Giustino Fortunato
Tra i primi a cogliere con chiarezza e a inserire in un quadro unitario di riflessione l’analisi dell’arretratezza del Mezzogiorno, Giustino Fortunato rappresenta un punto di riferimento culturale e intellettuale per un gruppo molto ampio di politici e meridionalisti, anche ideologicamente lontani dal suo orientamento. Il riferimento è a Napoleone Colajanni, Francesco Saverio Nitti, Ettore Ciccotti, Antonio De Viti de Marco e Gaetano Salvemini. Non si può dunque prescindere dal suo apporto per comprendere in profondità il pensiero meridionalistico.
Fortunato nasce a Rionero in Vulture, in provincia di Potenza, il 4 settembre 1848. La famiglia appartiene alla borghesia terriera lucana filoborbonica, «di quella borghesia che il nuovo secolo aveva sospinta al governo dello Stato» (G. Fortunato, Pagine e ricordi parlamentari, 2° vol., 1947, p. 177). La sua formazione si svolge a Napoli presso i gesuiti e gli scolopi. Nel 1865 si iscrive, assieme al fratello Ernesto, alla facoltà di Giurisprudenza. Nel 1873 vince un concorso da funzionario prefettizio ma, date anche le resistenze della famiglia, decide di continuare gli studi e segue le lezioni di letteratura e storia di Luigi Settembrini e di Francesco De Sanctis. Soprattutto quest’ultimo costituisce per Fortunato un punto di riferimento intellettuale e morale imprescindibile (G. Fortunato, Commemorazione di Francesco De Sanctis, 1884, in Id., Il Mezzogiorno e lo Stato italiano, 1° vol., 19262, pp. 197-203). In questi anni inizia a collaborare con le riviste moderate «La Patria» e l’«Unità Nazionale» e, a partire dal 1872, si iscrive alla sezione di Napoli del Club Alpino per il cui «Bollettino» scrive delle relazioni di viaggio sugli Appennini del Mezzogiorno (Griffo 1997). In questo periodo gli si manifesta, come una rivelazione, «la scoperta» delle cause di arretratezza non solo economica ma anche nell’assetto del territorio del Mezzogiorno.
Grazie all’attività giornalistica, Fortunato inizia a occuparsi di temi che lo portano progressivamente a indagare le condizioni economiche e sociali del Mezzogiorno. Dal 1878 al 1880, sollecitato da Pasquale Villari, diviene corrispondente della «Rassegna settimanale» di Leopoldo Franchetti e Sidney Sonnino. Alcuni articoli per la rivista, e altri scritti, verranno poi pubblicati nelle due edizioni degli Scritti vari del 1900 e del 1928. In queste pagine prende corpo il programma scientifico di Villari. L’indagine sul campo è il primo passo di una politica di intervento. Solo la comprensione della realtà economica e sociale può orientare la politica, combatterne gli errori e sconfiggere le ideologie estremiste.
Nel 1880 Fortunato viene eletto deputato del collegio di Melfi. Ricoprirà questa carica fino al 1909, anno in cui è nominato senatore. In Parlamento non si riconosce appieno in uno schieramento politico. Appoggia il governo Depretis e, dopo la sua caduta, non sostiene il programma e la politica di Francesco Crispi. Allo stesso modo è contrario alla svolta protezionista del 1877. Nel lungo periodo in carica da parlamentare, Fortunato non ricopre incarichi di governo. Questo gli permette di avere un atteggiamento e un giudizio indipendenti nei confronti delle vicende politiche italiane. Il suo programma politico, nonostante fosse costantemente rivolto alle esigenze di modernizzazione del giovane Stato italiano (Galasso, in Giustino Fortunato, 1984, pp. 35-36), era profondamente informato della visione sulle politiche necessarie per risollevare il Mezzogiorno e per far uscire dalla miseria la maggioranza della popolazione meridionale. La questione meridionale è la questione nazionale per eccellenza: «la redenzione delle plebi dalla supina ignoranza e dalla estrema miseria, più che un bisogno, è una imprescindibile necessità nostra» e più avanti «il paese non è solido finché le classi inferiori sono prive d’ogni tutela, d’ogni patrocinio, d’ogni bene della civiltà» (G. Fortunato, I partiti storici e la XIV legislatura, 1892, in Id., Il Mezzogiorno, cit., 1° vol., pp. 177-78).
Con l’avvento del fascismo Fortunato, già provato da problemi di salute e dalla perdita del fratello Ernesto, non nasconde un sempre più cupo pessimismo sulle sorti dell’Italia e del Mezzogiorno. Nel 1926 scrive una lunga prefazione alla seconda edizione delle Pagine e ricordi parlamentari, in cui analizza criticamente l’ascesa del fascismo e la crisi dello Stato liberale. Il testo viene censurato e sarà pubblicato solo nel 1947. Muore a Napoli il 23 luglio 1932.
Nella vasta letteratura su Fortunato è rintracciabile un insieme di definizioni per sintetizzare la sua visione politica generale e, di conseguenza, l’orientamento sulla politica economica italiana. Antonio Gramsci lo definisce, assieme a Benedetto Croce, come uno dei maggiori esponenti del conservatorismo reazionario (Salvadori 1960, pp. 147-48). Massimo L. Salvadori sintetizza la visione politica di Fortunato in un «ardito riformismo conservatore» (1960, p. 149). Francesco Barbagallo mette in evidenza il suo «radicale realismo» (1980, p. 21) e Giuseppe Galasso definisce «conservatorismo intelligente e da grande liberale» il suo orientamento politico (1986, p. 70). Ogni definizione coglie le diverse sfumature del punto di vista di Fortunato che prende corpo attraverso le vicende personali e la politica attiva. Tutte queste esperienze si consolidano in una visione precisa delle modalità di sviluppo che lo Stato italiano deve percorrere e degli strumenti più adatti per raggiungere l’obiettivo del consolidamento dello Stato unitario sotto la guida della monarchia.
Un elemento fondamentale della biografia di Fortunato riguarda la decisione del fratello Ernesto, nel 1873, di abbandonare la carriera legale per condurre in prima persona, cercando di riformare gli antichi metodi di conduzione agricola, i possedimenti di famiglia a Gaudiano. Questo, oltre a garantire l’indipendenza economica a Fortunato, gli permette di riflettere sulla possibilità concreta di riforma «illuminata» nelle campagne attraverso l’interessamento diretto dei proprietari terrieri (Calice 1982; Griffo 1997).
Un tema ricorrente delle sue riflessioni, di cui si occupa sin dal 1874, riguarda la questione bancaria, in generale, e il finanziamento dell’agricoltura e delle attività produttive tramite la creazione delle banche di credito popolare. Fortunato commenta la creazione di una banca di credito a Rionero, mettendo in evidenza gli aspetti positivi di questa forma societaria che permette di contrastare il fenomeno dell’usura e di attivare la produzione nei luoghi più remoti della nazione (Le cooperative di credito nel Mezzogiorno, 1880, in Id., Il Mezzogiorno, cit., 1° vol., pp. 55-70). Il nodo centrale riguarda la formazione del capitale perché nel Mezzogiorno «una sorte comune adegua tutti, proprietari e proletari, borghesi e contadini, galantuomini e cafoni: l’assoluta mancanza di capitali» (p. 58). L’esperienza delle banche locali però, negli anni Ottanta dell’Ottocento, si risolve in un generale fallimento anche per effetto della politica di emissione delle banche centrali che culminerà con lo scandalo della Banca Romana. Fortunato è contrario al progetto di riforma del sistema creditizio varato da Giovanni Giolitti nel 1893 e, in un discorso in Parlamento, si dichiara favorevole alla creazione di un unico istituto di emissione (Istituti di emissione e circolazione fiduciaria, 1893, in Id., Il Mezzogiorno, cit., 1° vol., p. 365). Quello che preoccupa Fortunato è che, nonostante le riforme, il problema della disponibilità dei capitali per l’investimento agricolo, per trasformare l’agricoltura meridionale da estensiva a intensiva, rimane in definitiva irrisolto. Nel Mezzogiorno vi è un problema di accumulazione di capitali, occorrerebbe «produrre di più, consumare meno, risparmiare molto» (Il problema economico e la XVI legislatura, 1890, in Id., Il Mezzogiorno, cit., 1° vol., p. 284). Gli obiettivi che le zone più arretrate del Paese dovrebbero perseguire sono sostanzialmente due:
il tenue costo del denaro, che solo è capace di dare stimolo al lavoro, e l’investimento nelle imprese delle attività private, particolarmente dell’agricoltura (Il dovere politico, 1898, in Id., Il Mezzogiorno, cit., 2° vol., p. 121).
Grazie alla collaborazione con la «Rassegna settimanale» Fortunato approfondisce alcuni temi, ancora una volta strettamente legati alle prospettive di sviluppo del Mezzogiorno, che troveranno una sistematizzazione compiuta negli anni successivi: la riforma dei monti frumentari (La trasformazione de’ monti frumentari, in Id., Il Mezzogiorno, cit., 1° vol., pp. 33-51), la questione demaniale e l’analisi dell’emigrazione. Accanto a questi prende corpo una dura critica nei confronti delle classi dirigenti meridionali, della borghesia urbana e terriera che non si è fatta carico dell’obiettivo di ‘modernizzare’ il Mezzogiorno.
Il fenomeno dell’emigrazione verso l’estero dalle campagne nel 1879 viene definito da Fortunato come «una piaga misteriosa», «un fenomeno di oscura malattia sociale», «un enigma pauroso del nostro avvenire» (Scritti vari, 1900, 19282, pp. 222-27) ma progressivamente assume una luce diversa e diventa «un elemento incalcolabile di civiltà e benessere per il nostro paese» (I servizi pubblici e la XXII legislatura, 1909, in Id., Il Mezzogiorno, cit., 2° vol., p. 433), dal momento che allenta la pressione demografica nelle campagne e contribuisce all’incremento della disponibilità di capitali tramite le rimesse degli emigranti. L’emigrazione, in definitiva, ha salvato l’Italia da «altri mali infinitamente più gravi» (L’emigrazione meridionale, 1909, in Id., Il Mezzogiorno, cit., 2° vol., p. 500), vale a dire dal brigantaggio, dalla povertà e dalla miseria più estrema, e ha contribuito alla riduzione della tensione sociale, misurabile tramite la diminuzione del numero di omicidi e del ribellismo nelle campagne. Fortunato, con un insolito eccesso di ottimismo, arriva a sostenere che grazie all’emigrazione è stata «debellata l’usura» nelle province meridionali.
La questione demaniale, secondo Fortunato, nei decenni successivi all’Unità, aveva ormai perso la connotazione di un problema strettamente economico. Restavano però aperti degli strascichi che derivavano dalla mancata assegnazione delle terre demaniali che, nel 1880, gli facevano affermare che «la questione demaniale è la vera questione sociale dell’Italia meridionale» (Nuove leggi sui demani comunali, 1880, in Id., Il Mezzogiorno, cit. 1° vol., p. 74).
Fortunato entra in Parlamento con il progetto preciso di portare a compimento «il patrocinio de’ deboli e dell’assistenza de’ poveri» (Carteggio 1865-1911, 1° vol., 1978, p. 12). Come per Villari, il riformismo di Fortunato è conservatore nel senso che l’impegno riformista deve partire proprio dalle esigenze delle classi più svantaggiate ma deve avere come fine la conservazione e l’unità dello Stato. Il suo riformismo moderato si inserisce quindi nella corrente di quel liberalismo che vedeva nelle riforme una sorta di azione di difesa preventiva nei confronti del malcontento e delle giuste recriminazioni degli strati più svantaggiati della popolazione. Il malcontento poteva sfociare in sommovimenti molto pericolosi e per questo era necessaria l’opera riformatrice.
Fino alla fine del secolo Fortunato ammette che i suoi intenti di modifica della politica economica sulla questione agraria, sulla politica commerciale e sulla riforma tributaria si svolgono entro una prospettiva riformistica che assegna allo Stato il ruolo di principale attore della politica economica.
Nel 1898, dopo la difficile stagione di rivolte contadine e operaie che scuotono l’intera penisola, in Fortunato prende corpo la cosiddetta svolta liberista (Salvadori 1960, pp. 153-56; Barbagallo 1980, pp. 23-24; Galasso, in Giustino Fortunato, 1984, pp. 37-40; Griffo 1997; Petraccone 2005, pp. 54-56) che scaturisce dal disincanto circa la possibilità di un orientamento marcatamente riformatore dello Stato.
Secondo Fortunato, visto che lo Stato, dall’Unità alla fine dell’Ottocento, non era stato in grado di creare, attraverso politiche appropriate, i prerequisiti dello sviluppo nel Mezzogiorno, fatta eccezione per la politica di espansione della rete ferroviaria (Nella inaugurazione del tronco di ferrovia da Rionero a Potenza, 1897, in Id., Il Mezzogiorno, cit., 2° vol., pp. 73-79; Le strade ferrate dell’Ofanto, 1927), erano i singoli, le individualità a dover emergere per risolvere il problema dell’arretratezza. Gli esempi a cui Fortunato si rivolge sono pochi ma, per la sua esperienza, significativi: il fratello Ernesto e la sua azienda modello in Basilicata (Calice 1982; Sacco, in Giustino Fortunato, 1984, p. 83) e il deputato di Cerignola Giuseppe Pavoncelli (1836-1910), grande proprietario terriero che aveva investito per la conversione delle colture estensive all’«agricoltura industrializzata». Per Fortunato, Pavoncelli è
degno rappresentante di questa vecchia, ma inesauribile nostra stirpe, che alla sola vigoria individuale, al proprio invitto sentimento dell’io, checché mormorino i nuovi statolatri, deve – unica al mondo – la perenne sua vitalità di popolo civile (Malaria e chinino, 1910, in Id., Il Mezzogiorno, cit., 2° vol., p. 512).
Il liberismo di Fortunato si trasforma e rimane sostanzialmente impregnato nella considerazione dell’iniziativa privata come unico motore dello sviluppo. Sul volgere del secolo, prende corpo un cambiamento nell’individuazione del soggetto politico che doveva portare avanti le riforme. Questo cambiamento rimane comunque coerente e rintracciabile tutto all’interno della visione politica, liberale, ed economica, liberista.
La questione agraria resta in definitiva al centro dell’analisi di Fortunato dato che «l’Italia è un paese eminentemente agricolo, e buona parte della sua fortuna deve attendere da’ campi» (Il dovere politico, cit., p. 119). Per il Mezzogiorno questa situazione è complicata da fatto che il dissesto del territorio, dovuto a caratteristiche climatiche e topografiche avverse, ha reso economicamente conveniente la conduzione latifondistica nelle campagne, dato che la coltura estensiva richiede un livello più basso di investimenti. «Il latifondo sarà una necessità economica e tecnica presso che irreducibile» fino a quando «sia tanta quaggiù la sproporzione fra il capitale circolante e la popolazione» (Pagine e ricordi, cit., 2° vol., p. 259).
Lo scritto in cui Fortunato espone in modo sistematico la propria visione sulla politica economica necessaria per superare i problemi derivanti al Mezzogiorno dalla politica commerciale e fiscale dei governi postunitari è La questione meridionale e la riforma tributaria del 1904. In questo periodo Fortunato si era allontanato dalla politica attiva e intendeva dedicarsi con maggiore attenzione allo studio soprattutto della storia del Mezzogiorno. Il saggio si apre riaffermando la necessità di chiarire in quali termini esiste una questione meridionale.
C’è tra il Nord e il Sud della penisola una sproporzione nel campo delle attività umane, nella intensità della vita collettiva, nella misura e nel genere della produzione, e, quindi […] anche una profonda diversità fra le consuetudini, le tradizioni, il mondo intellettuale e morale ( La questione meridionale e la riforma tributaria, 1904, in Id., Il Mezzogiorno, cit., 2° vol., p. 311).
Le cause di questa situazione sono allo stesso tempo di matrice storica, per via dei diversi assetti istituzionali e amministrativi fra Nord e Sud a partire dal Medioevo, e geografica, di povertà e dissesto del territorio. Questi due ordini di fattori si intrecciano e si rafforzano nel tempo e non è pensabile per Fortunato risolvere un problema così complesso tramite l’intervento straordinario. La legislazione speciale è solo «un’illusione funesta quando non è una leggerezza imperdonabile» (p. 313). Un indirizzo più equilibrato sarebbe quello di riformare il sistema tributario e la politica doganale protezionistica (pp. 323-24). Nel primo caso Fortunato propone una riduzione delle imposte allo scopo di far aumentare i capitali disponibili per l’investimento, nella speranza di risollevare l’agricoltura, unica fonte di reddito derivato dalla produzione nel Mezzogiorno, e risolvere il problema della povertà che non dipende da un problema di distribuzione della ricchezza ma dal livello molto basso della produttività. Occorreva in sostanza correggere la sperequazione tributaria che si era stabilita dopo l’unificazione. Fortunato cita i lavori di Nitti, Maffeo Pantaleoni e Luigi Bodio per dimostrare che i cespiti del bilancio dello Stato non erano stati decisi secondo un piano preordinato ma sotto la spinta di situazioni contingenti. Il risultato era una pressione fiscale, rispetto alla ricchezza prodotta, proporzionalmente maggiore nel Mezzogiorno. Nel citare l’indagine di Nitti, Il bilancio dello Stato dal 1862 al 1896-1897, opera poi ridotta e pubblicata nel 1900 con il titolo Nord e Sud, Fortunato però non aderisce alla tesi centrale del lavoro secondo cui il Mezzogiorno all’unificazione aveva già avviato il processo di modernizzazione verso un’economia capitalistica e che l’Unità, e l’unificazione del bilancio dello Stato, avevano interrotto questo processo. A tale proposito sostiene che il Mezzogiorno all’unificazione non aveva queste caratteristiche ma, al contrario, «viveva di un’economia primitiva, in cui quasi non esisteva la divisione del lavoro, e gli scambi erano ridotti al minimo» (p. 340), la maggior parte della produzione serviva per l’autoconsumo e non esisteva una vera e propria economia di mercato. Quest’arretratezza non era stata però sconfitta dalle politiche postunitarie che, soprattutto tramite la pressione fiscale, impedivano l’avviarsi di un processo autonomo di cambiamento.
Il secondo provvedimento considerato necessario per rimuovere l’arretratezza riguarda la revisione della politica di conduzione protezionistica dell’economia italiana che, a partire dal 1887, aveva prodotto due effetti negativi sull’economia meridionale: l’aumento dei prezzi dei beni precedentemente importati e quindi un peggioramento delle condizioni di vita per le fasce più povere e le difficoltà di esportazione sui mercati europei dei prodotti dell’agricoltura meridionale, a causa della battaglia commerciale con la Francia innescata dalla tariffa protezionistica (pp. 330-32). Fortunato è contrario al protezionismo, in Parlamento vota contro la tariffa del 1887 anche se è consapevole di andare contro gli interessi dei grandi proprietari terrieri che traggono vantaggio dall’aumento del prezzo dei cereali e dall’incremento degli affitti dei terreni. L’orientamento protezionista però non tiene conto degli effetti sulla capacità di consumo delle «classi lavoratrici», può essere vantaggioso per le entrate dello Stato ma nuoce
allo sviluppo naturale della produzione e del consumo, essendo matematicamente provato, che la protezione non crea capitale, li sposta (Il problema economico, cit., p. 270).
Fortunato critica anche gli effetti della politica protezionistica sul versante della produzione industriale. L’industrializzazione che è stata realizzata ha generato scompensi sociali e di ordine pubblico dovuti agli «spostamenti artificiali nelle masse proletarie». Questa politica ha prodotto il paradosso per lo Stato che, da un lato, si deve difendere dal movimento operario e, dall’altro, si trova a perpetuare […] uno stato innaturale di cose, secondo cui il pane degli operai di una regione sia pagato con la fame dei contadini del resto d’Italia (Dopo il misfatto, 1900, in Id., Il Mezzogiorno, cit., 2° vol., p. 214).
La politica di industrializzazione per il Nord del Paese e le politiche di intervento speciale nel Mezzogiorno del periodo giolittiano, che Fortunato con disprezzo definisce come «la politica pitocca del tozzo di pane» (Pagine e ricordi, cit., 2° vol., p. 10), hanno indotto una distorsione nella vita economica del Paese e hanno esonerato lo Stato da una politica organica di riforma tributaria «che ristabilisca l’equità nei rapporti con lo Stato fra Nord e Sud del paese» (p. 11).
La sua coerenza nell’orientamento politico si legge anche riguardo ad altri temi ricorrenti nel suo impegno da parlamentare. Egli è contrario al decentramento amministrativo e al reclutamento militare svolto su base territoriale (Le regioni, 1896, in Id., Il Mezzogiorno, cit., 1° vol., pp. 449-70; Reclutamento territoriale, 1895, in Id., Il Mezzogiorno, cit., 1° vol., pp. 433-45). Questi provvedimenti avrebbero indebolito il processo di formazione di uno Stato unitario forte e avrebbero rallentato il processo di unificazione economica del Paese. L’unità politica del Paese era per Fortunato un processo irreversibile ma doveva essere portato a compimento, come ricordato da Gaetano Cingari, tramite la rimozione di tutti i fattori di arretratezza e fondando l’unità generale non sulla forza degli interessi costituiti nelle due Italie ma promuovendo, con una politica riequilibratrice, le forze più aperte della produzione e della cultura (Cingari, in Giustino Fortunato, 1984, p. 6).
Per Fortunato l’azione politica, ispirata dal maestro De Sanctis, era lo strumento principale per cercare di comprendere la realtà economica del suo Paese e per tentare di migliorarla.
Una bibliografia completa e commentata di Fortunato è quella di S. De Pilato, Notizie bibliografiche su Giustino Fortunato, in Giustino Fortunato, Edizione dell’Archivio Storico per la Calabria e la Lucania, Roma 1932, pp. 263-83.
I discorsi, gli articoli e i saggi economico-politici di Fortunato sono stati raccolti in volumi, spesso ripubblicati:
Delle società cooperative di credito, Napoli 1875, Milano 18772.
La questione demaniale nelle provincie meridionali, Roma 1882.
Dieci anni di vita politica, Bologna 1891.
Scritti vari, Trani 1900, Firenze 19282.
Politica militare, Roma 1901.
La questione meridionale e la riforma tributaria, Roma 1904 (rist. Roma 1920).
Il Mezzogiorno e lo Stato italiano, 2 voll., Bari 1911, Firenze 19262.
Pagine e ricordi parlamentari, 2 voll., Bari 1920, Firenze 1927 e 1947.
Dopo la guerra sovvertitrice, Bari 1921.
Fortunato è inoltre autore di monografie storiche sulla storia medievale della Basilicata:
I feudi e i casali di Vitalba nei secoli XII e XIII, Trani 1898.
S. Maria di Vitalba, Trani 1898.
Rionero medievale, Trani 1899.
Il castello di Lagopesole, Trani 1902.
La Badia di Monticchio, Trani 1904.
Avigliano nei secoli XII e XIII, Trani 1905.
Riccardo da Venosa e il suo tempo, Trani 1918.
Una fonte importante per ricostruire l’attività di Fortunato è il suo carteggio. Un’ampia selezione è stata pubblicata in Carteggi, 4 voll., a cura di E. Gentile, Roma-Bari 1978-1981. Si veda anche, a cura dell’Archivio storico del Senato, Giustino Fortunato e il Senato: carteggio, 1909-1930, Soveria Mannelli 2003.
M.L. Salvadori, Il mito del buongoverno. La questione meridionale da Cavour a Gramsci, Torino 1960, pp. 146-83.
F. Barbagallo, Mezzogiorno e questione meridionale (1860-1980), Napoli 1980.
N. Calice, Ernesto e Giustino Fortunato: l’azienda di Gaudiano e il Collegio di Melfi, Bari 1982.
Giustino Fortunato, Roma-Bari 1984 (in partic. G. Cingari, Giustino Fortunato e il Mezzogiorno, pp. 3-15; G. Galasso, Giustino Fortunato nella storia d’Italia, pp. 19-40; M. Rossi-Doria, Gli ultimi venticinque anni, pp. 43-60; L. Sacco, Fortunato e la Basilicata, pp. 63-85).
G. Galasso, Italia democratica dai giacobini al Partito d’azione, Firenze 1986, pp. 99-122.
M. Griffo, Fortunato Giustino, in Dizionario biografico degli Italiani, Istituto della Enciclopedia Italiana, 49° vol., Roma 1997, ad vocem.
C. Petraccone, Le due Italie. La questione meridionale fra realtà e rappresentazione, Bari 2005, pp. 50-60.