, che assume il nome di Euphemia, Giustino non aveva avuto figli; anche per questo chiama a Costantinopoli alcuni nipoti, tra cui, forse intorno al 490, Petrus Sabbatius, al quale fa impartire un’eccellente educazione, favorendone la carriera. Nel 518 Sabbatius figura come candidatus (ufficiale della guardia imperiale da parata), l’anno dopo reca il titolo di comes; diventa poi magister equitum et peditum praesentalis (il massimo grado dell’esercito centrale) e nel 521 riveste il suo primo consolato (sarà console ancora nel 528, 533 e 534): a questa data risale l’attestazione del nome Flavius Petrus Sabbatius Iustinianus. Poco dopo ottiene il titolo onorifico di patricius.
Nonostante il nome e altri indizi, non è certo che Giustiniano sia stato adottato dallo zio. Il primo aprile 527 questi, anzi, ormai gravemente malato, sarebbe stato piuttosto indotto controvoglia dai senatori ad associarsi al potere il nipote, che il 4 aprile è incoronato dal patriarca di Costantinopoli in presenza di alti dignitari, senatori e militari (ma non presentato al popolo nell’ippodromo, forse a sottolineare la derivazione solo divina del potere). L’1 agosto 527 Giustino muore e Giustiniano rimane unico imperatore. Qualche tempo prima, intorno al 525, aveva sposato Teodora: trattandosi di un’ex attrice dal dubbio passato, aveva dovuto ottenere (probabilmente nel 523, dopo la morte di Euphemia, contraria alle nozze) che lo zio revocasse l’antica norma augustea che vietava a un senatore di sposare tali donne.
Benché priva di figli, è un’unione salda, che dura fino alla morte (per cancro?) dell’Augusta il 28 giugno 548. Se è improprio configurare una sorta di diarchia, certo Teodora ha goduto dell’alta considerazione del marito e non è rimasta estranea a vicende di governo: ispira forse talune norme migliorative della condizione femminile; intrattiene rapporti con regnanti e papi; influisce sulle sorti di vari funzionari; e soprattutto, convinta monofisita, equilibra le inclinazioni calcedoniane del marito e sostiene i correligionari, che talora trovano riparo, anche per anni, nel suo palazzo. Il suo ruolo nella rivolta Nika (“vinci!”, gennaio 532) è stato probabilmente esagerato da Procopio di Cesarea, secondo il quale Teodora avrebbe dissuaso il marito dalla fuga, consentendo a Narsete di prendere tempo e infine a Belisario e Mundo di irrompere nell’ippodromo e di sedare nel sangue la rivolta (vi sarebbero stati oltre 30 mila morti). Ma è probabile che questa sia stata provocata dallo stesso Giustiniano, sia per stanare e colpire i possibili oppositori, sia per fiaccare la tracotanza tanto dei verdi che degli azzurri, le due organizzazioni politico-militari nate dalle fazioni dell’ippodromo, che, di solito avversarie, si erano nell’occasione unite nella ribellione.
Di media statura e sana costituzione, Giustiniano era astemio, assai parco nel cibo, e dormiva poco. Rarissimamente si è spostato da Costantinopoli, dedicandosi con instancabile energia ai compiti di governo e alle questioni teologiche. Se è eccessivo considerarlo come correggente di Giustino, fin dal 518, egli si distingue certo nel sostenere l’operato dello zio: molto probabilmente non è estraneo all’eliminazione di alcuni potenziali avversari, come Vitaliano, il generale ribelle ad Anastasio, che Giustino aveva richiamato a corte e onorato con il consolato nel 520; e contribuisce al superamento della politica filomonofisita di Zenone e Anastasio e al riaccostamento a Roma.
Rimasto unico Augusto, l’imperatore “teologo”, s’intromette con caparbio zelo nelle dispute religiose tra quanti, affermando la duplice natura di Cristo, si richiamano al concilio di Calcedonia (dove, peraltro, la tesi della radicale separazione delle due nature, sostenuta dai nestoriani, era stata condannata), e ai monofisiti (o miofisiti).
Più volte egli riafferma l’autorità del concilio di Calcedonia, condannando le opposte (ma convergenti nel rifiutare a Maria, che l’imperatore specialmente venerava, la dignità di madre di Dio, theotokos) eresie di Nestorio ed Eutiche, ma anche monofisiti moderati come Severo di Antiochia. Tuttavia, i suoi principali interventi teologici appaiono a dir poco concilianti verso i monofisiti, certo anche per influsso della moglie e di interlocutori filomonofisiti, come il vescovo di Cesarea in Cappadocia, l’origenista Teodoro Ascida, o il filosofo Giovanni Filopono. Dapprima accoglie la cosiddetta formula teopaschita (“uno della Trinità ha sofferto nella carne”), strappando una tiepida adesione al papa Giovanni II; poi, tra il 543 e il 545, anatemizza in un trattato, come un’autorità ecclesiastica, gli scritti di tre autori sospetti di nestorianesimo (i cosiddetti tre capitoli), imponendo che la condanna sia ribadita in un concilio (Costantinopoli, maggio-giugno 553) e approvata dal papa Vigilio, che era stato condotto con la forza a Costantinopoli nel 547. Da ultimo, a fine 564 - inizio 565, aderisce con un editto all’aftartodocetismo, dottrina monofisita estremistica che si rifaceva a Giuliano di Alicarnasso, secondo la quale il corpo di Cristo è incorruttibile e impassibile fin dall’incarnazione, benché egli abbia accettato volontariamente di soffrire durante la passione.
Soprattutto le due ultime proposizioni suscitano fiere resistenze sia in Occidente (dove si hanno perfino degli scismi), che tra i patriarchi orientali.
Anche l’azione pratica appare oscillante. Le persecuzioni dei primi anni di Giustino contro i monofisiti sono attenuate, fino a consentire, tra il 529 e il 531, il ritorno degli esiliati; nel 542 l’incarico di convertire la popolazione rustica dell’Asia Minore è affidato al monofisita Giovanni di Efeso. D’altra parte, l’imperatore tollera la ripresa delle persecuzioni antimonofisite da parte dell’ex comes Orientis e poi patriarca di Antiochia, Ephraem; inoltre, dal 535 tenta di attaccare la roccaforte dei monofisiti in Egitto, giungendo a imporre ad Alessandria patriarchi calcedoniani, che però riescono a reggersi solo col sostegno armato, mentre, con l’appoggio di Teodora, il vescovo monofisita di Edessa, Giacomo Baradeo, avvia la sua instancabile attività missionaria.
La morte di Giustiniano lascia l’impero più diviso che mai sotto il profilo religioso: i patriarchi orientali patiscono la preminenza che, più o meno esplicitamente, egli ha in varie occasioni (anche con una legge del 545) riconosciuto a quello romano. In ampie parti dell’impero, specie in Egitto, Etiopia, Siria e Armenia, le chiese monofisite (sia pur in varia veste) sono saldamente affermate. Coerente col convincimento circa la propria investitura divina, Giustiniano mira a imporre anche legislativamente la fede che considera ortodossa. Nel complesso, tuttavia, la sua legislazione contro eretici, pagani, giudei, samaritani (in gran parte concentrata nei primi anni) appare orientata soprattutto a indurne la conversione e a cristianizzare l’amministrazione civile e militare dell’impero, facendo leva principalmente sull’esclusione dagli uffici e sulle incapacità patrimoniali (a dare e ricevere per causa di morte ecc.).
Solo in alcune ipotesi (apostasia ecc.) o contro talune sette (specie i manichei) sono comminate pene più gravi (espulsione, confisca, morte), ma è lecito dubitare della loro effettività. I luoghi di culto eretici vanno di regola assegnati alle chiese cattoliche, le sinagoghe dei samaritani distrutte. Ai giudei, invece, il culto è consentito; e se la costruzione di nuove sinagoghe è vietata, quelle esistenti possono essere conservate e restaurate (con l’eccezione, forse solo propagandistica, dell’Africa nel 535). Con cautela vanno perciò considerate le notizie degli storici coevi circa le feroci persecuzioni che Giustiniano avrebbe condotto, soprattutto per avidità, contro eretici, pagani, samaritani. Ci sono stati tuttavia episodi anche molto gravi. La rivolta che questi ultimi, anche con mire separatistiche, scatenano in Cesarea di Palestina nella primavera del 529 viene repressa nel sangue. Molti pagani sono perseguiti nel 528/529 – anche il quaestor sacri palatii Toma viene destituito (ma non giustiziato); altri episodi sono ricordati per il 535/537 (abbattimento del tempio di Iside a File in Egitto), il 545/546 e il 562, quando vengono anche distrutti libri e statue. Forse il colpo più duraturo che, sia pur indirettamente, lede i pagani è però il divieto di insegnare filosofia e praticare l’astronomia, contenuto nell’editto che Giustiniano invia ad Atene nel 529 e che, pur senza imporne esplicitamente la chiusura, forza l’Accademia a interrompere per sempre l’attività.
Quando Giustiniano succede allo zio, l’impero è in guerra con i Persiani, soprattutto a causa del regno cristiano dell’Iberia caucasica, che di questi è vassallo, e di problemi legati alla prevista successione del re di Persia Kavadh.
Morto questi, agli inizi del 532 i Romani stipulano una “pace eterna” con il figlio Cosroe, pagando una cospicua indennità, ma assicurandosi, attraverso il controllo sugli Tzani (una tribù che vive nella zona interna a est del Ponto Polemoniaco) e sul Regno di Lazica (antica Colchide, tra Turchia e Georgia), un accesso ai mercati asiatici e alla seta cinese che aggiri i territori persiani.
Rassicurato sul fronte orientale, Giustiniano si volge all’Africa vandala, dove il vecchio re Ilderico, legato da trattati a Costantinopoli e considerato filocattolico, era stato deposto e sostituito da Gelimero. Il comando è affidato al magister utriusque militiae per OrientemBelisario, che sconfigge Gelimero nel 534 e riesce a occupare anche Sardegna, Corsica e Baleari. La chiesa cattolica riottiene i beni che le erano stati sottratti; le eresie, in particolare quella dei vinti, l’arianesimo, sono nuovamente condannate. Negli anni successivi varie ribellioni delle tribù maure, aggravate dal malcontento dei Vandali e dei soldati non pagati, sono contenute a fatica, specie da Giovanni detto Troglita, che nel 548 riesce a placare la regione. Una nuova rivolta è domata nel 563. Tornato a Costantinopoli, Belisario ottiene il trionfo e il consolato per il 535.
Confortato dalla fulminea vittoria sui Vandali, Giustiniano matura il progetto di restaurare l’unità dell’impero romano, rivolgendosi contro il regno ariano degli Ostrogoti. Morto Teodorico nel 526, gli succede il decenne nipote Atalarico, per il quale governa la madre Amalasunta. Entrata in conflitto con molti dei maggiorenti gotici, questa offre il regno a Giustiniano, ma poi ci ripensa, favorendo nel 534, dopo la morte del figlio, l’ascesa al trono di suo cugino Teodato, che però la fa imprigionare e poi uccidere (535, 30 aprile?).
L’imperatore non trascura l’opportunità. Incarica il magister militum per Illyricum Mundo di togliere la Dalmazia ai Goti. Belisario invece, sempre come magister militum per Orientem, viene mandato in Sicilia, che conquista quasi incontrastato, entrando a Siracusa il 31 dicembre 535. Dopo una fugace spedizione in Africa, risale la penisola, conquista Napoli e il 9 dicembre 536 entra a Roma. A sostituire Teodato (deposto e poi, nel dicembre 536, ucciso), è stato eletto re dei Goti Vitige, che cinge Roma d’assedio (537, marzo?), ma si ritira nel marzo del 538. A metà circa dell’estate Belisario viene raggiunto da rinforzi guidati da Narsete, ma il dissidio tra i comandanti causa la caduta di Milano (febbraio/marzo 539). Ottenuto il richiamo di Narsete, Belisario occupa buona parte dell’Italia centro-settentrionale e infine, fingendo di accettare la proposta gotica di diventare imperatore d’Occidente, entra senza combattere in Ravenna (maggio 540). Con l’eccezione di Verona, i restanti presidi della Venetia si sottomettono pacificamente; ai Goti vengono risparmiati vita e beni; pur non ottenendo il trionfo, Belisario è accolto a Costantinopoli con grande giubilo.
Nonostante il successo in Italia, l’impero appare in difficoltà. Nel 539-540 orde di Unni Kutriguri (Protobulgari) devastano a due riprese Tracia, Illirico e Grecia, giungendo a minacciare la capitale. La peste bubbonica, manifestatasi in Egitto nel 541, raggiunge a fine anno Costantinopoli, dove imperversa per l’intero 542 con conseguenti carestie. Anche Giustiniano si ammala.
Guarisce, ma la fiducia sua e della popolazione nella buona sorte dell’impero risulta scossa, tanto più che un forte terremoto colpisce la città in agosto. All’inizio del 540, inoltre, Cosroe muove verso nord-ovest, saccheggiando numerose città, fino ad Antiochia, che viene distrutta e gli abitanti deportati in schiavitù. Gravissima è la perdita di prestigio per l’imperatore, che solo col pagamento di un’indennità riesce a ottenere il temporaneo ritiro dei Persiani. Nel 541 questi, accogliendo l’invito del re Gubaze, insofferente al predominio romano, invadono la Lazica. L’arrivo di Belisario e il timore della peste inducono l’anno dopo Cosroe a desistere. Implicato in false accuse, Belisario viene privato dell’ufficio nel tardo 542. L’anno dopo, il suo successore, Martino, è disastrosamente sconfitto in Armenia; nel 544 Cosroe riprende l’offensiva in Mesopotamia, ma viene fermato, e nel 545 accetta, dietro versamento di pesanti indennità, una tregua di cinque anni, poi rinnovata nel 551 per altri cinque. Nel 557 un altro accordo riconosce ai Romani il controllo quasi totale della Lazica, dove si era continuato a combattere. A fine 561 viene infine stipulato un trattato di pace cinquantennale: ma l’impero si obbliga a versare un fortissima somma annua, che lo rende praticamente tributario dei Persiani. Nel 572, tuttavia, le ostilità riprendono sotto Giustino II e si protraggono con brevi pause fin quando, nella loro espansione verso Oriente, avviata nel 634, gli Arabi occupano in rapida sequela l’impero persiano e gran parte delle province orientali di quello romano.
Nell’Italia del Nord gli Ostrogoti si erano presto riorganizzati. A fine 541 diviene re Totila, il quale sconfigge ripetutamente i Romani, occupa gran parte del Meridione e, nella primavera del 543, entra a Napoli. Nel 544 Belisario, col titolo di comes sacri stabuli, è incaricato del comando supremo in Italia, peraltro con poche truppe e scarse risorse finanziarie. Il 17 dicembre 546 Totila conquista Roma, che però abbandona poco dopo, consentendo a Belisario di rioccuparla (547, aprile?). Disattesa un’ulteriore richiesta di rinforzi, il generale ottiene di essere richiamato. Agli inizi del 549 riparte per Costantinopoli, dove, nonostante il sostanziale insuccesso, riceve grandi onori; nel novembre 562, viene accusato di complotto contro Giustiniano, ma nel luglio 563 è pienamente assolto; muore infine nel marzo 565.
A sostituirlo in Italia (dove Totila ha ripreso Roma il 16 gennaio 550) è destinato il cugino dell’imperatore, Germano, che muore però a Serdica (Sofia) di malattia nel 550.
Il comando è allora affidato al praepositus sacri cubiculi, l’eunuco di origine persarmena Narsete, che, come pare, era di simpatie monofisite ed era favorito da Teodora. Fornito di abbondanti risorse finanziarie e di un forte e ben armato esercito, egli raggiunge Ravenna il 6 giugno 552, muovendo subito incontro a Totila, che risale da Roma. La battaglia si svolge sull’altopiano detto Busta Gallorum (forse in Umbria presso Gualdo Tadino), probabilmente a fine giugno. I Goti sono sbaragliati; Totila, ferito, muore durante la fuga. Il nuovo re, Teia, intercettato in Campania da Narsete – che ha intanto occupato Roma (in luglio?) –, subisce una disastrosa sconfitta sulle falde dei Monti Lattari e muore (552, fine ottobre?). Nell’estate 553 un imponente esercito di Franchi e Alamanni scende in Italia, devastando soprattutto il Meridione: dei due capi, Leutari muore di malattia presso Vittorio Veneto mentre tenta di tornare in patria, il fratello, Butilino, è sconfitto e ucciso con quasi tutti i suoi presso Capua (autunno 554?). Rientrato a Roma, Narsete riesce non senza difficoltà a stroncare le ultime resistenze gotiche, fino a conquistare, entro novembre del 562, Verona e Brescia e a scacciare i Franchi stanziati nella Venetia: tutta l’Italia è in mani romane.
Insignito di grandi onori, Narsete muore quasi novantacinquenne a Roma, forse nel 574.
Già nell’agosto 554 Giustiniano estende all’Italia, con una pragmatica sanctio (sollecitata dal papa Vigilio), il vigore delle compilazioni e delle leggi successive. I Goti rimasti in Italia conservano in larga misura i propri possedimenti, quelli delle chiese ariane sono devoluti alla chiesa cattolica. Il comando militare è affidato a Narsete, l’amministrazione civile al praefectus praetorio Italiae; la Sicilia è governata da un pretore nominato da Costantinopoli (Sardegna e Corsica appartengono alla prefettura d’Africa).
Decenni di guerra hanno tuttavia provocato desolanti devastazioni, che persino il papa Pelagio denuncia nel 556. Nel 568 o 569 il re longobardo Alboino inizia l’invasione che in pochi decenni riduce i possedimenti imperiali in Italia ad alcune, sia pur significative, enclavi e alle isole.
Nel 552, intanto, Giustiniano, accogliendo, come pare, la richiesta di Atanagildo, che l’anno prima si era sollevato contro il re visigotico Agila, invia in Spagna un esercito al comando del quasi novantenne Liberio. Gli imperiali riescono a conquistare la zona sud-orientale della penisola iberica, che è organizzata in provincia sotto il comando di un magister militum Spaniae; ma, divenuto re nel 555, Atanagildo ne inizia la riconquista, che sarà poi completata intorno al 625. Più stabile è il recupero imperiale dell’Africa, cui porrà fine solo la conquista araba (completata nel 711); ma anche qui guerre e ribellioni lasciano la regione spopolata e immiserita, come testimoniano anche due ammiratori di Giovanni Troglita, Procopio e Corippo (che gli dedicò il poema Iohannis). Il disegno giustinianeo di ricomporre l’unità politica dell’Occidente, o di gran parte di esso, sotto il governo di Costantinopoli è destinato a frantumarsi rapidamente.
La concentrazione dello sforzo bellico in Occidente e contro i Persiani aveva inoltre sguarnito la zona balcanico-danubiana, che subisce fin dagli anni 539/540 ripetute incursioni barbariche. Grande sgomento provocano soprattutto, nel 559, i Kutriguri, che giungono quasi alle porte di Costantinopoli: Belisario li ricaccia indietro, ma nella maggior parte dei casi, Giustiniano si dimostra impotente a contrastare con le armi gli invasori, riuscendo ad allontanarli solo con versamenti in denaro.
Fin dagli anni Ottanta, tuttavia, Slavi e poi Bulgari prendono a insediarsi stabilmente sui territori balcanici, che nel secolo successivo saranno in gran parte perduti per l’impero. Nel 557-558 una serie di terremoti provoca perfino il parziale crollo (maggio 558) della chiesa di Santa Sofia, e nel 558 divampa di nuovo la peste. Eminenti personaggi sono implicati in due complotti contro l’imperatore, l’uno tra fine 548 e inizi 549, l’altro nel 562: benché scoperti, i responsabili non sono puniti, anzi uno degli artefici del primo, il generale armeno Artabane, è nominato nel 550 magister militum per Thracias. L’energia reattiva, anche se talora brutale, dell’imperatore sembra essersi esaurita, il favore divino non più sorreggerlo.
Crescente inquietudine e profondi malumori si diffondono nella capitale, alimentando sommosse popolari, specie negli ultimi anni fomentate di nuovo dalle fazioni degli azzurri e soprattutto dei verdi. Lo stesso imperatore sembra riconoscere la propria impotenza quando in due leggi, emanate l’una forse tra 542 e 550/551, l’altra nel 559, attribuisce carestie, terremoti e pestilenze alla condotta peccaminosa di omosessuali e blasfemi: il richiamo al precedente biblico di Sodoma rivela l’intento di stornare la rabbia popolare su presunti responsabili delle offese alla divinità e quindi delle sciagure.
Le leggi emanate – sia in greco che in latino – dopo la conclusione della grande impresa codificatoria (novellae constitutiones) ci sono in parte pervenute tramite collezioni private, giacché il proposito di raccoglierle, espresso nella costituzione Cordi (16 novembre 534), non fu mai attuato.
Quelle degli anni 535-541, che sono la maggioranza, rivelano perlopiù uno stile ricercato ed erudito, e introducono spesso notevoli innovazioni nel campo sia del diritto privato (successioni, matrimonio), processuale (appello) e penale (reati a sfondo sessuale o religioso), sia dell’organizzazione ecclesiastica (vescovi, sacerdoti, monaci, beni di chiese e monasteri) e dell’amministrazione (venalità delle cariche, unificazione di poteri civili e militari ecc.). Dal 542 le novellae calano vistosamente in numero e qualità, benché non ne manchino di importanti, come le due che nel 542 e 556 stabiliscono in pratica l’illiceità del divorzio consensuale (poi nel 566 revocata da Giustino II). Lo scadimento va certo collegato con la scomparsa dalla scena politica di Giovanni di Cappadocia e Triboniano, che, pur brevemente allontanati durante la rivolta Nika, guidano la politica imperiale nei primi anni. Giovanni, prefetto del pretorio dal gennaio 531 e di nuovo dall’ottobre 532, viene esiliato nel 541 e, pur richiamato a Costantinopoli nel 548, dopo la morte della sua nemica Teodora, non riveste più alcun incarico; i suoi sforzi per rendere più razionale l’apparato amministrativo, per contenere le uscite e aumentare le entrate senza eccessive pressioni sui contribuenti (nonostante la celebre, benché alquanto misteriosa, tassa sull’aria, aerikon), vengono tuttavia efficacemente proseguiti da Pietro, detto Barsime, che, protetto dall’Augusta (e, secondo Procopio, fervente manicheo), tra il 542 e il 562 (o forse fino alla morte di Giustiniano) è due volte comes sacrarum largitionum e praefectus praetorio Orienti (introduce tra l’altro il monopolio imperiale sulla seta). Triboniano, due volte quaestor sacri palatii (settembre? 529 - gennaio 532; poi di nuovo dal gennaio 535) e magister officiorum (novembre 533 - gennaio 535), muore, forse di peste, tra maggio e dicembre 542: artefice della codificazione, imprime il segno della sua straordinaria cultura giuridico-antiquaria su gran parte delle novellae, fino almeno a maggio 542; non avrà successori adeguati. L’involuzione dell’impero investe anche il consolato ordinario: nel 541 Flavio Anicio Fausto Albino Basilio è l’ultimo privato a rivestire la carica. Dopo di allora solo l’imperatore usa ricoprirla per breve tempo dalle calende di gennaio successive all’assunzione del potere, finché un secolo dopo anche quest’uso si spegne.