giustizia
In generale, conformità del comportamento a una norma, ritenuta a sua volta giusta sulla base di parametri normativi e criteri di valutazione che attingono a sfere diverse: la morale, il diritto, la politica, l’economia. Più specificamente, in relazione alla sfera pratica di riferimento, la g. è intesa come virtù interiore (morale); come criterio di valutazione nella costituzione delle relazioni intersoggettive che attengono alla sfera del diritto privato e del diritto pubblico (diritto); come modalità di costituzione delle istituzioni e di legittimazione delle decisioni che attengono alla sfera pubblica (politica); come criterio di valutazione nel rapporto produzione-distribuzione (politica, economia).
La concezione greca della g. è incardinata sui concetti di misura e limite. Limite è ciò che circoscrive l’esserci di ciascuna cosa nell’Universo, ma anche il posto a ciascuno assegnato dagli dei, e la porzione – di beni, di mali, di vita – che a ciascuno spetta. Il rispetto del limite segna la misura del lecito. Tutta la cultura greca è pervasa da questo senso del limite, e dalla percezione della sua violazione come illecito. È una visione che affonda le sue radici nella grecità più arcaica, nella dominanza dell’elemento religioso e sacrale, dove vivono intrecciati μόϱoς, il destino, e νέμεσις, la punizione divina che colpisce chi travalica i propri limiti, invadendo i confini di altri, appropriandosi di ciò che ad altri spetta. ῞Υβρις è la parola con cui la cultura greca rende il senso di questa insanabile colpa. Variamente declinato, questo intreccio domina in partic. la concezione greca della g. nell’arco di tempo che va dalle origini al 6° sec. a.C. Nei poemi omerici, e nell’Iliade soprattutto, il ‘rispetto del limite’ si esprime come l’obbedienza alla volontà degli dei; nei rapporti umani, come rispetto dei confini che demarcano le posizioni di status sociale. L’etica ‘eroica’ della società guerriera descritta da Omero esclude ogni idea di g. come uguaglianza, ma già con Esiodo (7° sec. a.C.) la prospettiva cambia: il ‘rispetto del limite’ diviene la regola (νόμος) imposta da Zeus a tutti gli uomini, la ‘misura’ si precisa come divieto di sopraffazione. Si affaccia il nesso g.-uguaglianza. Nella polis del 7° sec. Solone traduce questo nesso in azione politica, adottando una legislazione che già contiene il germe del principio di uguaglianza davanti alla legge. Come Esiodo, anche Solone pensa alla g. come espressione del volere divino, alle leggi umane come riflesso di un ordine voluto da Zeus. La filosofia che in quello stesso secolo inizia il suo percorso scardina questo fondamento volontaristico: la g. diventa un principio razionale (λόγος). Νόμος βασιλεύς, lo chiamerà Pindaro, la norma sovrana che governa uomini e dei. L’indagine filosofica si volge a cercare l’essenza del λόγος, il principio regolativo della g., e tale principio rintraccia nella reciprocità (Anassimandro), nella simmetria (Eraclito), nella uguaglianza (Pitagora). Parole diverse che indicano una medesima visione: g. è simmetria nel rapporto tra parti, limite all’azione di ciascuna parte, misura nel loro reciproco rapportarsi. Pitagora esprime questa visione attraverso i numeri. Traccia la tavola dei numeri limitati e dei numeri illimitati, e con i numeri appunto rappresenta i concetti. La g. è il numero al quadrato, il quadrato essendo la rappresentazione della perfetta divisibilità, dove ogni porzione è esattamente uguale all’altra. Comune a tutti i primi filosofi è l’idea di un principio immanente nell’Universo che regola la vita di tutte le cose, inclusi gli uomini, inclusi gli dei. La cultura greca arcaica ignora la distinzione, inaugurata da Socrate, tra g. come rettitudine (δικαιοσύνη) e g. come legalità (δίκη). Manca ogni percezione della differenza tra giusto morale e giusto legale. Pure ignora la contrapposizione, poi teorizzata da Aristotele, tra sfera naturale (φύσις) e sfera etica (ἔϑος). La g. ha un solo volto, nel mondo naturale e nel mondo umano si manifesta attraverso uno stesso principio: il rispetto del limite. La sofistica prima, e Socrate poi, interrompono questa visione unitaria. Nel 5° sec. a.C. per i sofisti c’è un giusto ‘per legge’ e un giusto ‘per natura’. L’uno contraddice l’altro. La g. è l’utile del più forte, afferma Trasimaco; il giusto per legge è l’utile dei governanti. La natura dimostra che criterio di g. è il dominio del più forte, sostiene Callicle; ma le leggi, invenzione dei deboli, impongono il contrario. Nota Antifonte come le norme di legge siano accessorie; quelle di natura, necessarie. Le prime sono «concordate», le seconde sono «native», e la maggior parte di ciò che è giusto secondo la legge è in contrasto con ciò che è giusto secondo natura. L’uomo «misura di tutte le cose» di Protagora è il perno intorno al quale ruota la nuova idea di giustizia. Sul significato della g. legale, i sofisti concordano: la g. legale è il dettato della legge, corrisponde a ciò che i governanti vogliono sia ritenuto giusto. Sul significato della g. naturale invece le posizioni divergono: secondo alcuni, essa vuole l’uguaglianza tra gli uomini, secondo altri invece, coincidendo con la forza, impone la disuguaglianza. Le posizioni di nuovo convergono nella visione del rapporto che tra l’una e l’altra g. si instaura: sempre il giusto legale fa violenza al giusto naturale. La g. è artificio, convenzione su ciò che si deve e non si deve fare: non più costante e certa, ma mutevole, e dunque fragile, fondata sulla forza di chi governa. G. diviene il diritto del più forte. In una direzione diversa, lontano dal relativismo della filosofia sofista, anche Socrate guarda all’uomo come termine di riferimento della giustizia. Sposta il punto focale della g. dalla natura all’uomo, e indica la via della interiorità: la g. è virtù dell’anima. Come tale richiede incondizionata osservanza. L’intera vicenda processuale di Socrate, quale raccontata da Platone (Apologia di Socrate, Critone) testimonia la forza di questo principio nuovo, in virtù del quale è giusto sopportare anche ciò che è ingiusto, pur di non commettere ingiustizia. Platone, che per bocca di Socrate parla, ribadisce nella Repubblica questa visione della g. come ‘virtù’. Ma dell’idea più antica resta traccia: nell’immagine della g. come armonia di parti. Parti dell’anima, parti dello Stato. Nell’anima Platone distingue tre parti: una parte razionale, una parte impulsiva, una parte appetitiva. L’armonia dell’anima è l’esito dell’equilibrio nel rapporto tra queste parti; equilibrio di saggezza, coraggio, temperanza. In questa armonia, la virtù dell’individuo; nella vita armonica dell’anima, la giustizia. Alle parti dell’anima corrispondono le parti che costituiscono lo Stato: i governanti, i guerrieri, gli agricoltori e gli artigiani. I governanti hanno il compito di reggere le sorti dello Stato; i guerrieri, di difenderlo; i contadini e gli artigiani, di fornire allo Stato i mezzi di sostentamento. La g. nello Stato si realizza quando ciascun elemento attiene al proprio compito. Si rafforza con Platone il significato etico della g., mentre parallelamente si allontana il suo significato giuridico. La realizzazione della g. non è compito della legge, piuttosto è compito dell’educazione, nel significato ampio e segnatamente politico che il termine assume nella filosofia platonica. Anche in Aristotele la g. è virtù, ma il rapporto tra sfera etica e sfera giuridica si riequilibra. Alla considerazione della g. come virtù interiore (κατά αὐτόν) si accompagna la trattazione della g. come dimensione dei rapporti intersoggettivi (πρός ἕτερον). La g. è sempre un valore etico, una virtù, e come tale è «medietà» (μεσότης) ma questa virtù è calata nella dimensione sociale, che è poi per Aristotele la dimensione costitutiva dell’ente uomo. La g., scrive Aristotele, è proporzione (ἀναλογία); la proporzione è un’uguaglianza di rapporti. Ma la proporzione conosce una duplice direzione: proporzione geometrica, proporzione aritmetica. La prima ripartisce in base al valore di ciascuno; la seconda ripartisce tra tutti in eguale misura. Il primo tipo di proporzione è il principio che nella visione aristotelica governa la g. distributiva: a ciascuno secondo il suo valore, nella ripartizione di cariche, onori, beni e quant’altro lo Stato può dividere tra i cittadini. Il secondo tipo di proporzione governa invece la g. che è indipendente dal valore e dal merito dei singoli, la g. commutativa, che attiene ai rapporti di scambio. Con questa espressione Aristotele intende sia i rapporti nei quali lo scambio è volontario (compravendita, prestito, ecc.) sia i rapporti nei quali esso è involontario: gli atti illeciti, involontari perché lo scambio non nasce dalla volontà di entrambe le parti. Appartengono alla g. come regola dei rapporti intersoggettivi anche i concetti di ‘giusto naturale’ e ‘giusto legale’ (Etica nicomachea). Entrambi fanno parte del concetto di giusto politico (πολιτικοῦ δίκαιου), intendendo con questa espressione la g. che attiene alla vita di una comunità (κοινωνία). Per «giusto legale» (νομικόν δίκαιον) Aristotele intende ciò che è stabilito per legge; per «giusto naturale» (φυσικόν δίκαιον) intende ciò che è da tutti percepito come giusto, per un sentire immediato e irriflesso (Retorica). Alla legge positiva Aristotele fa di nuovo riferimento nel trattare del- la g. come equità (ἐπιείκεια). L’equità è il correttivo che soccorre l’inevitabile generalità della legge, adattandola alle situazioni concrete; l’elemento che corregge le inevitabili lacune della legge. Non paragonabile all’apporto dato dalla filosofia, e però di grande importanza, è il contributo che alla riflessione sulla g. viene dalla retorica attica: Eschine, Lisia, Demostene. Per la particolare struttura del processo attico, la posizione dei retori risultava di primo piano nell’opera di raccordo tra g. e diritto. Con l’età ellenistica la concezione della g. si inscrive nell’orizzonte della filosofia stoica ed epicurea. Nella visione stoica la g. è conformità a un ordine naturale pensato come espressione di un principio razionale divino; in quella epicurea, invece, è creazione umana, convenzione fondata sul principio della reciproca utilità.
Difficile dire della visione romana della g. prima della diffusione della cultura greca. La legge delle XII tavole (5° sec. a.C.), primo documento della storia romana, è un testo giuridico che non lascia emergere una qualche specificità del concetto. Ciò che trasmette, è comunque una visione del giusto assai diversa da quella greca. L’essenziale diversità riguarda proprio quello che, dalle più remote origini fino ad Aristotele, era stato il perno della visione greca della g.: il principio del limite, il valore della misura. È con la diffusione del pensiero greco che questi concetti cominciano a insinuarsi nel tessuto della cultura romana, orientandone la concezione della giustizia. I primi nomi del pensiero filosofico romano sono quelli di Cicerone e di Seneca. Una menzione spetta anche ai grandi giuristi le cui opere si riversano nella compilazione giustinianea: Celso, Paolo, Gaio, Ulpiano. Il loro pensiero incide in maniera profonda sulla concezione romana della g., rivelandosi spesso terreno di confronto tra pragmatismo giuridico e riflessione filosofica. È un oratore, il primo filosofo, Cicerone. Formatosi alla scuola stoica di Panezio e di Posidonio, Cicerone ne recepisce la dottrina, intessuta di elementi platonici e aristotelici, adattandola al pragmatismo della cultura giuridica romana, come testimoniano le opere che soprattutto trattano il tema della g., e del rapporto tra diritto e g. (De re publica, De legibus, De officiis). La g. è virtù, ma tale virtù si estrinseca non nel perseguimento di una saggezza interiore, come per il primo stoicismo, né nella ricerca della felicità quale εὐδαιμονία, come nell’epicureismo, bensì nella realtà delle istituzioni, nel vivere sociale e politico. È una visione politicamente orientata, nella direzione di una g. che sia strumento di concordia tra i cittadini, e fattore di sviluppo della res publica. Cicerone vi perviene coniugando tra loro i principali elementi costituitivi dello stoicismo paneziano, il platonismo e l’aristotelismo. Del platonismo Cicerone trattiene il principio di armonia tra le parti dello Stato; dell’aristotelismo la distinzione tra g. naturale e g. legale. Se l’influenza platonica suggerisce l’immagine dello Stato giusto come ordine razionale, nel quale ogni cittadino deve contribuire nella diversità di ruoli e condizioni sociali, l’influenza aristotelica guida alla distinzione tra g. legale e g. naturale. Non tutto ciò che è stabilito dalle leggi e dai costumi degli uomini è per ciò stesso giusto; la forma legale non è garanzia di giustizia. Il fondamento della g. è indicato in una norma naturale-razionale eterna e immutabile; non è difficile scorgervi l’eco del concetto aristotelico di λόγος ὀρϑός. Di ispirazione stoica anche il pensiero di Seneca: la g. è ancora virtù (De clementia, De beneficiis, Ad Lucilium epistolae morales). Seneca accentua, rispetto a Cicerone, la dimensione interiore di questa virtù. L’elemento platonico della g. come virtù dell’anima, coniugato con l’insegnamento stoico dell’uguaglianza degli uomini guida verso una visione della g. più attenta ai rapporti tra gli uomini che alle istituzioni dello Stato. Spirito animato da una forte ispirazione religiosa, Seneca guarda alla g. in stretta connessione con l’idea di una uguaglianza che non appartiene solo ai ‘saggi’, come nello stoicismo di Zenone e di Crisippo; una uguaglianza fondata non sulla razionalità e sull’intelletto, ma sulla comune natura umana. In una cultura permeata di disuguaglianza Seneca introduce nuovi spunti di riflessione, destinati ad avere un impatto enorme sulla concezione della g. e sulle stesse disposizioni legislative. Di ispirazione stoica, influenzato da Epitteto, anche il pensiero di Marco Aurelio. Più vicino a Cicerone, però, che non a Seneca, nel guardare alla g. con attenzione alla vita politica, al mondo dell’azione più che a quello della meditazione. È invece soprattutto il pensiero aristotelico a influenzare l’opera dei grandi giuristi dell’età imperiale. Ars boni et aequi: così Celso definisce un diritto ormai penetrato dall’etica. Paolo conferma: non omne quod licet honestum est. Alla aequitas guarda Papiniano, nel sostenere che essa corregge lo ius civile, lo soccorre, lo aiuta nelle sue inevitabili lacune. Gaio recepisce la distinzione aristotelica tra g. legale e g. naturale, e alla naturalis ratio guarda quando si tratta di definire il fondamento del diritto delle genti. Dal poeta greco Simonide Ulpiano trae la celebre definizione di g. immediatamente indirizzandola nella direzione giuridica: volontà costante e perpetua di riconoscere a ciascuno il suo diritto.
La visione della g. del cristianesimo primitivo sostanzialmente risolve la g. nella morale, e questa nei precetti evangelici, in partic. nel comandamento dell’amore e della fratellanza. Scarso o nullo il rilievo accordato alla g. come dimensione attinente alla sfera del diritto e della politica. Ma la sempre maggiore diffusione del cristianesimo, e la sua stessa vita in forme organizzate, imposero una riflessione di più ampio respiro. Si cominciò allora a guardare alla g. come temine di connessione tra leggi umane e leggi divine. Già nelle prime manifestazioni della patristica è possibile cogliere quella distinzione tra ragione e fede sulla quale si sarebbe sviluppato il dibattito teologico e filosofico nei secoli successivi. La distinzione riguarda l’accesso dell’uomo alla g., la sua conoscibilità, ma non tocca il fondamento della g., che comunque rimane indiscutibilmente divino. Di indirizzo razionalistico la patristica greca (Atenagora, Clemente Alessandrino, Origene); orientata a far prevalere la fede sulla ragione la patristica latina (Tertulliano, Lattanzio, Ambrogio). In generale, nella elaborazione dell’idea di g. la patristica attinge a fonti ebraiche e a fonti greche, dalle une traendo la giustapposizione di legge divina e legge positiva, dalle altre il concetto di legge naturale, intesa come legge inscritta da Dio nella ragione dell’uomo. La patristica agostiniana segna un punto di svolta nella storia del pensiero cristiano, la linea di confine tra il pensiero antico e il pensiero medievale. Attingendo alla prima patristica e al neoplatonismo, Agostino d’Ippona elabora una teologia filosofica in un primo tempo vicina all’orizzonte razionalistico; la g. è conformità a una lex aeterna che è, insieme, naturale e divina, in quanto da Dio stesso posta nella ragione dell’uomo (De libero arbitrio, 388-95). L’opposizione al pelagianesimo, che insisteva sulla naturale bontà dell’uomo e dunque sulla sua possibilità di attuare il bene indipendentemente dal soccorso della grazia divina, minando il principio dell’oggettività del male e dunque di un giusto che è tale perché conforme alla ragione divina, determina in Agostino un mutamento di impostazione. L’originario razionalismo cede al volontarismo: g. è ora ciò che è voluto da Dio. La g. non viene più da una legge razionale-divina, ma direttamente dalla volontà di Dio. Lo slittamento di prospettiva è fondamentale: se prima giusto e ingiusto erano oggettivamente tali, ora sono tali solo in quanto decisi da Dio. Non la natura-ragione comune a tutti gli uomini, ma la fede è il fondamento della giustizia. Trasferita sul piano politico, questa concezione si traduce nella identificazione della «Città degli uomini» (la sfera politica) con la «Città di Dio», a sua volta identificabile ora con la Parola del Signore ora con la Chiesa di Roma. Sfera politica e sfera religiosa si saldano in una unità che è la sola garanzia di g. delle leggi umane (De civitate Dei, 413-26). Con alterne vicende, questa concezione perdura fino a Tommaso d’Aquino, che nella Summa theologiae (1269, incompiuta) sottrae la g. al volontarismo di impronta agostiniana, e in essa indica il limite al potere politico. L’Aquinate recupera l’insegnamento aristotelico: nella disputa tra razionalismo e volontarismo è alla ragione che guarda, quale sede del giusto legale e del giusto morale. L’influenza del pensiero aristotelico si mostra chiara già nell’indicazione del concetto generale di legge come ordinatio rationis, e nella sua destinazione, il bene comune. All’interno di questo concetto generale, Tommaso distingue una lex aeterna, una lex naturalis e una lex humana, tra loro legate da un vincolo di necessaria derivazione. Al di fuori e al di sopra di esse, dotata di uno statuto (teologico) speciale si colloca la lex divina, la legge rivelata. La legge eterna coincide con la ragione stessa di Dio reggitore dell’Universo che tutte le cose dirige al loro proprio fine; la legge naturale è espressione della partecipazione di ogni creatura razionale al disegno di Dio; la legge umana infine è la legge positiva, la cui legittimità è data dalla conformità a una legge naturale che Tommaso vede inscritta nell’uomo creatura di Dio. La g. è conformità a un ordine naturale che è, immediatamente, razionale e divino. Tommaso riprende la visione aristotelica del carattere intersoggettivo della g., come virtù πρός ἕτερον: all’incrocio tra la visione aristotelica e la visio- ne ciceroniana, definisce la g. come disposizione dell’animo che con volontà costante e perpetua attribuisce a ciascuno il suo diritto. Non più solo virtù interiore, che vive nella perfezione della fede, la g. si mostra piuttosto termine di riferimento e criterio di valutazione delle leggi positive e del potere politico, cui compete realizzare in terra quel ‘bene comune’ che già informa la legge eterna di Dio. In questa direzione, Tommaso sottrae la g. al volontarismo di impronta agostiniana, e in essa indica il limite al potere politico.
Mentre la cultura medievale inquadrava la g. in un orizzonte religioso e teologico, l’età moderna si volge piuttosto alla dimensione politica. La concezione della g. risente dei grandi eventi che proprio sul terreno politico si producono, in partic. la Riforma protestante e la nascita degli Stati nazionali. La Riforma conserva, e anzi rafforza, l’impianto teologico del concetto di g.: questa e la fede ora si identificano, sono entrambe opera di Dio. Ai governanti terreni il compito di realizzarla. Sul terreno di una visione teocratica della politica si incontrano le posizioni, per taluni aspetti diverse, dei grandi esponenti della dottrina protestante, Lutero, Calvino e Zwingli. La formazione degli Stati nazionali produce sulla visione della g. effetti assai più importanti e significativi. Diviene chiaramente politica la disputa, che nel Medioevo era stata essenzialmente teologica, tra fondamento razionale e fondamento volontaristico della giustizia. Fino a Locke, quest’ultimo indirizzo è dominante. Il suo presupposto teorico è nella assolutizzazione della politica, nella sua autonomizzazione da quei vincoli etici e giuridici che nel corso del Medioevo ne avevano segnato i limiti. Questa nuova visione, teorizzata già da Machiavelli agli inizi del 16° sec., sostiene nella seconda metà dello stesso secolo la teoria politica di Bodin, poi si radicalizza, nel secolo successivo, con Hobbes. La g. si identifica con la legge dello Stato, e la legge è quod principi placuit. Non più virtù, secondo quello che era stato l’insegnamento antico, né più elemento di raccordo tra dimensione umana e dimensione divina, come era stata nel Medioevo, la g. ora acquista di senso solo con riferimento al potere politico. Alla conquista e alla conservazione del potere politico si indirizza soprattutto la riflessione di Machiavelli, che al principe raccomanda di tenersi lontano dalle virtù etiche, perché politicamente dannose (Il principe, 1513). Giusto e ingiusto si misurano sul terreno dell’utilità politica: il potere del principe diviene il termine di riferimento del concetto di giustizia. Si prepara la strada per quella assolutizzazione del potere che trova il suo primo teorico in Bodin, e il suo massimo rappresentante in Hobbes. Comune a entrambi è l’idea della legge come manifestazione della volontà del sovrano, e del sovrano svincolato da ogni obbligo di obbedienza alle leggi. La g. coincide con il dettato della legge: non più limite al potere sovrano, ma parte di quello stesso potere. In Bodin (Sei libri dello Stato, 1576), l’opera di ripensamento della visione medievale della g. si svolge interamente sul terreno giuridico-politico, in Hobbes invece essa si sviluppa su presupposti schiettamente filosofici, che si riflettono sulla visione della politica. Si consuma con Hobbes il distacco dalle strutture di pensiero proprie della tradizione aristotelico-tomista, scardinata in ogni suo elemento. Ai fini della concezione della g. l’elemento fondamentale è dato dal rovesciamento del concetto di ragione. Non più λόγος ὀρϑός, recta ratio, universale e dunque comune a tutti gli uomini, la ragione diviene ragionamento, calcolo di utilità su ciò che può arrecare beneficio o danno. Giusto e ingiusto si misurano sul terreno dell’utilità: utilità individuale (la conservazione della vita) e utilità collettiva (la condizione di pace) convergono nel dare fondamento a un potere assoluto che dal consenso degli individui trae la propria legittimazione (Leviatano, 1651). Legge naturale e legge civile, pur implicandosi, si separano. Giusto naturale e giusto civile appartengono ad ambiti diversi (De cive, 1642). L’idea aristotelica e tomista della g. come comune norma e misura scompare, assorbita in una modernità che spezza i vincoli etici e giuridici che lungo tutto il Medioevo avevano costituito un argine al dilagare del potere politico. Li riporta in primo piano Locke, in quello stesso sec. 18°. Lungo il tracciato indicato da Hooker e da Althusius, ma anche da Grozio, Locke recupera la concezione medievale della ragione come recta ratio, universale e comune a tutti gli uomini, e con essa l’idea di una legge naturale inscritta nella ragione dell’uomo (Due trattati sul governo, 1690). Duplice la diramazione di tale legge naturale: in senso oggettivo, essa impone precetti per tutti vincolanti, in senso soggettivo fonda diritti naturali. La g. è conformità ai precetti di diritto naturale, e il primo e fondamentale precetto è non ledere l’altro nella vita, nella libertà, nella proprietà, in quanto diritti naturali, innati nell’uomo. Il riflesso politico di tale concezione è il principio della limitazione del potere: il sovrano non può violare i diritti naturali dei sudditi senza per ciò stesso violare il diritto naturale. Non la volontà del sovrano, ma un bene comune che con i diritti naturali si identifica è il supremo criterio di g., fine in vista del quale deve essere ordinata la politica. Il passaggio del secolo vede insinuarsi nell’idea di g. elementi diversi. Hume nega la naturalità della g., considerandola convenzione umana, artificio; la dottrina fisiocratica di F. Quesnay invece, adattando al piano economico i principi giusnaturalistici, sostiene la coincidenza del giusto economico con la conformità della politica economica alle leggi dell’ordine naturale. Sono i primi segnali di quella teoria economica classica poi pienamente sviluppata da Smith (Ricerche sopra la natura e le cause della ricchezza delle nazioni, 1776). Sintesi di libertà e uguaglianza, la g. per Rousseau prende forma e consistenza nel quadro della «volontà generale» (Il contratto sociale, 1762). Concetto portante dell’intera teoria politica, la volontà generale è l’ente dal quale, per la sua stessa composizione e struttura, Rousseau fa derivare una legislazione inevitabilmente giusta. Nella intrinseca rettitudine della volontà generale sfera morale e sfera politica si saldano: lo Stato assume connotazione etica. Connotazione schiettamente giuridica possiede invece lo Stato kantiano; come pure schiettamente giuridica è la g. che lo Stato deve attuare, al di là della quale si trova la dimensione della g. cui lo Stato non può e non deve accedere, e che è dominio della morale (La metafisica dei costumi, 1797). Foro esterno (il diritto) e foro interno (la morale) rimangono ambiti separati. La g. che riguarda il foro esterno si realizza come uguaglianza giuridica; la g. che invece riguarda il foro interno, come obbedienza al comando della morale, che nella ragione trova la sua sede (Fondazione della metafisica dei costumi, 1785). Nucleo teorico centrale della g. legale è la libertà, che Kant intende come indipendenza dall’arbitrio costrittivo altrui; nucleo teorico centrale della g. morale è l’autonomia della volontà, intesa come puro rispetto della legge morale universale.
Agli inizi del 19° sec. Hegel guarda alla g. nell’orizzonte della visione storicistica che proprio in quel tempo si andava affermando. Al razionalismo universalistico kantiano oppone una g. che si struttura nel movimento dialettico del divenire storico, e che trova realtà e universalità solo nelle forme e nelle istituzioni dello Stato. Prodotto dello spirito, la g. ne segue le fasi, nel passaggio dall’astrattezza alla concretezza, dalla particolarità alla universalità. Non l’io morale, ma lo Stato è il luogo supremo nel quale la g. raggiunge la sua oggettività (Lineamenti di filosofia del diritto, 1821). A questa visione reagiscono sia il marxismo sia il positivismo. La concezione marxiana della g. si inquadra nell’orizzonte della critica del sistema economico capitalistico e dei valori tipici della cultura borghese. Muovendo dalla critica dell’economia politica (Per la critica dell’economia politica, 1859), Marx guarda allo Stato del suo tempo come al luogo dell’ingiustizia elevata a sistema: ciò che viene chiamato g. è mascheratura dei rapporti di forza tipici del sistema capitalistico, sovrastruttura ideologica del pensiero borghese, strumento con il quale il capitalismo legittima la disuguaglianza sociale e lo sfruttamento economico del lavoro operaio. La g. è uguaglianza sociale ed economica, ripartizione del lavoro secondo le possibilità di ciascuno, ripartizione dei frutti del lavoro secondo i bisogni di ciascuno (Critica del programma di Gotha, 1875). È compito della classe operaia realizzarla, rovesciando con la rivoluzione i rapporti di forza esistenti e assumendo la guida del processo produttivo attraverso la collettivizzazione dei mezzi di produzione (Il manifesto del partito comunista, 1848). Il positivismo guarda invece alla g. in un’ottica evoluzionistica talvolta incrociata con una prospettiva di impianto sociologico. Variamente tematizzato e sviluppato, l’indirizzo positivistico è comune ad autori come Comte, Spencer, Ardigò. Coniugando l’elemento biologico e l’elemento sociale, il positivismo giunge a una visione della g. che, emergendo dall’incrocio dei due elementi, di fatto apre alla legittimazione della logica del più forte. Spencer in partic. adotta questo punto di vista (Statica sociale, 1850). Muovendo da una concezione della libertà come diritto naturale dell’individuo, osserva che egli deve essere lasciato libero di perseguire i suoi interessi nei limiti imposti dalla sua stessa natura biologica; che la natura stessa si incarica di favorire i più forti e di eliminare i più deboli; che ogni intervento dello Stato che tenda ad alterare questa «ferrea legge della natura» si configura immediatamente come illegittima e ingiusta (Individuo e Stato, 1884). La g. torna a essere ciò che dicevano i sofisti: il diritto del più forte. Assai diversa la visione della g. di John Stuart Mill, che con Spencer peraltro condivide l’orizzonte culturale del liberalismo. Muovendo anch’egli dalla libertà come supremo valore, considera la g. come uguaglianza nella libertà (Saggio sulla libertà, 1859). Di conseguenza, ritiene che proprio allo Stato spetti il compito di realizzare e garantire le condizioni di accesso a una libertà che sia diritto di ciascuno e non privilegio di pochi (Principi di economia politica, 1848-52). Il medesimo indirizzo è poi seguito, ancora all’interno del pensiero liberale, da Green, ma con maggiore attenzione alla dimensione sociale, e con un forte recupero del concetto aristotelico-tomista di bene comune. In Francia la riflessione sulla g. prende la via del garantismo. Autori come Constant, Guizot, Tocqueville sono impegnati a elaborare una concezione nella quale la g. si converta in garanzia dei diritti individuali, termine di riferimento di una sfera di libertà sottratta alla onnipotenza della maggioranza. Anche in Germania il problema della g. incrocia la questione delle garanzie dei diritti individuali. In una cultura giuridica non incline a considerare gli individui co- me titolari di diritti originari, autori come F.W. Gerber e G. Jellinek elaborano la teoria dei diritti pubblici soggettivi, per dare ai diritti individuali considerati privati le garanzie offerte dal diritto pubblico; il medesimo indirizzo, in Italia, è rappresentato da V.E. Orlando. Il nuovo secolo si apre all’insegna della reazione antipositivistica, che si sviluppa sia lungo l’asse della filosofia hegeliana (neohegelismo) sia lungo il tracciato della filosofia kantiana (neokantismo). A Hegel si richiamano autori come Kaufmann e J. Binder, in Italia Igino Petrone e Solari, più avanti Croce e Gentile; a Kant si richiama Stammler, e in Italia Del Vecchio. Dal punto di vista della riflessione sulla g., la reazione al positivismo ottocentesco va inquadrata essenzialmente sullo sfondo del rapporto individuo-Stato. Il neohegelismo riprende la concezione organicistica, che vede l’individuo acquistare di senso solo in quanto parte del tutto-Stato; pure riprende l’idea della intrinseca eticità dello Stato stesso. Il neokantismo al contrario si sofferma sull’individuo, al quale riconosce valore in sé, insistendo sull’esistenza di un diritto individuale originario, di estensione universale in quanto inerente alla persona umana. La concezione della g. risente del quadro filosofico di riferimento. Il neohegelismo la risolve nelle strutture di diritto positivo, il neokantismo al contrario sottolinea la distinzione tra legalità e giustizia. I riflessi politici delle rispettive posizioni sono evidenti: attraverso la distinzione tra legalità e g. il neokantismo insiste sull’idea di diritti naturali come freno al potere politico; il neohegelismo, non riconoscendo all’individuo valore per sé, non può ammettere l’esistenza di diritti individuali precedenti e indipendenti rispetto allo Stato, di conseguenza non può neppure riconoscere alcun tipo di freno al potere politico che sia esterno rispetto allo Stato. Alla fine del primo conflitto mondiale, l’avvento dei regimi totalitari potenzia questa prospettiva, coniugandola con i concetti di nazione, popolo, classe, razza. Scompare ogni idea di diritto naturale, nella sua immobile certezza incompatibile sia con il pieno dispiegarsi della potenza dello Stato sia con un diritto interamente racchiuso nella forma della legge. Scompare ogni idea di retta ragione: non più λόγος ὀρϑός, universale norma e misura, la ragione di nuovo si particolarizza, piegandosi al dominio della politica. Variamente declinato, il concetto di g. si sviluppa all’interno di un concetto di legalità che trova il suo fondamento ora nella forma giuridica della norma ora nella volontà di chi detiene il potere politico. Le teorie dominanti, e tra loro contrapposte, sono quelle del normativismo (Kelsen) e del decisionismo (Schmitt). Pensata come pura forma (Kelsen) la norma giuridica può ricevere qualsiasi contenuto; la g. di conseguenza, nel suo solo significato giuridicamente percepibile, può anch’essa accompagnare qualsiasi contenuto: coincide con la legalità, e solo in questa coincidenza il termine assume un significato giuridicamente percepibile. G. è termine del discorso morale, ma il discorso morale non ha niente in comune col discorso giuridico. La g. è un ideale irrazionale, scrive Kelsen (Dottrina pura del diritto, 1933). Pensata come atto di volontà (Schmitt) la norma giuridica diviene espressione della decisione di chi di fatto detiene il potere politico (Teologia politica, 1922). L’ordine giuridico non poggia su una norma, ma su una decisione; non sulla normalità ma sulla eccezione, la quale dunque si pone, rispetto all’altra, come condizione logicamente precedente e indispensabile. La distanza che separa le due concezioni è incolmabile: per un verso si insiste sugli elementi (giuridici) della regolarità e prevedibilità del dettato normativo, sulla generalità e astrattezza della legge; per altro verso, sulla categoria (politica) della utilità della ‘comunità di popolo’. E l’utilità è variabile, muta col mutare della situazione politica, non può essere predeterminata, né definitivamente fissata. L’esito è una g. dai contenuti variabili, un’etica ritagliata su ciò che la comunità di popolo considera giusto e buono. La legislazione della Germania nazionalsocialista attinge a questa visione.
Il secondo dopoguerra segna una svolta fondamentale nella visione della g.; sono due, in partic., gli eventi che in tal senso incidono: il processo di Norimberga e la Dichiarazione ONU del 1948 sui diritti dell’uomo. La conclusione del processo vede emergere una nuova figura di reato, il crimine contro l’umanità; la Dichiarazione sancisce la nascita di una nuova categoria giuridica, i diritti umani. Il processo mostra al mondo i tanti crimini che sotto l’egida della legalità erano stati commessi; la sua conclusione impone un ripensamento dell’equazione giuspositivistica di legalità e g.; si torna a cercare un fondamento che sottragga il concetto di g. al mutevole volto della legalità e ai mutevoli destini della politica. Al centro di questa ricerca un soggetto nuovo: quella ‘persona umana’ che la guerra aveva reso oggetto di tanta devastante violenza. Dopo la visione positivistica, dopo la reazione idealistica, la riflessione sulla g. recupera il pensiero giusnaturalista, che per vie diverse sia il positivismo sia l’idealismo avevano negato. Il giusnaturalismo medievale, di derivazione aristotelica, aveva guardato alla g. come argine al potere politico; il giusnaturalismo moderno, di derivazione lockiana, aveva asserito l’esistenza di diritti naturali, innati nell’uomo, imprescindibili e inviolabili. Il giusnaturalismo del dopoguerra recupera entrambi questi aspetti, l’oggettivismo della tradizione più antica e il soggettivismo della tradizione moderna, li coniuga tra di loro, li intreccia in una visione della g. intesa sia come argine al potere politico e limite alla legalità sia come garanzia di inviolabilità dei diritti individuali. Il soggetto di tali diritti non è però l’astratto individuo del giusnaturalismo moderno, concetto che nulla dice al di là dell’atomismo che gli fa da cornice, ma l’uomo, con la sua esistenza concreta e reale. L’uomo sperduto nel suo angoscioso isolamento, cui guardano le correnti esistenzialistiche e la filosofia di ispirazione psicanalitica, ma anche l’uomo che cerca la sua identità in unione con altri, l’essere umano che si definisce nella sfera pubblica, come essere-con-gli-altri, e che in tale sua identità è ancora capace di agire. È la prospettiva filosofica di Arendt (Vita activa, 1958). Nel secondo dopoguerra l’uomo è visto come titolare di un corpus di diritti che solo in superficie richiama gli antichi diritti naturali. Persiste in realtà, tra l’antica categoria dei diritti naturali e la nuova categoria dei diritti umani una differenza di fondo, che attiene al fondamento di tali diritti: non la ragione, ma la comune umanità, l’appartenenza al genere umano. «Tutti gli uomini nascono liberi e uguali in dignità e diritti» recita la Dichiarazione ONU del 1948. Libertà e uguaglianza erano termini noti, e ampiamente frequentati dalle teorie giusnaturalistiche dei secoli precedenti, la dignità invece è un elemento nuovo, ed è proprio questo elemento nuovo a segnare il dibattito sulla g., diventando termine di riferimento e di confronto degli altri due tradizionali valori, la libertà e l’uguaglianza. Si sviluppa in tutta Europa, tra gli anni Cinquanta e Settanta del 20° sec., un dibattito vivace e serrato, nel quale si confrontano in partic. due indirizzi di pensiero, quello di ispirazione marxiana e quello di ispirazione cattolica. Il primo, sui presupposti della dottrina di Marx ed Engels, guarda alla dignità nell’ottica dell’uguaglianza sociale ed economica, il secondo, sulla base dell’insegnamento di derivazione patristica talvolta coniugato con la fenomenologia di derivazione husserliana, considera la dignità nell’ottica di una uguaglianza strutturale o ontolologica che poco o nulla concede all’ugualitarismo. Uguaglianza socio-economica e uguaglianza ontologica sono anche le categorie di accesso all’altro valore, la libertà, che ciascun indirizzo interpreta alla luce delle categorie ideologiche di riferimento e che comunque, in entrambi gli indirizzi, rimane in posizione subordinata. Tra la fine degli anni Settanta e i primi anni Ottanta si registra un mutamento di tendenza: l’Europa è investita da un’ondata di ritorno del pensiero li- berale, da sempre dominante negli Stati Uniti. Cominciano a diffondersi le teorie sulla g. di Rawls, Hayek, Nozick, Sen, B. Ackerman, Dworkin. Il dibattito, prima a due voci, si arricchisce ora per l’intervento di una voce nuova, che nel declinare il concetto di g. insiste proprio sul valore che la cultura europea e soprattutto italiana aveva lasciato in posizione subordinata, la libertà. Come già era accaduto nel liberalismo ottocentesco, la libertà si declina secondo una duplice prospettiva: come libertà essenzialmente economica (Nozick) e come libertà essenzialmente politica (Rawls). La prospettiva di riferimento influisce sulla concezione della g.: Nozick (Anarchia, Stato e utopia, 1974) ha una visione della g. assai vicina a quella già propria di Spencer e del liberalismo classico, e coincidente con la più ampia libertà di iniziativa economica privata e conseguente assenza dello Stato dalle dinamiche socio-economiche. Al medesimo indirizzo appartiene Hayek (Legge, legislazione e libertà, 1982). La concezione della g. di Rawls (Una teoria della giustizia, 1971), fortemente influenzata dal pensiero kantiano, è invece vicina al liberalismo di stampo greeniano, in quanto sintesi di una libertà pensata come diritto individuale e di una uguaglianza concepita in termini di uguaglianza di opportunità. Si tratta di una teoria che affida alle istituzioni il compito di realizzare la g., facendosi promotori e garanti del bene comune. La teoria di Dworkin (I diritti presi sul serio, 1977) ha un impianto più marcatamente giuridico: la g. consiste nella «uguale considerazione e rispetto» di cui ogni uomo deve godere, in quanto titolare del corrispondente diritto. In America prima e in Europa poi, il dibattito sulla g. si arricchisce grazie all’apporto di un ulteriore indirizzo di pensiero, il comunitarismo, il cui massimo rappresentante è M. Walzer (Sfere di giustizia, 1983). Al centro della teoria comunitarista della g. non vi è il concetto di individuo ma il concetto di comunità, gli stessi diritti individuali vengono considerati non come concetto universale ma nella cornice della tradizione culturale della comunità cui gli individui stessi appartengono. Sotto questo profilo, il comunitarismo rappresenta il rovesciamento del razionalismo cosmopolitico di derivazione kantiana, sia sul versante dei diritti individuali sia sul versante del diritto internazionale.
Un posto a parte, nel dibattito attuale sulla g., spetta a due questioni antiche, che proprio in questi ultimi decenni sono tornate a far sentire la loro voce: la questione della guerra giusta e la questione della disobbedienza civile. Presente già in Tucidide e in Cicerone, sviluppato dal giusnaturalismo medievale e moderno, a diverso titolo e per differenti ragioni negato sia da Kant sia da Hegel, accantonato negli anni che fanno da cornice alle due guerre mondiali e poi praticamente dimenticato nel periodo postbellico, il concetto di guerra giusta si ripropone all’attenzione nei primi anni del sec. 21°, favorito dalle due guerre irakene e dai tanti conflitti in Medio Oriente e in Africa. Due le interpretazioni dominanti, per vie diverse entrambe distanti dalla elaborazione tradizionale. La diversità riguarda essenzialmente l’elemento della giusta causa: nella visione tradizionale giusta causa di guerra era l’aggressione subita. Le attuali interpretazioni estendono il concetto di giusta causa, considerando per un verso giusta la guerra in qualsiasi luogo combattuta in difesa dei diritti umani violati, e per altro verso giusta anche la cosiddetta guerra preventiva, la guerra posta in essere in previsione di una guerra, come risposta anticipata e dissuasiva di fronte al pericolo di una guerra. Si tratta di due posizioni distinte che, però, non di rado si incrociano. Espressione dello scontro tra istanza morale e obbligo politico, la disobbedienza civile, ossia il rifiuto non violento di obbedienza a una legge che il comune sentire avverte ingiusta, entra nel dibattito sulla g. negli anni Settanta del Novecento, come parte integrante di teorie della g. di ispirazione liberale. La sua storia è però ben più antica. In quanto espressione di una g. che non si piega al dettato della legge, entra nella storia del pensiero con Antigone di Sofocle (5° sec. a.C.), come problema del diritto morale di violazione di una legge ingiusta. Per molti secoli dimenticata, per l’affermarsi delle teorie del diritto di resistenza, la disobbedienza civile è stata riportata in primo piano da H.D.Thoreau (Civil disobedience, 1848). Diviene elemento guida dell’azione politica di Ghandi, poi di Martin Luther King. Nella seconda metà del Novecento il diritto di disobbedienza è sostenuto da Arendt (La disobbedienza civile, 1969), da Rawls (Una teoria della giustizia, 1971), da Hayek (Regole e ordine, 1973), da Dworkin (I diritti presi sul serio, 1977).