GIUSTIZIA (lat. iustitia; fr. ing., justice; sp. justicia; ted. Gerechtigkeit)
Nella speculazione greco-romana il concetto di giustizia è ancora essenzialmente naturalistico, poiché di esso si cerca il fondamento non nell'uomo, ma nella realtà naturale comunque concepita, come principio materiale o come principio ideale. Da concetto esprimente la fisica necessità che mantiene ogni cosa nel proprio ordine e nel proprio corso, la giustizia passa a significare un principio naturale di coordinazione e di armonia nei rapporti umani, per assurgere da ultimo ad attributo del volere che tale ordine naturale attua nell'operare.
Per primi i Pitagorici intesero la giustizia come il riflesso nel mondo morale e politico dell'armonia cosmica espressa simbolicamente nei numeri e nelle loro combinazioni. Per essi la giustizia era simboleggiata dal moltiplicarsi di un numero per sé stesso, cioè da un numero quadrato, a rappresentare l'equivalenza dell'azione e della reazione giuridica che ad essa deve corrispondere; concetto espresso dai Pitagorici anche dicendo che il giusto è l'ἀντιπεπονϑός, il contrappasso di Dante.
I due concetti di armonia e di eguaglianza rivelati da Pitagora nella giustizia naturale si svolgono e si determinano in Platone e in Aristotele. Per Platone la giustizia è infatti l'armonia sia tra le diverse facoltà dell'anima, sia tra le diverse classi di cittadini, in quanto assegna ad ogni facoltà, ad ogni ceto quello che a ciascuno spetta, come "attuazione del proprio compito" (τὰ αὑτοῦ πράττειν). La dottrina aristotelica svolge invece e corregge l'idea pitagorica della giustizia come eguaglianza. Partecipando dell'essenza della virtù, la giustizia dovrebbe rappresentare il giusto mezzo tra un difetto e un eccesso. Sennonché nel libro V dell'Etica Nicomachea ove si tratta della giustizia generale in largo senso, Aristotele non parla né di medietà, né di vizî estremi, ma contrappone alla giustizia l'ingiustizia. Ciò si spiega se si pone mente che la giustizia generale non è una virtù particolare, ma è virtù intera che trae il suo contenuto dalle altre virtù. Il concetto di medietà si applica alla giustizia solo quando essa è intesa come virtù particolare, ed è medietà non tra opposte tendenze soggettive, ma tra due quantità estreme che sono il troppo e il troppo poco nell'assegnazione degli onori e beni pubblici o nello scambio privato dei beni. Perciò il mezzo in cui la giustizia in senso stretto consiste, corrisponde all'eguale, e non è come per Pitagora una quantità fissa, ma variabile con criterio proporzionale. Non si tratta di dare a tutti egualmente, ma di dare a ciascuno il proprio.
La giustizia particolare assume diverse forme secondo la natura dei rapporti che ne sono l'oggetto, secondo il criterio proporzionale applicato per deteminare il proprio di ciascuno. Gl'interpreti contrastano sul numero e sulla natura delle varie forme di giustizia particolare. Ma tutti concordano nel far risalire ad Aristotele la classica distinzione tra giustizia distributiva e giustizia commutativa, regolatrice l'una dei rapporti pubblici (distribuzione di onori e pubbliche ricchezze), l'altra dei rapporti privati (scambio di cose).
Nell'età postaristotelica e soprattutto in Roma si conserva il significato oggettivo, naturalistico della giustizia, ma è posto in maggiore rilievo l'aspetto soggettivo della medesima. Evidente è l'ispirazione stoica nella definizione che dà Cicerone della giustizia nel De inventione: "Iustitia est habitus animi, communi utilitate conservata, suam cuique tribuens dignitatem". La definizione di Ulpiano (Dig., I,1, 10 pr.) traduce in termini romani e in forma più rispondente alle esigenze del giureconsulto, la definizione di Cicerone. "Iustitia est constans et perpetua voluntas ius suum cuique tribuendi". L'habitus animi diventa la constans et perpetua voluntas; la dignitas diventa lo ius. La giustizia, conforme all'insegnamento stoico, diventa una virtù attiva; non è solo scienza o ratio che segue la natura, ma si afferma come arte, come voluntas. D'altra parte ciò che la natura assegna a ogni essere diventa il suo diritto, e una misura comune di giustizia, ossia di eguaglianza proporzionale, è invocata a regolare il sistema dei rapporti tra individui aventi diritti diversi.
Alla concezione naturalistica della giustizia succede col cristianesimo la concezione spiritualistica in rapporto alla nuova realtà divina che costituisce l'oggetto della speculazione. Il fondamento della giustizia non è più cercato nella natura, ma nella volontà di Dio.
"Quod Deus vult ipsa iustitia est", dice .S. Agostino. Perciò la giustizia più che un sistema di norme si presenta come un sistema di precetti, sostenuti da sanzioni religiose ed estesi quanto la pietas. D'altra parte non basta la conoscenza di ciò che è giusto per operare giustamente: occorre la libera e attiva partecipazione del soggetto, sostenuto dalla grazia divina. Ma se per essere giusto bisogna voler esserlo, la giustizia cessa di essere, come in antico, virtù intellettuale e sociale, per divenire virtù morale e individuale. Mentre gli antichi avevano esteriorizzato la morale riducendo quest'ultima a una forma di giustizia, il cristianesimo interiorizzando la vita giuridica finì col confonderla con la moralità.
La scolastica più che a svolgere gli elementi idealistici e volontaristici insiti nella concezione patristica della giustizia, intese ad associarli con la concezione intellettualistica aristotelica.
Per S. Tommaso la giustizia è la ragione stessa di Dio che governa il mondo. La volontà non determinata da ragione è arbitrio e può giustificare la legalità, non la giustizia. Dio stesso non può non volere cose giuste e una causa razionale. Subordinata alla giustizia divina è la giustizia naturale, che è la giustizia eterna attuata dagli esseri razionali nei loro rapporti. Per ciò che riguarda la natura, i caratteri, le forme della giustizia, S. Tommaso riproduce, determinandolo, il pensiero aristotelico: "Ratio iustitiae consistit in hoc, quod alteri reddatur, quod ei debetur secundum aequalitatem" (Summa theol., II, 11, qu. 80, art.1). Ciò significa che il medium iustitiae che per Aristotele è un rapporto di proporzionalità tra due esseri diversi, per S. Tommaso è un'eguaglianza proporzionale tra la cosa esterna che dobbiamo e la persona esterna a cui dobbiamo la cosa (II, 11, qu. 58, art. 10). Perciò l'uomo in rapporto con Dio non può essere veramente giusto, perché non può corrispondere l'aequale, ossia tanto quanto gli deve. E S. Tommaso dirà (ibid., qu. 80, art. I) che la religione (pietas) è virtù annessa alla giustizia, come annesse sono le virtù più propriamente morali che non ammettono il contraccambio. Con ciò S. Tommaso poneva un criterio oggettivo per distinguere la giustizia dalle altre virtù. Egli stesso riconosceva che il criterio della "rectitudo per quam homo operatur quod debet in quacunque materia" (II,1, qu. 61, art. 4) non è per la sua indeterminatezza ed estensione criterio sufficiente per caratterizzare la giustizia.
Con S. Tommaso l'oggettivazione della giustizia, che era poi naturalizzazione, toccava così la fase più alta di sviluppo a tutto danno di quegli elementi soggettivi, volontaristici, che la patristica aveva con modernità di vedute affermati come essenziali al concetto della giustizia. La nuova filosofia, iniziata da Bacone e da Cartesio, deriva invece dal senso o dalla ragione la nozione della giustizia.
La concezione empirica della giustizia culmina nel saggio sulla giustizia di Hume. Per questo l'idea della giustizia deriva dall'esperienza psicologica dell'uomo, il quale non essendo né interamente egoista, né interamente altruista, non potendo vivere né in uno stato di abbondanza di ogni cosa, né in uno stato di penuria estrema, è portato a stabilire la proprietà privata e ad associarsi con i suoi simili. Donde la necessità di norme di giustizia tendenti a garantire con la vita in comune la nostra stessa esistenza individuale. Tali norme obbligano non per la loro verità o razionalità intrinseca, ma per il sentimento della loro comune utilità e necessità.
La concezione razionalistica della giustizia originatasi dalla riforma cartesiana trova nel Leibniz la sua più alta espressione. Per esso la giustizia fondata su considerazioni di utilità e di convenienza sociale è la forma imperfetta della giustizia eterna, aspetto dell'essenza stessa di Dio, innata nell'anima umana. La tradizionale concezione della giustizia naturale e divina si ripresenta ma soggettivata nelle forme dell'innatismo: la suprema giustizia è charitas sapientis, e s'identifica con la pietas.
Tra empiristi e razionalisti mediano invece i giusnaturalisti della scuola del Grozio, che cercano di adattare l'empirismo e il razionalismo alle particolari esigenze della vita giuridica e politica. Essi muovono dall'affermazione di una giustizia naturale fondata sul riconoscimento di tendenze ed esigenze della personalità empirica e razionale dell'uomo; ad essa contrappongono la giustizia civile che si origina da un patto di rinunzia totale o parziale alla giustizia naturale, diretto a garantire un miglior godimento degl'inviolabili diritti naturali.
Kant si interpone arbitro tra queste contrastanti dottrine, riassumendole e superandole. Il concetto della giustizia risulta di elementi empirici e razionali unificati dall'attività formale e sintetica della coscienza. Ma la giustizia non è solo un concetto della ragion pura, è anche un'idea della ragion pratica; e sotto questo aspetto s'identifica con la libertà esterna, cioè si pone come idea di relazione tra esseri mossi dalle tendenze più diverse, ma che devono coesistere tra loro secondo una legge universale di ragione coattivamente attuata. Il processo di soggettivazione della giustizia iniziato da Cartesio, continuato dal Leibniz e dai giusnaturalisti si compie con Kant, che alla concezione aristotelica naturalistica della giustizia come eguaglianza, contrappone il concetto di giustizia come libertà, di cui l'eguaglianza è il limite oggettivo, formale. Nell'idea di relazione tra libertà esterne si risolve la concezione dei diritti innati e la libertà più che come diritto sì afferma come condizione del diritto.
L'idealismo hegeliano integra sotto diversi aspetti il concetto kantiano della giustizia. Anzitutto applica alla determinazione del concetto di giuatizia il processo dialettico in virtù del quale la giustizia, come lo spirito che la produce, non è, ma diviene risolvendo progressivamente in sé il suo contrario. I dualismi tra giustizia naturale e razionale, tra giustizia assoluta e relativa, l'essere e il dover essere del giusto, perdono ogni valore in un sistema che afferma la razionalità del reale e concepisce la realtà come pensiero obiettivato. La storicità è condizione di esistenza dell'idea del giusto e questa non può esistere se non nelle forme del relativo e del concreto. Anche per Hegel la giustizia è libertà, ma questa non esclude, anzi postula la necessità e la naturalità; essa si attua astrattamente nell'individuo e nei rapporti interindividuali, ma solo nello stato si afferma in forma concreta e universale. La giustizia non è solo eguaglianza, proporzione, coordinazione intersubiettiva, ma è progressiva subordinazione e coordinazione armonica, unitaria, di parti al tutto. Ritorna il concetto di una giustizia eterna, oggettiva, non come rivelazione immutabile di Dio o della natura, ma come prodotto dello spirito che ha superato nel suo incessante divenire il momento della naturalità e della sua stessa soggettività per vivere l'idea del giusto nella sua concretezza e nella sua universalità.
Il positivismo del Comte, dello Spencer, dell'Ardigò, reagendo alle concezioni metafisiche e idealistiche della giustizia, ne cerca il fondamento nella biologia e nella sociologia. Tipica rimane in questo indirizzo l'opera sulla giustizia dello Spencer, la quale è per lui l'"etica della vita sociale". La giustizia è un fatto naturale, sottoposto alla duplice legge della causalità universale e dell'evoluzione. Le leggi della vita nello stato di associazione si convertono nella legge di "retribuzione", secondo cui ogni individuo deve raccogliere i vantaggi e i danni della sua natura e della sua condotta. Ciò garantisce il progresso della specie, in quanto gl'individui meglio dotati sopravvivono. Se la giustizia è retribuzione, la libertà ne costituisce l'elemento essenziale, perché l'individuo ha il diritto naturale di non essere ostacolato nell'estrinsecazione della sua attività e nel godimento dei risultati della condotta, rispettando l'egual diritto negli altri. Nella legge dell'egual libertà si riassume il contenuto della giustizia spenceriana: essa non è dedotta, come in Kant, da postulati metafisici, ma è il risultato del duplice adattamento biologico e sociale.
Contro questa concezione della giustizia, da cui esula ogni luce di spiritualità, più viva si destò in Italia la reazione. Questa si svolse nel senso di un ritorno alla posizione kantiana, oppure del nuovo idealismo.
Bibl.: B. Croce, Filosofia della pratica, Bari 1908; 3ª ed. 1925; G. Gentile, I fondamenti della filosofia del diritto, 2ª ed., Roma 1923; G. Del Vecchio, La giustizia, Bologna 1924 (con larga bibliografia sull'argomento).
Amministrazione della giustizia.
La storia, la dottrina, l'ordinamento dell'amministrazione della giustizia formano oggetto di distinte trattazioni sotto diverse voci, secondo l'aspetto e il problema che viene di volta in volta particolarmente considerato. Per ciò che attiene agli organi che amministrano la giustizia, v. giudiziario, ordinamento; corte: La Corte di cassazione; La Corte d'appello; tribunale; giudice; per ciò che si riferisce alla sfera d'azione di ciascun organo, v. competenza; incompetenza; per ciò che riguarda la giustizia intesa come potere e funzione statale, v. potere giudiziario; Giurisdizione; per il modo onde la giustizia si attua, v. processo; sentenza.
Giustizia amministrativa.
Evoluzione storica della giustizia amministrativa. - L'espressione "giustizia amministrativa" indica, in senso lato, quel complesso di istituti, mediante i quali viene assicurata la difesa delle persone fisiche e degli enti pubblici o privati contro l'azione illegittima della pubblica amministrazione. Nell'esercizio dell'attività che realizza i fini per cui lo stato è costituito, si stabiliscono rapporti giuridici, pubblici e privati, fra la pubblica amministrazione e gli enti o i singoli. Da tali rapporti possono scaturire conflitti dei singoli o degli enti contro l'amministrazione pubblica o dell'amministrazione contro i primi. La determinazione del potere che debba risolvere le controversie nelle quali lo stato sia parte, costituisce una delle più gravi questioni della politica e della scienza giuridica.
I sistemi che, negli ordinamenti positivi degli stati moderni, hanno risolto il problema, si possono ricondurre sotto quattro tipi: il sistema inglese, che in parte si ricollega ancora al self government; il sistema prussiano della giurisdizione amministrativa; il sistema francese del contentieux administratif; il sistema italiano della giurisdizione unica.
Nel sistema inglese, giudici dei ricorsi contro gli atti amministrativi illegittimi sono o funzionarî del potere esecutivo, o organi dell'amministrazione locale, che funzionano sotto la vigilanza dei supremi tribunali. Nel sistema prussiano, la decisione delle controversie fra lo stato e i privati è demandata a una giurisdizione amministrativa, organizzata nella sfera del potere esecutivo, ma con guarentige dirette ad assicurare la libertà del giudizio e l'autonomia dei giudici di fronte all'amministrazione attiva. Il sistema francese, informato al concetto di far dirimere le controversie fra lo stato e i privati a una giurisdizione affidata ad organi della stessa amministrazione, ma con procedimento analogo a quello del potere giudiziario comune, fu sostanzialmente adottato dagli stati italiani, prima dell'unificazione del regno.
Dopo il 1860, due tipi di contenzioso sono degni di nota: quello napoletano e quello delle provincie subalpine. Ma il contenzioso amministrativo sembrò allora che offendesse ogni sentimento di giustizia e gli stessi principî razionali del diritto giudiziario, i quali non consentono che alcuno sia giudice in causa propria. Ad abolirlo fu provveduto con la legge 20 marzo 1865, all. E, che demandò alla giurisdizione ordinaria tutte le cause per contravvenzione e tutte le controversie nelle quali si facesse questione di un diritto, sia nei rapporti giuridici pubblici (diritto detto impropriamente politico), sia nei rapporti giuridici privati (diritto civile), eccezion fatta per alcuni casi determinati (art. 6). Per impedire, poi, che il potere giudiziario invadesse la sfera riservata al potere esecutivo, si prescrisse che i tribunali, dinnanzi ai quali fosse portata una controversia per lesione di diritto derivante da un atto dell'autorità amministrativa, si limitassero "a conoscere degli effetti dell'atto in relazione all'oggetto dedotto in giudizio" senza modificare o revocare il provvedimento (art. 4). La revoca o la modificazione dell'atto fu riservata, su ricorso della parte, "alle competenti autorità amministrative", cui fu fatto obbligo "di uniformarsi al giudicato dei tribunali per quanto riguarda il caso deciso". Le questioni non attinenti a diritti, cioè quelle pretese individuali sfornite di potestà per farsi valere (interessi) furono attribuite alle autorità amministrative, con l'obbligo di ammettere le deduzioni e le osservazioni in scritto delle parti; di provvedere con decreto motivato e di sentire i consigli amministrativi nei casi prescritti dalla legge. Contro il provvedimento così adottato fu ammesso il ricorso in via gerarchica "in conformità delle leggi vigenti" (art. 3). La materia riservata alle autorità amministrative era così amplissima. La serie indefinita dei rapporti, che non si concretavano in diritti soggettivi, fra lo stato, gli enti e i privati, era laseiata a discrezione dell'amministrazione senza serie guarentige. Le garanzie costituzionali non potevano, per loro natura, assicurare l'integrità degli interessi privati di fronte all'amministrazione pubblica. Le garanzie amministrative, concretantisi nell'istruttoria dei ricorsi, nei pareri dei corpi consultivi e nella motivazione delle decisioni, apparivano inadeguate. I ricorsi amministrativi, infine, non assicuravano la realizzazione delle esigenze di giustizia. A colmare le deficienze dell'ordinamento del 1865 furono emanate le leggi 31 marzo 1889, n. 5992, e 1° maggio 1890, n. 6837. Queste organizzarono, nel seno del potere esecutivo, un procedimento contenzioso che, per la qualità dei giudici, per i gradi di giurisdizione, e per le norme del giudizio e della decisione, si uniformava alle regole del diritto giudiziario comune. Fu istituita una IV sezione del Consiglio di stato, detta, appunto, della giustizia amministrativa, con competenza generale di annullamento sui ricorsi per incompetenza, eccesso di potere e violazione di legge, contro ogni atto amministrativo lesivo di interessi di individui o di enti morali, e con competenza speciale di merito su materie tassativamente determinate. Per la tutela degl'interessi limitati alla provincia, fu istituito un organo provinciale: la Giunta provinciale amministiativa con una competenza sempre speciale, sia per i ricorsi in merito sia per quelli di legittimità.
Le leggi del 1889 e del 1890 conservarono la competenza dell'autorità giudiziaria, quale era stabilita dalla legge del 1865. La nuova forma di giustizia amministrativa null'altro doveva costituire che un controllo sugli atti amministrativi, ordinato con le guarentige della giurisdizione. Il criterio discriminatore delle competenze doveva essere semplice: alla giurisdizione ordinaria le questioni di diritto, alla IV sezione del Consiglio di stato e alla Giunta provinciale amministrativa le questioni inerenti a semplici interessi. Si considerò diritto l'interesse tutelato dalla legge in riguardo di una data persona; interesse quello tutelato dalla legge, non in riguardo della persona, bensì in vista del bene generale. Alla concezione di interesse tutelato dalla legge, detto altrimenti interesse legittimo, seguì l'applicazione della dottrina del diritto pubblico soggettivo alla giustizia amministrativa. Gl'interessi legittimi furono equiparati ai diritti; la funzione della IV sezione del Consiglio di stato fu dalla Cassazione considerata giurisdizionale e sottoposta al suo sindacato regolatore delle competenze, ai sensi della legge sui conflitti di attribuzioni del 31 marzo 1877, n. 3761. La crisi della giustizia amministrativa, aggravata dal fatto che i suoi organi non erano giudici della propria competenza, si manifestò in tutta la sua ampiezza e diede luogo alla riforma realizzata con la legge 7 marzo 1907, n. 62. Questa creò una V sezione del Consiglio di stato per la competenza speciale di merito; lasciò alla IV la competenza generale di legittimità; dichiarò giurisdizionale la funzione di entrambe, cui attribuì il giudizio sulla propria competenza per materia; dichiarò, infine, impugnabili le loro decisioni con ricorso per cassazione per assoluto difetto di giurisdizione.
Tuttavia altri inconvenienti sorsero a causa delle riforme processuali. La V sezione fu istituita come una nuova giurisdizione amministrativa distinta dalla giurisdizione di pura legittimità della sezione IV. L'unità della funzione giurisdizionale del Consiglio di stato rimase gravemente pregiudicata, con inconvenienti pratici di notevole entità. In ordine, poi, ai rapporti con l'autorità giudiziaria, la riforma tacque sulla questione gravissima della potestà degli organi di giustizia amministrativa, a decidere le questioni pregiudiziali e incidentali di diritto civile, che vanno risolute come mezzo al fine, per poter giudicare, cioè, della legittimità degli atti amministrativi. Tale silenzio e le esplicite ripetute dichiarazioni sull'esclusione di ogni deroga alla competenza dell'autorità giudiziaria, indussero a ritenere la persistente incompetenza degli organi di giustizia amministrativa a risolvere questioni di diritto. L'eccezione relativa al diritto se non arrestava lo svolgimento del giudizio, non rendeva definitivo il giudicato sull'atto amministrativo, per la possibilità che la pronuncia sulla questione di diritto fosse annullata dalla Cassazione per assoluto difetto di giurisdizione; oppure (essendo sempre integralmente salva la competenza giudiziaria) che le stesse questioni di diritto, risolute dagli organi di giustizia amministrativa, fossero riprodotte dinnanzi al magistrato ordinario. Il disagio della funzione di giustizia amministrativa fu in gran parte eliminato con la riforma del 1923 (r. decr. 30 dicembre, n. 2849) che ricondusse ad unità giurisdizionale le sezioni IV e V del Consiglio di stato; attribuì agli organi di giustizia amministrativa la competenza sulle questioni di diritto pregiudiziali o incidentali al ricorso; regolò l'effetto del relativo giudicato; e attribuì all'esclusiva competenza della giurisdizione amministrativa talune materie la cui natura è tale "che l'elemento patrimoniale o di diritto civile è inseparabile da quello pnrncipale ed assorbente di diritto pubblico".
Organi della giustizia amministrativa. - Sono il Consiglio di stato (v.), e la Giunta provinciale amministrativa (v.). Il primo comprende due sezioni giurisdizionali: la IV e la V e un'adunanza plenaria. Ciascuna sezione decide con l'intervento di almeno sette membri, compreso il presidente e a maggioranza assoluta di voti (art. 43 legge 26 giugno 1924, n. 1054). L'una e l'altra hanno competenza promiscua di legittimità e di merito. L'adunanza plenaria è presieduta dal presidente del Consiglio di stato, e costituita di otto consiglieri (quattro per sezione giurisdizionale), designati con decreto reale. Essa decide i ricorsi che involgono questioni di diritto che abbiano dato luogo a precedenti decisioni delle sezioni giurisdizionali fra loro difformi. I ricorsi si possono rinviare all'adunanza plenaria su richiesta delle parti o d'ufficio (legge cit., art. 45). Organo provinciale della giustizia amministrativa è la Giunta provinciale amministrativa.
Giurisdizione di legittimità. - La giurisdizione del Consiglio di stato e della Giunta provinciale amministrativa è di legittimità o di annullamento, e di merito o piena. La giurisdizione di pura legittimità è attribuita come competenza generale al Consiglio di stato, in prima e ultima istanza; e, in casi speciali, alla Giunta provinciale amministrativa, con appello al Consiglio di stato. Essa è, per sua natura, limitata cioè circoscritta all'esame della conformità dell'atto impugnato alle norme giuridiche che lo regolano. Ove il magistrato non riconosca tale conformità, annulla l'atto. Non può fare di più. Non può sostituire la propria volontà a quella dell'organo che ha emanato il provvedimento; non può disporre che sia reintegrata la lesione giuridica operata dall'atto amministrativo. Tutto ciò ha fatto dubitare circa la natura di questa funzione, essendo sembrato che non possa darsi giurisdizione che non verta su diritti subiettivi; e che una decisione la quale si limiti ad annullare un atto non risponda ai presupposti del giudicato. Pur fra il più vivo contrasto, l'opinione contraria ha avuto la sanzione legislativa, con la riforma del 1907, che ha affermato il carattere giurisdizionale della funzione.
La fonte principale della competenza generale di legittimità del Consiglio di stato è l'art. 22 del testo unico 1924. Ogni atto amministrativo illegittimo e lesivo di un interesse, può, di regola, essere impugnato. Le condizioni per la proponibilità del ricorso sono positive e negative. Condizioni positive: che s'impugni un atto amministrativo; che l'atto sia definitivo; che sia lesivo di un interesse. Non è condizione per la proponibilità, ma per l'accoglimento del ricorso, che l'atto sia illegittimo. Condizioni negative: che contro lo stesso provvedimento non sia stato proposto ricorso straordinario al re; che non si tratti di materia di competenza dell'autorità giudiziaria o di altre giurisdizioni speciali.
Per atto amministrativo, ai fini di giustizia amministrativa, deve intendersi quello formale, emanato nei rapporti di diritto pubblico interno. Sono sempre impugnabilì gli atti amministrativi speciali, mentre quelli generali (regolamenti) non lo sono se non quando pongono in essere direttamente la lesione di un interesse. Non sono impugnabili gli atti emanati dal governo nell'esercizio del potere politico; gli atti dei due rami del parlamento, con contenuto sostanzialmente amministrativo (leggi in senso formale); gli atti amministrativi delle camere legislative (compresi i loro organi interni) o dell'autorità giudiziaria in materia di volontaria giurisdizione; gli atti giurisdizionali, sia pure di organi amministrativi; gli atti concernenti i rapporti internazionali e la sicurezza esterna dello stato. Sembrano, invece, impugnabili gli atti giuridici privati della pubblica amministrazione, giacché anche per gli atti di gestione lo stato deve agire secundum legem e in vista dell'interesse generale.
Un atto non può essere impugnato in sede giurisdizionale se è riparabile in sede gerarchica. Di qui la condizione che il provvedimento sia definitivo. La proponibilità del ricorso ha, per presupposto, la lesione di un interesse. Quegli atti che, per loro natura, non possono toccare o ledere l'altrui sfera giuridica, come gli atti puramente interni, non sono impugnabili. Caratteri principali dell'interesse sono la valutabilità (l'interesse deve cioè essere produttivo di danno), l'attualità (non può riferirsi al futuro), la personalità (deve appartenere alla persona del ricorrente). Può anche appartenere ad enti pubblici e privati, e in tal caso il ricorso compete a chi ha la rappresentanza giuridica degl'interessi.
Contro un provvedimento amministrativo può essere prodotto ricorso al Consiglio di stato in sede giurisdizionale, oppure il ricorso straordinario al re. Electa una via non datur recursus ad alteram.
Rapporti con la competenza delle giurisdizioni speciali e dell'autorità giudiziaria. - Si fondano sul principio che la competenza di una giurisdizione è limite a quella delle altre. Non presenta notevoli difficoltà pratiche la discriminazione della competenza delle giurisdizioni speciali in confronto a quella del Consiglio di stato, giacché la legge determina espressamente quali materie sono devolute alle prime. Non così nei riguardi dell'autorità giudiziaria, la cui competenza è delimitata nella materia per cui si contende, e nei poteri del giudice; nella causa petendi e nel petitum. Per la materia, il criterio distintivo è stato già accennato: se l'atto amministrativo lede un diritto la competenza spetta all'autorità giudiziaria; se lede un interesse spetta al Consiglio di stato.
Circa i poteri del giudice, è da rilevare che l'autorità giudiziaria può solo conoscere della legittimità dell'atto e degli effetti conseguenti alla lesione del diritto dedotta in giudizio; se si chiede la modificazione, l'annullamento, la sospensione dell'atto, il giudice ordinario non è competente. Viceversa, il Consiglio di stato può solo annullare in tutto o in parte il provvedimento impugnato, ma non può conoscere delle conseguenze patrimoniali dell'annullamento. La delimitazione della competenza per materia (diritto o interesse), importa che non può farsi valere il diritto come interesse, al fine di chiedere l'annullamento dell'atto. Si noti che una questione di diritto può stare, rispetto a una questione d'interesse, in rapporto: a) di pregiudizialità o di incidentalità. Sono pregiudiziali e incidentali quelle questioni di diritto che vanno risolute come mezzo al fine della legittimità del provvedimento impugnato. Es.: di fronte a un'ordinanza di riduzione in pristinum del suolo stradale, per opere abusivamente costruite, può essere pregiudiziale la questione se il terreno sia di proprietà privata. Il Consiglio di stato è autorizzato a risolvere le questioni pregiudiziali e incidentali, tranne l'incidente di falso e le questioni concementi lo stato e la capacità delle persone, che non riguardino la capacità di stare in giudizio. Sulle questioni pregiudiziali e incidentali, l'efficacia della eosa giudicata rimane limitata alla questione principale decisa nel caso (art. 28, legge c. s.); b) di conseguenzialità. Si accenna a quelle questioni di diritto che sono conseguenza della pronuncia di legittimità, come, nel caso in cui, annullato il lieenziamento di un pubblico impiegato, si chiedesse il risarcimento dei danni. Tali questioni patrimoniali sono sottratte al Consiglio di stato, anche per le materie in cui questo è investito di giurisdizione esclusiva (art. 30, legge cit.). Non sembra che la questione di diritto possa stare in rapporto d'identità con la questione d'interesse. Se identificazione vi è, la questione verterà o su un diritto o su un interesse. Se tocca per un lato l'interesse e per l'altro il diritto, non vi è identità. Eccezionalmente, per le materie in cui è impossibile distinguere ciò che è diritto da ciò che è interesse, la giurisdizione di legittimità del Consiglio di stato è esclusiva e riguarda: i rapporti di pubblico impiego, le controversie di spedalità e di ricovero degl'inabili al lavoro, e di spese per gli alienati (art. 29, nn.1, 8 e 9, legge cit.). Su tali materie il Consiglio conosce anche delle questioni di diritto, con le limitazioni cui si è testé accennato per le questioni pregiudiziali e incidentali.
Il ricorso è proponibile per motivi di illegittimità, cioè per: a) incompetenza, che può essere assoluta (e in tal caso, si dice anche eccesso di potere), quando l'organo amministrativo invade la sfera di attribuzioni di un organo d'ordine diverso (legislativo o giurisdizionale), o relativa, se l'organo amministrativo statuisce su materia di competenza di un altro organo amministrativo; b) eccesso di potere (da non confondersi con l'incompetenza assoluta), che è un vizio della formazione della volontà nell'atto amministrativo. Assume forme molteplici, in cui predomina l'arbitrio con violazione di legge. È notevole che l'esame dal punto di vista dell'eccesso di potere, consente il sindacato degli atti discrezionali; c) violazione di legge, che consiste nella non conformità dell'atto alle norme giuridiche che lo regolano, sia per la forma sia per il contenuto. I ricorsi in materia doganale e di leva militare non sono ammessi che per incompetenza ed eccesso di potere (art. 26, legge cit.).
Come quella del Consiglio di stato, la giurisdizione di legittimità della Giunta provinciale amministrativa è limitata; ne differisce per il carattere speciale, in quanto la Giunta conosce soltanto dei ricorsi degl'impiegati degli enti autarchici contro i provvedimenti con cui sono stati sospesi per un periodo inferiore a tre mesi, o siano stati presi intorno alla loro carriera provvedimenti diversi dal licenziamento o che non riguardino la formazione del ruolo di anzianità (art. 4 testo unico 26 giugno 1924, n. 1058. L'art. 2 è stato abrogato dall'art. 229 della legge di pubblica sicurezza).
Giurisdizione di merito. - Tutti i principî esposti, a proposito della giurisdizione di legittimità, per quanto riflette il provvedimento impugnabile, l'interesse del ricorrente, i rapporti con le giurisdizioni speciali e l'autorità giudiziaria, trovano applicazione anche nei confronti della giurisdizione di merito del Consiglio di stato. Questa è piena e speciale. Il giudice può conoscere di tutti gli aspetti della controversia, fatto e diritto; può valutare la convenienza e l'opportunità, cioè il merito dell'atto; può dare gli ordini necessarî a reintegrare la lesione giuridica. È attribuita, su materie tassativamente indicate dalla legge, al Consiglio di stato, in primo e unico grado; e alla Giunta provinciale amministrativa in prima istanza, con facoltà di ricorrere contro le decisioni di questa al Consiglio di stato. Le materie per le quali il Consiglio di stato è investito di giurisdizione di merito sono numerose: sequestri di temporalità e provvedimenti concernenti le attribuzioni rispettive delle potestà civili ed ecclesiastiche; atti provvisionali di sicurezza generale; confini dei comuni e delle provincie; strade, opere idrauliche, e di bonifica; esecuzione del giudicato dei tribunali; pedaggi; ricorsi contro decisioni della Giunta provinciale amministrativa, ecc. Ha competenza esclusiva in materia di fondazione e riforma delle istituzioni di beneficenza; di controversie fra lo stato e i creditori circa il debito pubblico; d'industrie insalubri e pericolose; di spese sanitarie obbligatorie per lo stato, le provincie e i comuni, ecc.
La Giunta provinciale amministrativa ha competenza di merito in materia d'istituzioni fatte a pro della generalità degli abitanti dei comuni o delle loro frazioni; d'interessi dei parrocchiani; di opere attorno a costruzioni di cui le leggi pongono eventualmente il ristabilímento o la riparazione a carico rispettivamente della provincia o del comune; di provvedimenti contingibili e urgenti di sicurezza pubblica, emanati dal podestà; d'igiene dell'abitato; di consorzî fra provincia, comuni, enti morali e privati, per opere stradali che non escono dai limiti del territorio della provincia; di consorzî per opere idrauliche, poste per legge a carico esclusivo dei proprietarî frontisti, senza concorso obbligatorio dello stato nell'interesse generale; di bonifica di seconda categoria, ecc. Con giurisdizione esclusiva, la Giunta decide dei ricorsi: contro le deliberazioni con le quali gl'impiegati degli enti autarchici siano stati licenziati, o sospesi per un tempo maggiore di tre mesi, ovvero si sia provveduto alla formazione del ruolo di anzianità; contro le deliberazioni dei podestà in materia di fiere e mercati; contro le iscrizioni nel ruolo della spesa per la somministrazione del chinino agli operai e ai coloni affetti da febbri palustri.
Procedimento. - L'introduzione del giudizio ha luogo col ricorso dell'interessato contro la pubblica amministrazione. Il ricorso spetta sia alle persone fisiche sia alle persone giuridiche. Deve essere firmato da un avvocato patrocinante in Cassazione e dalla parte a meno che l'avvocato non sia munito di speciale mandato. Deve contenere le generalità del ricorrente, l'indicazione dell'atto che s'impugna e i motivi in fatto e in diritto.
Tranne che non sia diversamente disposto, il termine per proporlo è di sessanta giorni, e decorre, per coloro che sono direttamente contemplati nell'atto, dalla data della notificazione dell'atto stesso, e, per gli altri, dalla pubblicazione del provvedimento nella Gazzetta ufficiale o nel Foglio degli annunzi legali per la provincia. Nello stesso termine di sessanta giorni, il ricorso deve essere notificato all'autorità di cui s'impugna l'atto e alle persone cui l'atto direttamente si riferisce. Nei trenta giorni successivi alla notificazione, l'originale ricorso con la prova delle eseguite notifiche, e coi documenti su cui si fonda, deve essere depositato, insieme col provvedimento impugnato, nella segreteria del Consiglio di stato. I termini per il ricorso e per il deposito sono perentorî. Nel termine di trenta giorni successivi a quello assegnato per il deposito del ricorso, l'autorità e le parti alle quali il ricorso fosse stato notificato, possono presentare memorie, fare istanze, produrre documenti e anche produrre ricorso incidentale con le forme prescritte per il ricorso principale. Il ricorso incidentale è notificato nei modi prescritti per il ricorso principale all'avvocato che ha firmato il ricorso. L'originale deve essere depositato in segreteria nel termine di dieci giorni con la prova delle eseguite notifiche e coi documenti. Eseguite le notifiche e i depositi, le parti o la pubblica amministrazione debbono far istanza per la fissazione dell'udienza, per la discussione dei ricorsi. Questi si considerano abbandonati se per tre anni non si sia fatto alcun atto di procedura. All'udienza, che è pubblica, un consigliere fa la relazione; l'avvocato della parte, se interviene, può essere ammesso a svolgere succintamente il proprio assunto. La polizia delle udienze, l'ordine delle discussioni e delle deliberazioni e la pronuncia della decisione e la ricusazione dei giudici sono regolate dal codice di procedura civile. Gl'incidenti che possono sorgere nel corso del giudizio sono: a) sospensione dell'esecuzione del provvedimento impugnato; il ricorso non ha di regola effetto sospensivo. Tuttavia, su istanza del ricorrente, l'esecuzione del provvedimento può essere sospesa dalla sezione per gravi motivi; b) riunione dei ricorsi, che ha lo scopo di far risolvere, con unica decisione, più ricorsi fra i quali vi sia identità oggettiva; c) intervento in causa, che mira ad assicurare l'intervento nel giudizio, ad adiuvandum o ad opponendum, al terzo interessato; d) querela di falso, che ha lo scopo di sanzionare l'inefficacia di un documento prodotto come mezzo di prova; e) eccezione di incompetenza, che può essere opposta in qualunque stato della causa e rilevata d'ufficio. Valgono, per questi istituti, regole analoghe a quelle del diritto processuale civile. Così pure per l'istruzione del giudizio; con la specialità che l'amministrazione interessata può essere richiesta di dare chiarimenti, di fare verifiche e di produrre documenti. Nei giudizî di merito, può essere disposto qualunque altro mezzo istruttorio (ispezioni, perizie, testimonianze, ecc.). Il giudizio ha termine, con: la rinuncia, che può esser fatta in qualunque stadio della controversia; la perenzione; e la decisione. Questa è adottata in camera di consiglio, ed è pubblicata alla prima udienza successiva al giorno in cui fu sottoscritta. Riguardo al contenuto del dispositivo, è da rilevare che se la Sezione riconosce ìnfondato il ricorso, lo rigetta; se lo accoglie, annulla l'atto impugnato, e, nel caso di incompetenza, rimette l'affare all'autorità competente. Nei giudizî di merito, se il Consiglio di stato non accoglie il ricorso per motivi di incompetenza, decide nel merito. L'esecuzione delle decisioni si fa in via amministrativa, eccetto che per la parte relativa alle spese. Contro la decisione sono ammessi: il rimedio della revocazione, nei casi stabiliti dal codice di procedura civile; e il ricorso per Cassazione, per assoluto difetto di giurisdizione. Queste regole valgono anche per il giudizio dinnanzi la Giunta provinciale amministrativa in sede giurisdizionale, con alcune specialità. Ad es., i termini per il ricorso, la notificazione, il deposito, ecc., sono più brevi. Non è richiesta l'assistenza di avvocato. La domanda per la fissazione dell'udienza deve essere prodotta tra il venticinquesimo e il trentacinquesimo giorno della notificazione del ricorso, a pena di decadenza. Contro le decisioni è ammesso il ricorso al Consiglio di stato.
Bibl.: F. Cammeo, Commentario delle leggi sulla giustizia amministrativa, Milano 1910; G. Corso, Commento delle leggi sulla giustizia amministrativa, Napoli 1913; L. Mortara, Commentario del codice e delle leggi di procedura civile, I, Milano s.a.; V. E. Orlando, La giustizia amministrativa, in Trattato, ecc., III, Milano 1901; id., Contenzioso amministrativo, in Digesto italiano; O. Ranelletti, La giurisdizione amministrativa, in Lezioni di diritto amministrativo, III, Napoli 1924; A. Salandra, La giustizia amministrativa nei governi liberi, Torino 1908; C. Schanzer, Vicende e riforme della giustizia amministrativa in Italia, in Nuova Antologia, 1910; G. Vacchelli, La difesa giurisdizionale dei cittadini verso l'autorità amministrativa, in V. E. Orlando, Trattato ecc., III, Milano 19°; C. Vitta, La giustizia amministrativa, Milano 1902; id., La Giunta, prov. ammin., Milano 1907; N. Borsi, Giustizia ammin., 2ª ed., Padova 1932.