Giustizia
di Mauro Cappelletti
Giustizia
sommario: 1. Introduzione. 2. La ‛giustizia costituzionale' e il superamento dei tradizionali conflitti fra equità e legge, fra diritto naturale e diritto positivo. a) Giustizia costituzionale, controllo delle leggi e ‛giurisdizione delle libertà'. b) Superamento dell'antitesi tra equità e diritto. c) Superamento dell'antitesi tra diritto naturale e diritto positivo. 3. La ‛giustizia internazionale' e il superamento del monopolio statale sul diritto e sulla giustizia. a) La giustizia internazionale e il problema della pace tra i popoli. b) La tutela soprannazionale dei diritti dell'uomo. c) II superamento della concezione dello Stato nazionale come fonte esclusiva del diritto e della giustizia. 4. La ‛giustizia sociale' e il superamento della concezione della giustizia come libertà individuale e uguaglianza formale. a) Giustizia sociale, libertà, uguaglianza e il conflitto ideologico tra mondo occidentale e mondo socialista. b) Un esempio: la giustizia dei poveri 5. Conclusione. □ Bibliografia.
1. Introduzione
Il valore ‛giustizia', come ogni altro valore - inclusi quelli di libertà e di uguaglianza, che sono frequentemente collegati e talora identificati con quello della giustizia - non può essere utilmente esplorato in astratto, ma soltanto nelle sue concrete realizzazioni. Il nostro interesse sarà attratto pertanto da fatti, eventi e istituti sociali, concreti e reali: dalla ‛fenomenologia', piuttosto che dalla ‛teoria'.
Gli eventi che più profondamente banno caratterizzato il nostro secolo - e le istituzioni che li hanno accompagnati - hanno imposto al consorzio umano la soluzione di certi fondamentali problemi pratici, soluzione tradotta essa stessa in nuovi fatti, eventi e istituzioni. La ‛giustizia' emergerà dunque come il valore pratico, o politico, che di volta in volta è oggettivamente attribuibile alla concreta risposta data a un problema della società: valore consistente in ciò, che si tratti di ‛risposta capace di risolvere, in maniera adeguata alle esigenze dell'epoca, quel dato problema pratico'.
Crediamo di poter individuare tre gruppi di fatti che, più profondamente di altri, hanno impresso il loro marchio sul nostro secolo, generandovi le più significative tensioni in termini di giustizia.
1. Il primo gruppo mette in primo piano una serie di fatti certo non nuovi nella storia dell'umanità, se non per la brutalità della loro realizzazione in un'epoca e in una società che si proclamano moderne e progredite: regimi totalitari; tirannie di uomini, di parti, d'ideologie; l'oppressione, perfino lo sterminio, d'individui, di gruppi, di razze, di religioni, spesso nel nome di una pretesa superiorità di altri individui, gruppi, razze, religioni; rudi violazioni di quelli che già due secoli prima furono proclamati come i ‛diritti naturali' di ogni uomo.
2. Il secondo gruppo pone in risalto due immani, disastrosi confitti fra Stati e gruppi di Stati, portando a livello mondiale quelle lotte fra nazioni che si erano per l'innanzi mantenute entro più limitate dimensioni spaziali.
3. Il terzo gruppo rivela gigantesche trasformazioni economiche e tecnologiche, di dimensioni senza precedenti e accompagnate, a loro volta, dalla più profonda rivoluzione sociale, intellettuale e ambientale mai vissuta dal genere umano. Tali trasformazioni si manifestano nel grande movimento d'industrializzazione di regioni sempre più vaste del nostro pianeta; nella formazione di enormi conglomerati urbani; nel deterioramento dei tradizionali tessuti familiari e sociali; nella rivolta dei lavoratori, delle donne, dei giovani; nella formazione di una ‛civiltà delle macchine' e ‛dei consumi', con tutte le sue potenzialità di alienazione per l'individuo e per i gruppi; nell'espansione, e potenziale oppressione, dei mass media: tutte, insomma, le radicali, minacciose, epperò allo stesso tempo seducenti e promettenti trasformazioni sociali ed economiche della nostra epoca.
Quid jus, quid iustum in un secolo caratterizzato da così giganteschi fenomeni di ‛oppressione', di ‛conflitto' e di ‛trasformazione'? Quali sono state, quali sono le risposte del corpo sociale alle ferite apportate da quegli eventi? In altre parole: che cosa è legittimo (right) e che cosa è giusto (just), per noi che viviamo in quest'epoca - di gran lunga la più eccitante e affascinante, ma anche la più minacciosa e pericolosa di tutte le epoche della storia dell'uomo?
2. La ‛giustizia costituzionale' e il superamento dei tradizionali conflitti fra equità e legge, fra diritto naturale e diritto positivo
a) Giustizia costituzionale, controllo delle leggi e ‛giurisdizione delle libertà'
Sotto il dominio del primo gruppo di fatti ed eventi menzionati sopra, il quid jus era rappresentato dal potere assoluto del tiranno e del partito politico, gruppo, razza o nazione da lui rappresentati; la legge - legislazione segreta, legislazione di partito, legislazione razziale - era valida in quanto voluta dal tiranno e dal suo gruppo: jus quia iussum. Una legge (o una giustizia) ‛naturale', superiore al diritto positivo, era negata, e perfino apertamente disprezzata.
La risposta, o reazione, ai problemi generati e alle tensioni provocate da tale situazione di fatto - il quid iustum - può descriversi come ‛giustizia costituzionale'. Paesi come la Germania, l'Italia, l'Austria, il Giappone, emergendo dalle tragiche esperienze del totalitarismo con le sue brutali violazioni dei più fondamentali diritti dell'uomo, si sono rivolti a ciò che oggi è chiamato il ‛costituzionalismo moderno' nel tentativo di proteggersi contro la possibilità di un ritorno di quel triste passato. Tutti questi paesi hanno infatti adottato costituzioni ‛rigide', proclamate come la ‛legge suprema del Paese', legge vincolante quindi per tutte le autorità, inclusa quella legislativa; tutti hanno introdotto in tali costituzioni un catalogo dei diritti dell'uomo o bill of rights, al fine di attribuire una posizione di preminenza a quei diritti e libertà, individuali e sociali, che sono stati ritenuti particolarmente importanti (diritti fondamentali o Grundrechte); tutti, infine, hanno adottato qualche sistema di controllo dell'attività governativa - inclusa l'attività legislativa - per assicurare che la supremazia della costituzione, e del bill of rights nell'ambito della costituzione, non si riduca, come in epoche passate, a una mera proclamazione retorica, ma sia capace di esprimersi come concreta realtà politica, resa effettiva da specifiche istituzioni giuridiche.
L'istituzione del controllo giudiziario di costituzionalità delle leggi rappresenta, probabilmente, la più tipica risposta data, nel quadro della ‛giustizia costituzionale', al problema pratico emerso dal primo gruppo di fatti descritti sopra.
Praticamente ignoto all'Europa del XIX secolo, il controllo giudiziario delle leggi è stato adottato in Austria nel 1920, come elemento caratterizzante di un nuovo Stato democratico. La sua adozione implicava l'accettazione di un principio profondamente innovatore, secondo il quale anche la legislazione è soggetta ai limiti e ai controlli di una ‛legalità superiore', accertata e applicata da una suprema Corte costituzionale. Un analogo tentativo d'introdurre il controllo di costituzionalità delle leggi ad opera di una Corte costituzionale è stato fatto nel 1931 dalla Spagna repubblicana.
Ma la giustizia costituzionale non ha mai potuto convivere con regimi dittatoriali. In particolare il controllo di costituzionalità, in quanto garanzia, ad opera di corti indipendenti, del rispetto da parte del legislatore di una superiore legalità e dei diritti fondamentali dell'uomo proclamati dalla costituzione, era destinato a sparire sia nell'Austria dell'Anschluss che nella Spagna di Franco. Soltanto nell'epoca successiva alla seconda guerra mondiale, in molti paesi si sono realizzate le condizioni per un grandioso fenomeno di ritorno alla giustizia costituzionale.
Questo fenomeno ha permeato di sé la storia giuridica e politica di un numero crescente di paesi negli ultimi trent'anni, dall'Austria (1945) al Giappone (1947), dall'Italia (1948 e soprattutto 1956) alla Repubblica Federale Tedesca (1949). Anche la Iugoslavia ha adottato, a partire dal 1963, un sistema di controllo giudiziario di costituzionalità, che costituisce un evento unico nell'ambito degli Stati socialisti. L'esempio iugoslavo, per la verità, stava per essere seguito nel 1968, all'epoca della ‛primavera di Praga', dalla Repubblica Popolare di Cecoslovacchia: ma la legge costituzionale n. 143 del 1968, benché mai formalmente abrogata, è rimasta finora inapplicata, come altre manifestazioni del fallito tentativo di liberalizzazione di quel paese. Significativo è anche il fatto che negli Stati Uniti, che sono stati il primo paese a introdurre, fin dall'inizio dell'Ottocento, l'istituzione del controllo giudiziario della costituzionalità delle leggi, questa istituzione è venuta ad assumere un'importanza eccezionale soltanto negli ultimi decenni, e specialmente negli anni 1953-1969 (l'epoca della cosiddetta Warren court) proprio come reazione contro le violazioni dei diritti fondamentali di individui e di minoranze, perpetrate dalla polizia, dagli Stati e dalle maggioranze.
In aggiunta a un sistema generale di controllo della costituzionalità delle leggi ad opera di speciali Corti costituzionali o delle corti ordinarie, alcuni paesi hanno anche adottato un arsenale di procedure speciali intese ad assicurare a certi diritti fondamentali dell'uomo una tutela giurisdizionale particolarmente forte e differenziata (v. Cappelletti, 1955). Quest'avvenimento rappresenta un'ulteriore, concreta risposta istituzionale, in termini di giustizia costituzionale - ossia di giustizia contro l'oppressione -, ai problemi sociali della nostra epoca.
In questo contesto, l'istituto piu tipico è la Verfassungsbeschwerde (o ricorso costituzionale), introdotta nel 1951 nella Repubblica Federale Tedesca come forma speciale di tutela giuridica dell'individuo contro gli abusi delle pubbliche autorità. Assimilabile in parte alla procedura dell'habeas corpus, la Verfassungsbeschwerde ha una portata molto più ampia dato che la sua protezione si estende non soltanto alla libertà personale, ma a tutti i diritti individuali e sociali proclamati dalla Costituzione di Bonn. Essa offre a ogni soggetto i cui diritti fondamentali (Grundrechte) siano stati violati da un atto del potere pubblico - legislativo, esecutivo o giudiziario - la possibilità d'impugnare tale atto mediante un ricorso straordinario davanti alla Corte costituzionale.
Un'istituzione anche più singolare è quella della Popularklage (azione popolare) adottata nel Land della Baviera. Introdotta nel 1947, la Popularklage permette a ogni individuo di ricorrere davanti alla Corte costituzionale bavarese contro le violazioni del bill of rights contenuto nella Costituzione di quel Land, perpetrate dalle pubbliche autorità del Land medesimo. In deroga a uno dei criteri universalmente accettati del tradizionale diritto giudiziario, tale potere d'impugnazione spetta a quisquis de populo, e non soltanto ai soggetti personalmente lesi nei loro propri diritti. L'idea che emerge da questo tipo speciale di procedura è che la violazione di diritti fondamentali rappresenta un'offesa nei confronti di tutti i cittadini, e non soltanto del cittadino direttamente e personalmente leso, e che pertanto tutti i cittadini possono ritenersi legittimati a ricorrere nel pubblico interesse contro l'atto incostituzionale.
Istituti simili alla Verfassungsbeschwerde tedesca o alla Popularklage bavarese non sono interamente sconosciuti in altri paesi (particolarmente notevole è l'esempio messicano del juicio de amparo), ma è tuttavia significativo il fatto che tali istituti abbiano trovato un terreno particolarmente fertile soprattutto nella Germania dell'ultimo dopoguerra. In questo paese, dove il bisogno di nuove ed efficaci forme di ‛giustizia contro l'oppressione' era particolarmente urgente, essi hanno costituito il miglior esempio di quella ch'è stata chiamata la ‛giurisdizione costituzionale delle libertà' o Grundrechtsgerichtsbarkeit, ossia una speciale, particolarmente vigorosa forma di tutela giudiziaria dei diritti fondamentali dell'uomo. Invero, la giurisdizione costituzionale delle libertà rappresenta forse la più raffinata risposta istituzionale alle nuove esigenze di giustizia e di libertà emerse nell'immediato dopoguerra: essa è la concreta risposta del popolo tedesco alla necessità di escogitare e realizzare un baluardo particolarmente sicuro contro un ritorno della tirannia. Nè può stupire il fatto che, negli ultimi decenni, l'adozione di simili istituti sia stata reiteratamente raccomandata anche in altre parti del mondo, e specialmente in Italia, in Giappone e nelle nazioni dell'America Latina.
È ovviamente impossibile sottoporre a misurazioni precise l'influenza esercitata sul mondo contemporaneo dalla risposta costituzionale al problema dell'oppressione governativa. Si può riconoscere in particolare che l'importanza pratica del controllo giudiziario di costituzionalità delle leggi è tuttora relativamente modesta in alcuni paesi, come il Giappone. Ma non si può dubitare, d'altra parte, che specialmente negli ultimi due decenni la giustizia costituzionale si è affermata come uno dei motori più potenti nell'evoluzione politica e sociale di altri paesi: come gli Stati Uniti, la Germania, l'Italia, l'Austria e, entro certi limiti, almeno fino alla svolta antiliberale di qualche anno fa, anche l'India.
Potremmo dare numerosi, impressionanti esempi delle trasformazioni causate in ciascuno di questi paesi dalla giustizia costituzionale, in materie come l'integrazione razziale, la libertà di opinione, di religione e di associazione, il divieto di pene inumane, la garanzia di quelli che sono stati chiamati i minimum standards di una natural justice nelle procedure civili, penali e amministrative - in particolare, l'imparzialità del giudice (nemo iudex in causa propria) e il diritto di difesa (audiatur et altera pars) - ecc. (v. Cappelletti e Tallon, 1973, pp. 669, 691-700, 740-766). Qui noi ci limiteremo peraltro a fare due osservazioni di carattere generale.
La prima osservazione è che, nonostante le sostanziali differenze del terreno (storico e culturale, politico-sociale e giuridico) sul quale si sono impiantati, gli avvenimenti occorsi nelle materie testé menzionate si presentano spesso come sorprendentemente simili, per lo meno nei risultati, in vari paesi. Decisioni americane d'importanza storica in tema di giustizia costituzionale, come ad esempio quella resa nel 1973 in tema di liberalizzazione dell'aborto e quelle, di pochi anni anteriori, in tema di tutela dell'imputato contro procedure oppressive, hanno trovato i loro equivalenti in importanti decisioni delle Corti costituzionali italiana, tedesca, austriaca o di altre nazioni. Né questo fenomeno può trovare una sufficiente spiegazione in una diretta influenza del modello americano sugli sviluppi in altre parti del mondo, dato che è anzi diventato sempre meno raro per le corti europee di precorrere certe decisioni americane. In realtà, la spiegazione del fenomeno sta piuttosto nella comunanza del problema da risolvere, comunanza che non di rado porta con sé, spontaneamente, una sostanziale somiglianza della risposta data a quel problema dalle varie società moderne, per lo meno nel mondo occidentale.
La seconda osservazione è che perfino in paesi come la Gran Bretagna e la Francia, nei quali il principio del controllo giudiziario di costituzionalità delle leggi è tuttora rifiutato, si sono tuttavia affermati, in parte, valori analoghi a quelli altrove vigorosamente affermatisi attraverso gli strumenti della constitutional adjudication.
In Gran Bretagna, come è noto, non esiste una costituzione scritta, nè quindi un bill of rights imposto costituzionalmente. Al contrario, il principio fondamentale rimane quello proclamato dalla Glorious revolution del 1688, secondo cui un'assoluta e incontrollabile supremazia spetta al Parlamento il quale, secondo un famoso aforisma, ‟può fare tutto salvo cambiare un uomo in donna o viceversa". Tuttavia questa situazione dev'essere interpretata nel quadro della storia plurisecolare di quel grande paese, storia caratterizzata da avvenimenti di fondamentale rilievo sul piano delle libertà costituzionali, come la Magna Charta nel 1215 e l'Act of settlement nel 1700. È vero che anche questi documenti non sono, in teoria, vincolanti per l'‛onnipotente' Parlamento (v. Wade, 1963, p. 3). Tuttavia il carattere fondamentale e, de facto, vincolante di quei documenti per l'attività governativa è riconosciuto dalla tradizione e dal generale rispetto, che sono le vere basi della ‛non scritta' Costituzione inglese. Anche se è certamente vero che i giudici inglesi non hanno il potere di verificare la costituzionalità dell'attività governativa, e in particolare di quella legislativa, rimane però il fatto che essi in molte occasioni hanno trovato il modo di controllare e prevenire violazioni governative di libertà fondamentali. Un esempio recente è la sentenza del 1968 della House of Lords nel caso Conway versus Rimmer, in cui, abbandonando una giurisprudenza precedente, il supremo organo giudiziario della Gran Bretagna ha negato il potere discrezionale dell'Esecutivo di sottrarre all'esame delle corti certi documenti contenenti segreti di Stato. È così che in Gran Bretagna è stata abolita, assoggettandola al controllo giudiziario, una discrezionalità governativa potenzialmente oppressiva delle libertà individuali, e in particolare della fondamentale libertà dell'accusato di difendersi anche mediante documenti, nastri registrati, ecc., in possesso di organi governativi. Si tratta di un avvenimento tanto più significativo in quanto esso, in un paese pur mancante formalmente degli istituti della ‛giustizia costituzionale', ha anticipato di qualche anno gli avvenimenti clamorosi che negli Stati Uniti hanno portato, nel 1974, al crollo del regime nixoniano (v. Cappelletti e Golden, 1973), anticipando altresì una riforma da lungo tempo reclamata da molti in Italia.
Passando a un'altra grande nazione, la Francia, vediamo che almeno in teoria essa rimane ostile, al pari dell'Inghilterra, all'idea di un controllo delle leggi da parte dei giudici. Ciò porta con sé che, pur avendo la Francia adottato il sistema della costituzione scritta e del bill of rights proclamato e incorporato nella Costituzione, le corti, non autorizzate a effettuare un controllo della legittimità costituzionale delle leggi, non possono rifiutarsi di applicare leggi incostituzionali.
Eppure anche la Francia è stata profondamente influenzata da quegli stessi fatti ed eventi che hanno colpito gran parte del mondo e che hanno portato altrove alla nascita, o alla rivalorizzazione, degli istituti della ‛giustizia costituzionale'. La triste esperienza del regime di Vichy, con le sue lois d'exception, leggi retroattive e altre violazioni di principî e libertà fondamentali, ha scosso la fiducia dei Francesi nella legislazione come fonte non controllabile del diritto: anche in Francia è divenuto chiaro che in un regime oppressivo il potere legislativo può essere reso schiavo. E di fronte a questi avvenimenti, il Conseil d'État ha avuto il coraggio di rompere, in parte, una lunga tradizione secondo la quale quella Corte, pur avendo il potere di controllare la conformità dell'attività amministrativa con le leggi (controllo di ‛legalità' non aveva però il potere di controllare la conformità delle leggi stesse con principi e norme superiori (controllo di ‛costituzionalità').
La prima rottura di quella tradizione avvenne verso la fine del regime di Vichy, quando apparve chiaro che il Conseil d'État era determinato a controllare la conformità degli atti amministrativi non soltanto con le leggi, ma anche con i principes généraux derivati, essenzialmente, dalla rivoluzionaria Déclaration des droits de l'homme del 1789. La seconda rottura avvenne dopo l'entrata in vigore della Costituzione gollista del 1958. Questa Costituzione è caratterizzata, fra l'altro, da un radicale rafforzamento dell'esecutivo, al quale è attribuito un vasto ‛potere regolamentare', consistente nella possibilità di emanare, in molte e importanti materie, provvedimenti di carattere generale aventi natura sostanzialmente legislativa e un'efficacia pari a quella delle leggi. Orbene, se si fosse affermata anche nei confronti di questi regolamenti la situazione di mancanza di controllo, tradizionalmente affermata per le leggi, il potere regolamentare dell'esecutivo sarebbe stato incontrollabile e illimitato. Ma il Conseil d'État, in una celebre e coraggiosa decisione del 1959, rifiutò tale conseguenza, arrogandosi il potere di controllare la conformità dei regolamenti stessi con la Costituzione e con i ‛principî generali'.
Una terza rottura è stata operata da un'altra istituzione, il Conseil constitutionnel, creato dalla Costituzione del 1958. Il Conseil constitutionnel doveva essere, in un certo senso, la versione francese delle Corti costituzionali adottate, come si è visto, in altri paesi. A differenza di queste Corti però, i poteri del Conseil erano, nell'intenzione del costituente francese, estremamente limitati, sì da non dar luogo a un vero e proprio controllo giudiziario di costituzionalità delle leggi. Anzitutto il controllo del Conseil constitutionnel era - ed è - meramente ‛preventivo', potendo esercitarsi soltanto prima della promulgazione della legge da parte del presidente della Repubblica; una volta avvenuta la promulgazione, ogni potere di controllo cessa. In secondo luogo, anche prima della promulgazione la legge approvata dal Parlamento poteva essere assoggettata al controllo del Conseil constitutionnel soltanto se così avesse deciso il presidente della Repubblica, o il primo ministro, o il presidente di una delle due Camere. Infine, la chiara intenzione del costituente era di utilizzare il controllo ‛preventivo' del Conseil al solo scopo d'impedire il passaggio di leggi emanate dal Parlamento in campi riservati invece al ‛potere regolamentare' dell'esecutivo: era invece estranea alle finalità del costituente l'utilizzazione di quell'istituto come strumento di protezione contro violazioni, da parte del legislatore, delle libertà fondamentali.
Eppure, nonostante tutti quei limiti, perfino il Conseil constitutionnel si è dimostrato strumento capace d'imprevedibili sviluppi. In una decisione clamorosa del 16 luglio 1971, esso ha saputo erigersi a protettore dei diritti dell'uomo, proibendo la promulgazione di una legge approvata dalla maggioranza gollista del Parlamento, la quale avrebbe posto gravi limiti alla libertà di associazione garantita, secondo il Conseil constitutionnel, dal bill of rights francese e dai ‟principî fondamentali della tradizione repubblicana". Inoltre, un altro sviluppo ancor più recente (1974) è rappresentato dall'estensione della legittimazione ad adire il Conseil constitutionnel per il controllo della costituzionalità delle leggi anche a gruppi di minoranza dell'una o dell'altra Camera. In tal modo, anche la Francia sembra avviarsi sempre più decisamente verso l'adozione di un sistema articolato - per quanto ancora attenuato - di controllo della conformità delle leggi a una lex superior.
b) Superamento dell'antitesi tra equità e diritto
Una delle alternative ricorrenti nella storia delle istituzioni sociali è quella fra sistemi che cercano di regolare, in maniera quanto più precisa e completa possibile, il comportamento umano con norme di condotta vincolanti e prestabilite e sistemi i quali sono invece più propensi ad ammettere comportamenti flessibilmente adattabili alle concrete e imprevedibili circostanze della realtà.
La ‛legislazione', formulata in vista di eventi futuri e di larghe categorie di persone e di attività, è forse il più tipico, raffinato esempio di una tecnica di regolamentazione sociale ispirata alla prima alternativa. Un altro esempio di tecnica ispirata alla stessa alternativa è rappresentato dalla regola che attribuisce forza di precedente vincolante alla ratio decidendi delle pronunce rese da certe corti in casi concreti, regola chiamata stare decisis nei sistemi giuridici di tradizione inglese (paesi di common law), nei quali essa è normalmente adottata.
D'altra parte, gli esempi più tipici e famosi di tecniche basate sulla seconda alternativa sono la aequitas dei praetores dell'epoca del diritto romano classico e - più di un millennio più tardi - l'equity e la conscience dei chancellors e delle Courts of equity nella storia del diritto inglese.
Il valore essenziale della prima alternativa è quello di assicurare un massimo grado di ‛certezza' e di ‛continuità' nella prescrizione e valutazione della condotta umana, mentre invece il valore della seconda alternativa sta essenzialmente nella maggior ‛flessibilità' e ‛adattabilità' alle esigenze del caso. Ne consegue che la prima alternativa si presenta come più opportuna in periodi di relativa stasi politica, economica e sociale, mentre la seconda assume maggior richiamo invece in periodi di rapide e profonde trasformazioni. Inoltre la seconda alternativa consente, ed entro certi limiti glorifica, la discrezionalità amministrativa e giudiziaria, quella discrezionalità che la prima alternativa cerca al contrario di evitare, condannandola come ‛arbitrarietà' quando non addirittura come ‛legge dei tiranni' (v. i riferimenti in Pound, 1959, p. 246). ‟L'idea di giustizia - scrive ad esempio il Ross (v., 1959, p. 280) - si risolve nell'esigenza che una decisione sia il risultato dell'applicazione di una norma generale: giustizia è la corretta applicazione di una legge, ossia il contrario di arbitrarietà".
La verità è che siffatte condanne possono essere giuste o errate a seconda dei tempi, delle società, insomma delle concrete circostanze. Uno dei più autorevoli giuristi americani contemporanei ha espresso questa verità in modo incisivo: ‟Scolpite sulla pietra nell'edificio del Dipartimento della giustizia a Washington [...] sono le seguenti cinque parole: ‛Where law ends tyranny begins'. Ma io credo invece che, nel nostro sistema costituzionale, là dove la legge finisce ‛non' cominci necessariamente l'oppressione. Dove la legge finisce comincia la discrezionalità, e l'esercizio della discrezionalità può significare tanto buon governo quanto oppressione, tanto giustizia quanto iniquità, tanto ragionevolezza quanto arbitrarietà" (v. Davis, 1969, p. 3; v. anche Morris of Borth-y-Gest, 1973, pp. 3-4, 15).
In effetti, sarebbe del tutto irrealistico voler tracciare una netta linea di demarcazione fra l'una e l'altra alternativa. ‟Nella storia umana, ogni sistema politico e giuridico ha implicato sia norme [prestabilite] che discrezionalità. Nessun governo è mai stato [esclusivamente] un governo delle leggi e non [anche] un governo degli uomini, nel senso che nessun governo ha eliminato ogni potere discrezionale. Ogni governo è sempre stato ‛a government of laws and of men'" (v. Davis, 1969, p. 17). E la tendenza è sempre stata nel senso di rigettare, prima o poi, sia sistemi basati su un'eccessiva prevalenza della discrezionalità, sia sistemi fondati invece su una troppo rigida e troppo completa predeterminazione normativa (ibid., p. 19). Ad esempio, l'aequitas dei pretori romani e l'equity dei cancellieri inglesi finirono entrambe per essere intese, a loro volta, come nuovi sistemi di regole generali di comportamento, prestabilite e vincolanti: rispettivamente, il jus honorarium o praetorium, e la law of equity. Ciò significa che, in entrambi i casi, l'iniziale netto contrasto fra jus strictum ed aequitas o fra common law ed equity finì per scomparire. Sviluppi analoghi si possono vedere anche nel nostro secolo. L'esempio più clamoroso è offerto dall'Unione Sovietica, dove la ‛coscienza rivoluzionaria', alla quale i tribunali popolari creati nel novembre 1917 erano tenuti a conformarsi, è stata poi sostituita dalla ‛legalità socialista'. Quest'ultima implica il dovere per le corti di giustizia di applicare strettamente le nuove leggi scritte, nelle quali quella ‛coscienza' sarebbe ormai incorporata (v. Berman, 1963, p. 56; v. Golunskij e Strogovič, 1951, p. 392).
È così dunque che, come sembra indicare perfino l'etimo delle parole, l'equità finisce per diventare essa stessa diritto: ex iustitia jus. E in questa trasformazione, per un fenomeno di overreaction, l'equità non di rado corre addirittura il rischio di diventare non meno rigida, statica e rule-oriented (jus strictum!) della legge medesima: una fase nella quale, ovviamente, cessa ogni sua creatività. Ma è proprio a quel punto che, come prova la storia, l'uomo prima o poi sente il bisogno di cercare nuove ispirazioni. La vecchia equità è morta? Viva dunque una nuova equità! La denominazione, naturalmente, potrà cambiare; e indubbiamente, poiché la storia non si ripete, sempre nuovi saranno i concreti problemi che la nuova ‛equità' sarà chiamata a risolvere. Resta tuttavia sempre vero il fatto che la risposta a quei nuovi problemi sarà vista in termini di valore, consistendo in nuovi fatti e avvenimenti, norme e istituzioni, affermati e accettati da coloro che fanno la storia - individui e gruppi dominanti - come una risposta adeguata, appropriata, ragionevole - ossia ‛equa' o ‛giusta' - a quei nuovi problemi, una risposta capace di superare la rigidità e l'obsolescenza del vecchio ‛diritto'.
Una delle fondamentali idee ispiratrici della civiltà occidentale, nei secc. XVIII-XIX, è stata quella della rule of law, o ‛principio di legalità', detto anche ‛Stato di diritto' o government of laws, in contrapposizione al government of men. Un'esigenza primaria di quell'epoca fu infatti di tutelarsi contro governi arbitrari, in risposta agli abusi del feudalesimo e dell'ancien régime. Rispondendo a quest'esigenza, per lo meno nell'Europa continentale - e in quelle altre vaste aree del mondo che furono dominate o influenzate da essa - la tecnica della ‛legislazione' fu ulteriormente raffinata e sviluppata, divenendo vera e propria ‛codificazione'. Questa ha rappresentato il tentativo di produrre una legislazione sistematica, organica, onnicomprensiva, capace di produrre una legge scritta esprimente il quid jus in maniera chiara, semplice, senza lacune e accessibile a tutti (v. Coing, 19692, pp. 136-137, 306-307, 334-335). Istituzioni quali la Cour de cassation francese e, più tardi, la Revision tedesca, furono create, appunto, per soddisfare l'esigenza dell'epoca: ossia il bisogno di una rule of law unica per tutto il paese, precisa, certa, esattamente determinabile e vincolante sia per i cittadini nei loro comportamenti, sia per i giudici nella decisione delle controversie concernenti quei comportamenti. Altre istituzioni, come il glorioso Conseil d'État francese, furono successivamente adottate, o adattate, al fine di soddisfare l'ulteriore esigenza di una rule of law vincolante pure nell'attività della pubblica amministrazione, con l'affermazione quindi del ‛principio di legalità' anche nei confronti del potere esecutivo. Si è avuto così il grandioso fenomeno della ‛giustizia amministrativa', un fenomeno che ha caratterizzato la vita giuridica dell'Europa continentale nella seconda metà dell'Ottocento, comportando un controllo giudiziario della legalità degli atti amministrativi, a tutela dei cittadini contro gli abusi dell'esecutivo.
Tutti questi eventi rivelarono, nel corso del secolo scorso, una grande forza espansiva, estendendosi rapidamente a quasi tutti i paesi di civil law, anche fuori d'Europa. Ma purtroppo l'esperienza maturata nel corso del nostro secolo ha reso chiaro come perfino il principio di legalità e lo Stato di diritto, esaltati nel secolo precedente e realizzati con strumenti quali il controllo di legalità degli atti giudiziari e amministrativi, siano suscettibili di degenerazione e perversione (v. von Hippel, 1955). La ‛giustizia legale' o ‛giustizia secondo la legge' (justice according to law) - ossia un sistema in cui l'attività dei cittadini, della pubblica amministrazione e dei giudici è vincolata alla legge secondo il fondamentale principio di legalità - non è necessariamente una ‛giustizia giusta'. In altre parole: il principio di legalità si è rivelato a sua volta insufficiente ad assicurare una risposta adeguata, efficace, ‛giusta', ai problemi del nostro tempo (v. Bodenheimer, 1967, pp. 10-17, 86-88; v. Davis, 1969, pp. 28-44, 217 e passim).
Prima di tutto ci si è accorti che ci sono problemi ed eventi che richiedono prontezza di adattamento e di cambiamento - e quindi flessibilità, sperimentazione e discrezione - piuttosto che stabilità, prevedibilità e continuità: a essi male si adatta il principio di legalità. Un buon esempio è offerto dal fenomeno della nascita e della proliferazione nell'Europa continentale, a cavallo del Novecento e soprattutto negli anni turbolenti immediatamente successivi alle due guerre mondiali, di ‛giurisdizioni di equità' ossia di speciali organi giudiziari, usualmente composti, almeno in parte, di giudici laici ossia non giuristi di professione. Questo fenomeno, magistralmente analizzato da P. Calamandrei (v., 1968, pp. 3-51), è perfettamente comprensibile in un'epoca di vaste agitazioni, caratterizzata da un bisogno profondamente sentito, ma largamente ancora insoddisfatto, di mutamenti sociali, economici, e quindi anche giuridici. In un'epoca siffatta un rigoroso affidamento al principio di legalità apparve del tutto inadeguato, ossia ingiusto. In luogo di giudici professionisti e ‛legalisti', troppo propensi a preferire una ‛legge del passato', ancorché obsoleta, a una non ancor chiaramente definita ‛legge del futuro', furono chiamati uomini della strada a decidere, sulla base del loro ‛senso dell'equità', controversie in materie particolarmente incandescenti, come conflitti tra datori di lavoro e lavoratori o tra proprietari e inquilini. L'equità del giudice laico, ossia la ‛giustizia del caso per caso' o addirittura la ‛giustizia dell'amico', era ritenuta preferibile, in queste materie, alla stretta applicazione di una legge rigidamente prestabilita in astratto. Fatto sta che questa era la sola strada aperta, di fronte all'impotenza di un legislatore che, da un lato, si rendeva conto della obsolescenza delle vecchie leggi regolatrici di quelle materie, ma dall'altro era ancora incapace di formulare in termini generali e precisi leggi nuove per quelle materie in rapida trasformazione, materie lacerate dai conflitti di classe e nelle quali le linee di evoluzione erano ancora troppo vaghe, contrastanti, confuse.
Un altro esempio illuminante è offerto dal movimento di riforma che si verificò durante gli anni trenta negli Stati Uniti, denominato New Deal. I primi sforzi del presidente Fr. D. Roosevelt per introdurre importanti trasformazioni sociali ed economiche si spuntarono contro la ferma volontà delle corti americane d'imporre la rule of law, ossia una legge radicata nel passato e quindi proprio in quella situazione sociale ed economica che il New Deal si era impegnato a cambiare. Ovviamente, nelle mani di giudici conservatori il principio di legalità può facilmente trasformarsi in un potente strumento di conservazione e di ristagno. La risposta a questa situazione di conflitto negli Stati Uniti venne da uno dei più importanti eventi nella storia contemporanea di quel paese, ossia dall'enorme espansione, a partire dagli anni trenta, di un complesso sistema di administrative agencies. A queste agenzie governative sono state affidate non soltanto vastissime funzioni di natura amministrativa, ma anche funzioni di natura sostanzialmente legislativa e giudiziaria, con una grande discrezionalità nell'esercizio di tali funzioni, discrezionalità sottratta, almeno in parte, al controllo delle corti giudiziarie (v. Pound, 1959, pp. 242-243, 251, 259, 407-446). Si noterà come, di fronte a questi organi amministrativi, perfino l'idea della separazione dei poteri un altro fondamentale elemento costitutivo dell'ideale della rule of law o principio di legalità - sia stata attenuata, se non proprio abbandonata. Fatto sta che una rigida ‛giustizia legale' non è più apparsa come un'accettabile, ragionevole risposta ai nuovi pressanti problemi e bisogni. La proliferazione delle agenzie amministrative fu invero un tentativo di sfuggire a una rule of law di stampo conservativo, conservativamente amministrata e applicata con mentalità legalistica dai giudici di professione. Sviluppi in parte analoghi si verificarono in Inghilterra, specialmente nei primi anni dell'ultimo dopoguerra, quando le aspirazioni a un ordinamento socialmente più giusto emersero vigorosamente dalle rovine della guerra (v. Street, 1968, pp. 2-11).
In altri paesi, l'erosione del principio di legalità si trasformò in vera e propria degenerazione, con risultati ben più profondi e, a volte, terrificanti. Parlamenti e corti divennero, di fatto almeno, succubi servitori dei nuovi absolute rulers (v. Bobbio, 1971, p. 269); di fronte all'illimitato, incontrollato potere del tiranno, la separazione dei poteri, quand'anche non espressamente negata, divenne un'ingannevole, illusoria facciata. In Germania, il volere del Führer (‟der Wille des Führers") - l'arbitrio dunque e l'assoluta supremazia di un uomo, di un gruppo, di un partito, di una ‛razza' - fu arrogantemente proclamato come la suprema legge del paese (v. Gernhuber, 1968, pp. 167, 183-184). Oppressione e sterminio divennero ‛legali'. La ‛giustizia legale' e la rule of law si manifestarono totalmente incapaci di operare come baluardi contro arbitrarietà e abusi; al contrario, divennero esse stesse il simbolo dei peggiori e più ripugnanti arbitri, come fu reso tragicamente manifesto dall'infame legislazione razziale emanata prima in Germania e poi in Italia, e come è stato proclamato dal processo di Norimberga contro i crimini dei governanti nazisti (v. Kirchheimer, 1961, pp. 323-347; v. Wechsler, 1961, pp. 138-157).
La ‛giustizia costituzionale', quale si è configurata in un crescente numero di paesi nell'ultimo dopoguerra, rappresenta il tentativo di superare, in una nuova sintesi, un'antitesi che ha dimostrato di non essere più efficace e realistica come risposta ai problemi del nostro tempo, e pertanto di essere errata. Rule of law e discrezione, continuità e trasformazione, giustizia legale e giustizia equitativa debbono essere ‛combinate' e ‛fuse', piuttosto che messe in netto contrasto fra di loro e separate l'una dall'altra. Invero, la conciliazione di quelle alternative, anziché la loro netta contrapposizione, appare essere oggi una risposta più realistica, più adeguata e ragionevole, e quindi più ‛giusta' - anche se più complessa e difficile - ai problemi ed eventi che abbiamo ereditato dalle ultime generazioni. Ma ovviamente, si è posto a questo punto il difficile quesito: come tentare di conciliare equità e legge?
Un aspetto importante di questo tentativo è rappresentato appunto dal costituzionalismo moderno. Negli anni immediatamente successivi al secondo conflitto mondiale, un crescente numero di paesi ha promulgato costituzioni che, oltre a essere ‛rigide', ossia modificabili soltanto con maggioranze qualificate e con ardue procedure, presentano l'importante caratteristica già menzionata consistente nella formulazione di un catalogo dei diritti fondamentali o bill of rights e nell'adozione di un sistema di controllo giudiziario di costituzionalità inteso a proteggere quei diritti fondamentali (cosiddetta ‛giustizia costituzionale delle libertà'). Ma proprio questa caratteristica ha comportato l'emergere di un nuovo e affascinante fenomeno di conciliazione o combinazione di equità e di legge.
Tutti i bills of rights proclamano infatti i valori fondamentali di una data epoca e società: ad esempio, l'uguaglianza di trattamento di sessi, razze e fedi diverse, uguaglianza che è dunque divenuta un elemento della nuova rule of law. E tuttavia siffatte proclamazioni sono formulate in termini inevitabilmente vaghi e generali, si da implicare necessariamente un alto grado di discrezionalità nella loro interpretazione e attuazione nei casi concreti da parte dei giudici costituzionali. Questa situazione si rende particolarmente evidente allorquando la giustizia costituzionale, qui intesa come applicazione giurisdizionale della costituzione, si riferisce a quella parte dei più moderni bills of rights che contiene dichiarazioni ‛programmatiche'. Queste dichiarazioni richiedono un intervento attivo dello Stato al fine di operare una graduale realizzazione di programmi e finalità economico-sociali, come ad esempio il diritto all'istruzione, alla casa, alla salute. Decidere, sulla base di norme costituzionali formulate in termini così generali, se una data attività o inattività dello Stato (legislativa o di altra natura) sia conforme a tali programmi costituisce un sottilissimo lavoro di valutazione e di bilanciamento, per il quale la rule of law fornisce soltanto una cornice assai vaga e flessibile che non può nascondere un inevitabile, accentuato carattere creativo e discrezionale della decisione medesima.
In tal modo si congiungono rule of law e discrezione, continuità e possibilità di flessibile adattamento. La ‛giustizia costituzionale', allorquando si riferisce ai moderni bills of rights, è invero essa stessa giustizia ‛legale', in quanto basata sulla costituzione che è la prima fra le leggi; essa però è anche, allo stesso tempo e in maniera particolarmente accentuata, giustizia ‛politica' e ‛discrezionale'. È, in altre parole, ‛una necessaria commistione di equità e di legge'.
Questo fatto può anche chiarire la ragione per cui, quando nel corso degli ultimi decenni numerosi paesi di civil law (tra cui l'Italia e la Germania) hanno deciso di adottare un sistema di controllo giudiziario della costituzionalità delle attività lato sensu governative (principalmente di quelle legislative), hanno affidato questa nuova funzione a corti costituzionali create ex novo, piuttosto che attribuirla alle corti tradizionali (v. Cappelletti, 1971, pp. 46-47, 49-51, 53-66). Tali paesi temettero infatti, non senza buone ragioni, che i giudici tradizionali, professionalmente abituati a una funzione d'interpretazione di leggi ordinarie - richiedenti nell'interprete un'attività meno creativa, più burocratica e di routine - fossero poco idonei al nuovo compito, nel quale si accentua un ruolo giudiziario di creatività e di responsabile discrezionalità. Anche i metodi adottati dai vari paesi per la scelta dei giudici di queste nuove corti costituzionali sono ispirati alla consapevolezza di questa fondamentale caratteristica del loro ruolo: si tratta infatti, in massima parte, non di anziani giudici di carriera, professionalmente soggetti a esprimere troppo spesso nelle loro decisioni una mentalità legalistica, ma di giudici la cui scelta è fatta dai più alti organi governativi (legislativi ed esecutivi) anche in considerazione della loro personalità politica, similmente a quanto avviene normalmente per i giudici (superiori) nei paesi di common law (ibid., p. 66).
Se i giudici costituzionali saranno all'altezza del difficile compito a essi affidato nelle società moderne è tuttora questione più che mai aperta. Anche se è un dato di fatto ormai accertato che in molti paesi l'influenza degli istituti di giustizia costituzionale è già stata grande e, nell'insieme, benefica, la loro potenziale debolezza sta nella loro stessa intrinseca ambiguità. Essi rappresentano, in un certo senso, una nuova combinazione di funzioni teoricamente separabili: ‛trasformazione politica' e ‛giudizio'. Il giudice costituzionale diventa, in certo grado, uomo politico, laddove il legislatore, e in genere l'uomo politico, anche se eletto popolarmente, diventa soggetto alla valutazione, in certa misura inevitabilmente discrezionale, di un giudice che è, in alto grado, indipendente da controlli politici e popolari e non responsabile nei loro confronti: a tal punto che si è da varie parti messo in dubbio il carattere democratico degli istituti di giustizia costituzionale (v. Bodenheimer, 1967, pp. 136-141; v. Rostow, 1962).
Riconosciamo dunque le ragioni per cui la soluzione che abbiamo denominato ‛giustizia costituzionale' di fronte alla sfida del nostro tempo può apparire a molti quale una risposta ambigua e contraddittoria, se non addirittura priva di speranze. La ragione per la quale tale risposta ha tuttavia provato finora di essere efficace e progressiva sta probabilmente nel fatto che, la natura umana essendo quella che è, ognuno cerca di mantenere e possibilmente di espandere, piuttosto che abbandonare, il proprio ruolo e il proprio potere nella società. Il ruolo dei moderni giudici costituzionali è di far osservare norme e diritti costituzionali vagamente formulati e spesso richiedenti un intervento attivo dello Stato. Perfino giudici costituzionali di tendenza conservatrice possono rendersi consapevoli che il solo modo per affermare il proprio ruolo e potere nei confronti delle altre branche dell'apparato statale e nella società consiste nel perseguire l'attuazione di programmi e valori prescritti dalla costituzione, piuttosto che nel mantenere uno status quo al quale essi, come ordinari cittadini, sarebbero magari più inclini. È per ciò che la giustizia costituzionale, se basata su una costituzione fortemente programmatica e progressiva, può confermarsi quale un importante, e tutt'altro che antidemocratico, strumento di evoluzione e di cambiamento: un elemento positivo in un'epoca, come la presente, in cui le istanze ed esigenze di trasformazione giuridica sono particolarmente accentuate, a causa del ritmo, più rapido che in ogni epoca passata, delle trasformazioni nella base economica, sociale e culturale del consorzio umano.
c) Superamento dell'antitesi tra diritto naturale e diritto positivo
Strettamente collegato, e a volte confuso, con il tradizionale conflitto fra equità e legge è un altro conflitto perennemente ricorrente: quello fra giustizia ‛naturale' e giustizia ‛positiva'. La prima è basata su una legge, per lo più non scritta, proclamata come valida al di là dei limiti di tempo e di spazio, radicata, a quanto si asserisce, nella ‛natura' - divina o umana - e collocata al di sopra della volontà e degli estri di legislatori e di maggioranze. La seconda, al contrario, è basata su una legge ‛positiva' e, almeno in epoche moderne, usualmente scritta (jus positum) la quale, pur riconoscendo i propri limiti temporali e spaziali di validità, orgogliosamente nega tuttavia la propria dipendenza da una ‛più alta' legge naturale.
La storia del pensiero umano in tema di diritto e di giustizia testimonia la prevalenza, in certe epoche, di impostazioni giusnaturalistiche, le quali sono generalmente rifiutate invece, e magari sprezzantemente condannate, in epoche successive, riemergendo poi sempre peraltro con rinnovato vigore. In Inghilterra, ad esempio, la fase della giustizia naturale trovò il suo campione nella controversa figura di Lord Edward Coke all'inizio del XVII secolo, quando un certo tipo di legge naturale, spesso identificata con la common law non scritta, ereditata dagli avi, veniva asserita come fondamentale e superiore alla legge positiva imposta dalla Corona e dal Parlamento. Tale legge fondamentale, pur potendo essere integrata dal legislatore, non poteva da questo essere violata.
Ma una fase di giustizia positiva era presto destinata a prevalere in Inghilterra. La ‛gloriosa rivoluzione' del 1688 travolse la vaga teoria della superiorità della common law and reason rispetto alla legge positiva (statutory law) del Parlamento. La tesi di Sir Coke, secondo cui i giudici inglesi erano legittimati a rifiutare applicazione alla legislazione ‛invalida' (void) perché contraria alla common law and reason, si rivelò in quel paese come il canto del cigno dell'epoca del diritto naturale. Il nuovo principio, quale fu più tardi precisato da W. Blackstone nei suoi celebri Commentari, divenne - e, in Inghilterra, è ancora oggi - quello dell'assoluta supremazia del Parlamento: con la doppia conseguenza dell'onnipotenza della legge positiva e del divieto per i giudici di controllare la statutory law (v. Corwin, 19635, pp. 86-88).
Uno sviluppo analogo, per quanto successivo, si verificò nei paesi dell'altra grande famiglia giuridica, quella di origine romanistica (civil law), e in particolare nella maggior parte dei paesi dell'Europa continentale. Anche qui il pendolo si era mosso inizialmente nella direzione del predominio di concezioni e ideali giusnaturalistici. Nei lunghi secoli del Medioevo e, in sostanza, fino alla grande ‛rivoluzione borghese' iniziata in Francia nel 1789, una legge positiva che fosse in contrasto con l'assoluta, immutabile, non scritta legge naturale (religiosa o laica) era proclamata ‛ingiusta' e pertanto, almeno in teoria, invalida e inapplicabile.
La rivoluzione, e la sua conseguenza diretta, la codificazione, rappresentarono allo stesso tempo la glorificazione finale, ma anche il superamento e accantonamento, degli ideali del giusnaturalismo. Da un lato, infatti, la rivoluzione rappresentò la diretta attuazione pratica della fede in una giustizia superiore alla legge iniqua dell'ancien régime, una legge che doveva essere disobbedita e distrutta. La nuova legislazione rivoluzionaria, e i codici che le succedettero, erano permeati appunto da quella ‛giustizia' superiore, espressa nelle idee di égalité e di liberté: essi erano, o presumevano di essere, la codificazione dei fondamentali, innati diritti dell'uomo - e, contemporaneamente, la traduzione di tali diritti in legge positiva.
Dall'altro lato, proprio perché la codificazione borghese presumeva di rappresentare l'attuazione razionale degli ideali giusnaturalistici, fu radicalmente esclusa perfino l'astratta possibilità di un conflitto fra quella nuova, razionale, ‛giusta' legge codificata e una norma superiore di giustizia naturale. Per quanto ciò possa apparire paradossale, dalla vittoria del diritto naturale scaturì, di fatto, la vittoria del suo contrapposto: il diritto positivo. Invero, la grande era della ‛giustizia secondo la legge positiva', che in Inghilterra aveva avuto inizio nel 1688, cominciò appunto sul Continente con le grandi codificazioni nazionali, il Codice napoleonico e tutti gli altri codici, implicanti l'idea, o utopia, della completezza e della supremazia dei codici, ritenuti validi ‛per sé' e non più bisognosi di essere basati su - e controllati e integrati - da una superiore legge ‛naturale'. John Austin nell'Inghilterra dell'Ottocento e Hans Kelsen nell'Europa continentale della prima metà del Novecento - i ‛grandi' del positivismo giuridico - altro non furono, in realtà, che i tardi epigoni di un fatto compiutosi molto tempo prima della loro nascita (v. Austin, 1954, pp. 190, 260- 263 e passim; v. Kelsen, 1957, pp. 266-287).
Questa era del diritto positivo innalzò una nuova e gloriosa bandiera nella cittadella della giustizia: il ‛principio di legalità'. Questo principio significava sia condanna degli arbitrî perpetrati nel nome di oscuri, incontrollabili, non scritti - e perciò facilmente manipolabili - principi di giustizia naturale, sia proclamazione della piena supremazia di una legge prestabilita, scritta, chiara, ‛positiva', incorporante la volontà suprema e incontestabile delle legislature (più o meno) popolari. Il recours en Cassation francese, la Revision tedesca, come pure le grandi corti amministrative quale il Conseil d'État, furono le principali istituzioni gradualmente introdotte, tra il 1790 e l'inizio del Novecento, in un gran numero di paesi di civil law al fine di rendere effettivo il ‛principio di legalità'. Queste istituzioni furono concepite come i baluardi e le guarentigie della ‛giustizia positiva'.
Epperò lo stesso principio di legalità e la ‛giustizia positiva' (o ‛legale') recavano in seno il seme del proprio disfacimento. Se l'arbitrarietà fu il principale rischio inerente al sistema della giustizia naturale, il tallone d'Achille del sistema della giustizia positiva si è manifestato nel muto asservimento sia agli estri di provvisorie maggioranze legislative sia, e peggio ancora, alla perversione della legge positiva in regimi totalitari. Questa debolezza della giustizia positiva finì per manifestarsi in chiara luce tanto nel mondo di common law quanto - e in maniera ben più drammatica - in quello di civil law. Il risultato fu appunto il ricorso al sistema della ‛giustizia costituzionale', nel tentativo di congiungere i vantaggi e, allo stesso tempo, di evitare i pericoli sia della giustizia naturale che della giustizia positiva.
Nel mondo di common law la fase della giustizia costituzionale - seppure non si è realizzata ancora in Inghilterra, dove il principio prevalente rimane quello della incontrollata supremazia della statutory law - si è realizzata in quasi tutti gli ex-domini britannici: negli Stati Uniti prima di tutto e, più tardi, nel Canada, in Australia, perfino in India e nel Pakistan ecc. Tutti questi paesi infatti, benché con profonde differenze di tempi e di modi, hanno seguito un corso storico simile. La giustizia positiva e legale delle corti reali di Westminster, basata sulla rigorosa aderenza al principio dell'assoluta supremazia della legislazione emanata dal Parlamento, non era più appagante per le colonie ribelli. Esse erano desiderose di autonomia, di libertà, e di una nuova giustizia, diversa da quella attuata dai giudici coloniali nella piena sottomissione alla legge del Parlamento inglese, sottomissione garantita dalla vigilanza del Privy council di Sua Maestà. È così che, allontanandosi dal modello britannico, ogni ex-colonia inglese si dette una propria costituzione scritta, come proclamazione solenne di autonomia e di libertà. Ed è così che nacquero pure le nuove Supreme courts, come eredi spesso ribelli del Privy council. Ma il compito di queste nuove corti non era più quello di assicurare l'applicazione di una legge incontrollabile dettata da un Parlamento onnipotente; al contrario, il loro compito era quello di garantire l'osservanza di una lex superior - la costituzione - anche contro le leggi del Parlamento del nuovo Stato sovrano.
Uno sviluppo storico analogo doveva verificarsi nell'al- tra grande famiglia giuridica. Nel mondo di civil law infatti, la fase della giustizia costituzionale è emersa come risposta alle tragiche esperienze del nostro secolo. Queste esperienze hanno dimostrato come la legge positiva, nata originariamente come reazione agli arbitri di una ‛giustizia naturale', potesse diventare essa stessa strumento di tirannia e di arbitrio, e come perfino il principio di legalità potesse trasformarsi in mezzo per imporre a un giudice ‛passivo' e ‛inanimato' una cieca obbedienza a tale legge. La legislazione razziale già ricordata della Germania nazista e dell'Italia fascista non è che un infame esempio. Era perciò del tutto naturale che questi e altri paesi, riemergendo dall'incubo della dittatura, della guerra e della catastrofe, dovessero convertirsi all'idea di fare ricorso a una nuova ‛legge superiore', scritta come la legge positiva, ma vincolante anche per il legislatore: una legge superiore - o costituzionale - mutabile soltanto attraverso difficili procedimenti di emendamento ad opera di maggioranze altamente qualificate, e garantita da nuove corti speciali capaci di riflettere appunto il nuovo ideale di una ‛giustizia costituzionale'.
Il sorgere della giustizia costituzionale rappresenta dunque una delle caratteristiche del nostro tempo. La sua più profonda ragion d'essere, del resto, può trovarsi nelle pieghe più recondite della natura umana, nella quale c'è un incessante, faustiano bisogno di qualcosa di fermo e immutabile, di assoluto. Al di là delle miriadi di leggi e norme giuridiche che, nell'epoca attuale, tendono a divenire sempre più frammentarie, specifiche, specialistiche, provvisorie, l'uomo mira alla riscoperta di valori permanenti. Questa brama, che le varie teorie giusnaturalistiche per molti secoli cercarono invano di soddisfare, emerge di nuovo nell'uomo contemporaneo dopo le deludenti esperienze di un'epoca che ha glorificato il mutevole ‛diritto positivo'. Il nuovo tentativo di acquietare quella brama, e di raggiungere così un certo grado di permanenza e stabilità, è riflesso appunto nel costituzionalismo moderno e nella ‛giustizia costituzionale'.
Il diritto ha indubbiamente la sua parte nel fenomeno, tipicamente moderno, rappresentato dal crescente sentimento di angoscia e di alienazione dell'individuo di fronte a eventi, norme e istituzioni che, pur essendo il prodotto dell'attività umana, appaiono all'uomo stesso estranei e ostili. La risposta, sul piano giuridico, a questa sfida del nostro tempo è stata data, anzitutto, mediante l'adozione di costituzioni e di bills of rights incorporanti l'idea di una legge superiore e sottratta a troppo facili cambiamenti: non, però, un'astratta legge ‛naturale', ma una legge essa stessa ‛positiva' (benché superiore), il cui scopo è di determinare i valori fondamentali (‛Grunde', donde ‛GrundGesetz') vincolanti per lo Stato, per l'uomo e per la società. Inoltre, quella risposta è stata data mediante l'affidamento a organi indipendenti (‛giudiziari') del compito di attuare e imporre quei valori fondamentali, nel tentativo di perseguire così, nel modo più efficace e concreto, il difficile fine di tradurre le inevitabilmente vaghe (anche se ‛positive') norme-valore della costituzione in realtà pratica quotidiana.
Il costituzionalismo moderno e la giustizia costituzionale rappresentano dunque una sorta di sintesi hegeliana, la quale, applicando la lezione ed evitando gli inganni del passato, cerca di congiungere le forme della giustizia positiva alla sostanza della giustizia naturale (v. Corwin, 19635, p. 89). Si tratta insomma dell'affascinante, geniale sforzo delle società moderne inteso a ‛positivizzare' certi valori relativamente immutevoli, relativamente assoluti, incorporati in costituzioni scritte che riflettono la volontà permanente, piuttosto che gli estri temporanei, del popolo.
3. La ‛giustizia internazionale' e il superamento del monopolio statale sul diritto e sulla giustizia
a) La giustizia internazionale e il problema della pace tra i popoli
Il tentativo di dare una risposta al secondo gruppo di fatti ed eventi indicati all'inizio porta con sé un'ulteriore dimensione, fondamentale per quanto ancora embrionale, della giustizia nel mondo contemporaneo. Possiamo descrivere tale dimensione con il termine di ‛giustizia internazionale', o ‛soprannazionale', o ‛transnazionale' (v. Bodenheimer, 1967, pp. 226-256).
Per molti popoli, in Europa come nelle due Americhe e altrove, l'epoca che va dalla fine del Settecento all'inizio del Novecento è stata caratterizzata dalla loro lotta per la conquista, o riconquista, dell'individualità, unità e indipendenza nazionali. Come ha scritto E. Cassirer, ‟fin dall'inizio dell'Ottocento il nazionalismo era divenuto l'impulso più potente e la forza-guida della vita politica e sociale" (v. Cassirer, 19699, p. 123). I nemici da combattere erano visti nella balcanizzazione delle varie nazionalità etniche e linguistiche e nella dominazione delle stesse da parte di numerosi piccoli sovrani, spesso stranieri, tuttora legati a una società feudale e compartimentalizzata. La ‛giustizia', pertanto, era orientata verso la libertà e l'unificazione nazionali e gli eroi dell'epoca furono coloro che si fecero portatori della bandiera della nazione, divenendo i ‛padri' dei vari Stati nazionali. Essi portarono così a compimento quel corso storico che vide la nascita e il progressivo consolidamento degli Stati nazionali, corso storico del quale l'Inghilterra, la Francia e la Spagna furono tra i principali precursori.
Ma l'idea nazionale si trasformò in un nuovo e mortale malanno allorquando, specie nel XX secolo - ma i prologhi ammonitori si erano già annunziati, ad esempio, con la guerra del 1870 tra la Francia e una Germania bismarckiana appena unificata -, gli Stati nazionali, desiderosi di espansione e di dominio, si scagliarono l'uno contro l'altro in tremendi e sanguinosi conflitti. Lo Stato nazionale, già simbolo di libertà e di progresso, divenne così il simbolo della brama di dominio economico, di espansione internazionale, d'imperialismo e perfino di razzismo, ben nota essendo la stretta alleanza fra il mito novecentesco dello Stato e l'idolatria della razza (v. Cassirer, 19699, pp. 224- 247).
A questi nuovi problemi, tuttora più che mai aperti, l'umanità ha cercato e sta cercando di dare la sua risposta. La Società delle Nazioni (League of Nations) fu il primo importante tentativo di trovare una valida soluzione negli anni fra le due grandi guerre. Creata nel 1919 in risposta al sentito bisogno di escogitare un meccanismo capace di evitare all'umanità le sofferenze derivanti dalla potenza distruttiva della guerra moderna, la Società sfortunatamente si rivelò incapace di raggiungere lo scopo ambizioso. L'amara lezione non era stata ancora appresa fino in fondo dall'umanità, che a distanza di un solo ventennio doveva ricadere, in maniera ancor più disastrosa, negli errori che la Società avrebbe voluto evitare. Il Presidente americano Woodrow Wilson e pochi altri guardavano troppo lontano nel futuro, per esser capaci di convincere l'uomo comune del loro tempo. La loro visione di un nuovo ordine soprannazionale, interpretato e attuato, fra l'altro, da una Corte permanente di giustizia internazionale e inteso a perpetuare la pace garantendo sicurezza e giustizia a ogni paese a prescindere dalla sua forza materiale, si rivelò troppo idealistica per quell'epoca. L'isolazionismo, e gli egoistici interessi nazionali, prevalsero rapidamente fra le potenze vincitrici della prima guerra mondiale, mentre i paesi sconfitti cominciarono ben presto a preparare la loro sanguinosa vendetta nel nome della patria, della razza, della nazione. Deludendo gli sforzi e le speranze di Wilson, gli Stati Uniti medesimi non vollero mai far parte della Società, mentre la Germania e il Giappone l'abbandonarono nel 1933, l'Italia nel 1937, la Spagna nel 1939.
Dal 24 ottobre 1945 l'Organizzazione delle Nazioni Unite rappresenta il secondo grande tentativo di dare una valida risposta al problema, per la cui soluzione la Società delle Nazioni si era rivelata inadeguata. L'ONU è, di fatto, l'erede diretto della Società delle Nazioni, della quale ha adottato, in parte, principi e finalità, metodi e istituzioni.
L'intrinseca debolezza di entrambi i tentativi, quello del 1919 e quello - tuttora in atto - del 1945, sta nel fatto che nè alla Società delle Nazioni, nè alle Nazioni Unite è stato affidato il potere effettivo d'imporre agli Stati nazionali ‛sovrani', e specialmente ai più forti fra essi, il rispetto di una rule of law internazionale. In effetti, anziché rappresentare il superamento dell'ideale nazionalistico di un'assoluta sovranità dello Stato, entrambi questi tentativi si sono basati proprio su quell'ideale, che è riflesso perfino nel nome delle due istituzioni (v. Friedmann, 19722, pp. 445, 458, 465). Le Nazioni Unite rappresentano certo un utile foro d'incontri e di discussioni; raramente però - o forse mai - le Nazioni Unite si sono rivelate strumento capace di prevenire conflitti locali. Quanto poi alla prevenzione di un terzo, immane conflitto mondiale, essa è dovuta finora piuttosto al terrore di una catastrofe universale di dimensioni irreparabili, dato l'immenso potere distruttivo delle due ‛superpotenze' nazionali, gli Stati Uniti e l'Unione Sovietica, che non alle dichiarazioni contenute nella Carta delle Nazioni Unite, alle deliberazioni dell'Assemblea dell'ONU, o alle decisioni rese dalla Corte internazionale di giustizia (detta anche World court) che è succeduta alla Corte permanente della Società delle Nazioni.
Forza e terrore dunque - non giustizia - sembrano essere le reali dimensioni del codice di comportamento internazionale oggi in vigore. Ma quanto potrà durare questo equilibrio del terrore? Che cosa accadrà il giorno, che già stiamo intravedendo, in cui altre sempre più numerose nazioni saranno in grado di brandire a loro volta, minacciosamente, armi di distruzione globale? Che cosa ci assicura che qualcuna di tali nazioni non diverrà preda di follie simili a quelle che pervasero parte dell'Europa non più di una o due generazioni fa? Dopo gli olocausti consumati dalle guerre nazionalistiche, e dopo i genocidi perpetrati da ideologie oppressive e criminali, stiamo ora muovendo - ciecamente, o rassegnatamente, o in ogni caso impotentemente - verso l'estrema catastrofe della civiltà umana?
Non siamo in grado, ovviamente, di rispondere a queste angosciose domande. Il nostro compito deve qui limitarsi a cercare se ci siano, per lo meno, i sintomi di una risposta a quegli immani problemi: i sintomi, insomma, del fatto che la saggezza, la creatività, l'immaginazione dell'uomo non sono ancora interamente esaurite, e che istituzioni come le Nazioni Unite non sono, in realtà, le tristi luci di un fatale tramonto, ma piuttosto il promettente bagliore che annuncia una nuova era, una ‛nuova dimensione della giustizia' emergente sull'orizzonte del mondo contemporaneo.
b) La tutela soprannazionale dei diritti dell'uomo
Un'importante differenza fra il Patto che nel 1919 a Versailles creò la Società delle Nazioni e la Carta che nel 1945 a San Francisco istituì l'Organizzazione delle Nazioni Unite è costituita dall'inclusione in questa Carta di un preambolo proclamante la ‟fede nei diritti fondamentali dell'uomo, nella dignità e nel valore della persona umana, nell'uguaglianza dei diritti degli uomini e delle donne".
Ciò rappresentò, indubbiamente, una rilevante innovazione. Come ha osservato Sir Dingle Foot, ‟a Versailles, a nessuno era venuto in mente che la Società delle Nazioni dovesse occuparsi anche delle ingiustizie sofferte dai singoli cittadini degli Stati membri. La Società fu creata esclusivamente come strumento per mantenere la pace" tra le nazioni. Al contrario, la Carta delle Nazioni Unite è ispirata a una ‟concezione interamente nuova", la quale è la ‟conseguenza di cinque anni di guerra contro la Germania nazista e della consapevolezza che lo stesso regime che aveva rinnegato tutti i diritti dell'uomo aveva anche osato scatenare una guerra aggressiva su scala senza precedenti"; sicché ‟il destino degli individui era divenuto materia di interesse internazionale" (v. Foot, 1969, p. 775).
L'indissolubile connessione fra pace internazionale e dignità della persona umana fu ulteriormente riconosciuta il 10 dicembre 1948, quando l'Assemblea generale delle Nazioni Unite adottò la Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo. Questo bill of rights universale, che tutti gli Stati membri hanno accettato di rispettare e proteggere, rappresenta un impressionante catalogo di libertà fondamentali. Da un lato, esso include le tradizionali libertà individuali, come il diritto a non essere arbitrariamente arrestato, detenuto o esiliato, la libertà di movimento dentro e fuori del proprio paese, la libertà di pensiero, di religione, di espressione, di associazione e di riunione pacifica, il libero accesso alla giustizia, il diritto alla pubblicità e fondamentale correttezza dei procedimenti giudiziari e all'imparzialità e indipendenza dei giudici. Dall'altro lato, esso include altresì i nuovi ‟diritti sociali" di libertà, come il diritto al lavoro e alla sicurezza sociale, il diritto a un adeguato tenore di vita, il diritto all'istruzione e alla partecipazione alla vita culturale.
Tuttavia, come ha recentemente sottolineato l'ex chief justice degli Stati Uniti, Earl Warren, il punto debole della Dichiarazione universale - come pure della Carta dell'ONU - sta nella pervicace mancanza di volontà degli Stati membri di trasformare la Dichiarazione stessa da documento di valore meramente teorico in effettivo, operante strumento di giustizia internazionale, dotato di mezzi efficaci di garanzia e di attuazione (v. Warren, 1973).
Si ritiene infatti in generale che la Dichiarazione non sia vincolante per le nazioni che sono membri dell'ONU, per le quali essa rappresenta soltanto un'obbligazione morale e politico-filosofica, ma non giuridica. Certo è comunque che la Dichiarazione manca totalmente d'istituzioni, procedure e sanzioni intese ad assicurarne l'attuazione da parte degli Stati (v. Schwelb, 1964, pp. 34-39). Ripetute istanze rivolte a creare siffatte istituzioni - ad esempio, un Alto Commissario o Ombudsman per i diritti dell'uomo - furono regolarmente ignorate per molti anni. Fatto sta che ben pochi paesi si sono dimostrati disposti a rinunciare anche alla più piccola porzione della loro ‛sovranità' e ad assoggettarsi a un sistema di controlli internazionali. La ‛giustizia internazionale' è troppo spesso vista ancora come ‛interferenza negli affari interni' delle nazioni!
Si dovette attendere fino al 1966 per avere una prima significativa realizzazione nella giusta direzione. Nella sua storica XXI sessione, l'Assemblea generale dell'ONU adottò finalmente il Patto internazionale sui diritti civili e politici e il Patto sui diritti economici, sociali e culturali, entrambi aventi lo scopo di promuovere l'attuazione effettiva della Dichiarazione universale. Diversamente dalla Dichiarazione, i due Patti sono infatti riconosciuti come giuridicamente vincolanti per gli Stati che li ratificano; inoltre i Patti prevedono qualche forma, benché tuttora rudimentale e di dubbia efficacia, di sorveglianza da parte di organismi internazionali al fine di assicurare il rispetto delle loro disposizioni. In particolare, il Patto sui diritti civili e politici prevede uno speciale organismo internazionale chiamato Comitato dei diritti dell'uomo, al quale possono ricorrere non soltanto i vari Stati membri, ma anche gli individui; mentre il Patto sui diritti economici, sociali e culturali, pur non stabilendo un organismo ad hoc per garantire la propria attuazione, prevede per lo meno l'obbligo degli Stati d'inviare al Segretario Generale dell'ONU relazioni annuali concernenti tale attuazione. Significativamente, ben dieci anni dovettero però trascorrere prima che i due Patti entrassero in vigore: solo all'inizio del 1976, infatti, il numero minimo di 35 ratifiche, richiesto per la loro entrata in vigore, è stato raggiunto. Inoltre, il diritto degli individui di ricorrere davanti al Comitato dei diritti dell'uomo contro violazioni del Patto sui diritti civili e politici perpetrate da uno Stato non sorge con la semplice ratifica del Patto medesimo da parte di quello Stato, ma è subordinato all'accettazione di un protocollo facoltativo. Infine, il Comitato non avrà il potere di emettere vere e proprie sentenze aventi efficacia esecutiva, ma soltanto provvedimenti consistenti, in sostanza, in semplici raccomandazioni. Se poi la disputa non potrà essere risolta dal Comitato, gli Stati interessati potranno far ricorso a uno speciale procedimento di conciliazione. Sfortunatamente la proposta originaria, ben più impegnativa, secondo cui le parti interessate avrebbero potuto fare appello contro le decisioni del Comitato davanti alla Corte internazionale di giustizia, e così ottenere da questa Corte una sentenza vincolante, non è stata accolta.
In conclusione, appare chiaro che la via che porta alla ‛giustizia internazionale' è estremamente lenta e difficile e che i risultati raggiunti finora sono tutt'altro che soddisfacenti. E tuttavia non c'è dubbio che l'embrione è in via di crescita, ancorché a un ritmo disperatamente rallentato. Importante è soprattutto il fatto che, sebbene in linea di principio il diritto internazionale tratti normalmente soltanto i problemi delle relazioni fra gli Stati e non quelli delle relazioni fra uno Stato e i suoi cittadini, questa tradizionale limitazione non si applica più allorquando il comportamento di uno Stato nei confronti d'individui e di gruppi violi le regole essenziali di umanità e di giustizia, così come queste sono espresse nel bill of rights universale. Anche se ci vollero ben diciotto anni per trasformare, tramite i Patti del 1966, la Dichiarazione del 1948 in un documento giuridico, e non meramente morale, e anche se un altro decennio è trascorso prima che i Patti entrassero in vigore, rimane tuttavia vero che un importante principio - un vero e proprio ‛idolo' della sovranità degli Stati nazionali - è caduto in frantumi con l'approvazione della Dichiarazione e dei suoi Covenants.
Non saremmo tuttavia realisti se non riconoscessimo che, su scala universale, la giustizia internazionale rimane tuttora una speranza piuttosto che un'effettiva realtà. Per quanto tragico ciò possa un giorno rivelarsi, è un fatto che l'uomo contemporaneo non ha saputo ancora sviluppare una ferma, adeguata risposta al problema della pace e della giustizia nel mondo.
Su scala regionale, se non ancora a livello universale, la giustizia internazionale ha tuttavia fatto progressi importanti: alludo in particolare alla Convenzione europea per la protezione dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali.
La Convenzione costituisce il principale prodotto del Consiglio d'Europa - l'organizzazione a cui appartengono oggi diciannove Stati dell'Europa occidentale - ed è stata sottoscritta dagli Stati membri del Consiglio in Roma, il 4 novembre 1950. Simile, nel contenuto, alla Dichiarazione universale del 1948, la Convenzione europea ne differisce però per alcuni aspetti fondamentali.
In primo luogo, la Convenzione è giuridicamente vincolante per gli Stati che l'hanno ratificata. In secondo luogo, alla Convenzione non è riconosciuto soltanto il carattere di fonte di diritto internazionale, in quanto tale vincolante per gli Stati membri; la maggioranza degli Stati membri le riconosce infatti pure il carattere di fonte di ‛diritto interno', in quanto tale direttamente e automaticamente vincolante anche per i cittadini e le corti di quegli Stati. Per di più, alcuni Stati attribuiscono alla Convenzione addirittura lo status di diritto interno ‛avente forza superiore alla legge nazionale ordinaria'; in altre parole, la considerano come diritto interno ‛costituzionale', o addirittura ‛supracostituzionale'. Ne consegue che le leggi interne di quegli Stati, anche se posteriori alla Convenzione, sono ritenute invalide - con l'obbligo per le corti nazionali di non applicarle - se in conflitto con la Convenzione medesima. Ciò significa che la Convenzione si sta sempre più nettamente configurando come una sorta di Costituzione transnazionale, automaticamente vincolante per un certo numero di nazioni europee: un vero e proprio bill of rights europeo, elemento forse fondamentale nella formazione, che si va timidamente delineando, di una nuova unità europea.
In terzo luogo - ed è questo forse il dato più importante di tutti - la Convenzione europea è stata accompagnata dalla creazione di efficaci organismi di giustizia soprannazionale, la Commissione europea dei diritti dell'uomo e la Corte europea dei diritti dell'uomo, aventi lo scopo di assicurarne il rispetto e l'attuazione. A tali organismi possono ricorrere anzitutto gli Stati membri: l'esempio forse più clamoroso è stato il ricorso presentato nel 1968 da Danimarca, Norvegia, Svezia, Belgio, Olanda e Lussemburgo contro la Grecia dopo il colpo di Stato dei colonnelli, per la violazione da parte del regime militare greco di varie norme della Convenzione tra cui il divieto della tortura e di ogni trattamento disumano. Il risultato fu che nel dicembre 1969 la Grecia venne costretta a dimettersi dal Consiglio d'Europa, nel quale è stata riammessa nel 1974 dopo la caduta di quel regime. Ma ciò che qui più importa sottolineare è che il ricorso alla Commissione (e, indirettamente, anche alla Corte) oltreché dagli Stati può essere portato anche da individui, gruppi e organizzazioni private (art. 25, comma 1, della Convenzione). Ciò rappresenta un fondamentale progresso rispetto alla situazione esistente a livello mondiale, non tanto per quel che concerne il Comitato dei diritti dell'uomo previsto dal Patto internazionale sui diritti civili e politici - il quale ha comunque un mero compito di raccomandazione più che di decisione -, quanto soprattutto per ciò che concerne la Corte internazionale di giustizia delle Nazioni Unite. La funzione di questa Corte (al pari della funzione della vecchia Corte permanente di giustizia internazionale istituita dalla Società delle Nazioni) è infatti esclusivamente di risolvere dispute ‛fra gli Stati', e ‛su ricorso degli Stati'. Individui e gruppi privati sono ora invece legittimati ad agire davanti alla Commissione europea dei diritti dell'uomo, per ottenere protezione contro violazioni dei loro diritti proclamati dalla Convenzione, perpetrate da autorità legislative, esecutive e giudiziarie di qualsiasi Stato membro. La straordinaria importanza di questo avvenimento può misurarsi alla luce del fatto che è questa, si ritiene, la prima volta nella storia dell'uomo che a soggetti privati viene riconosciuto il diritto di agire in giudizio davanti a una Corte transnazionale contro le pubbliche autorità dei diversi Stati nazionali. Si tratta, ovviamente, di una rilevante breccia nelle mura massicce dell'assoluta ‛sovranità' dello Stato, e di un notevole passo in avanti nella realizzazione, per lo meno a livello regionale, di una Comunità internazionale operante al di sopra degli Stati.
Bisogna subito aggiungere peraltro che la possibilità di questo ‛ricorso individuale soprannazionale' non è l'automatica, necessaria conseguenza della ratifica, da parte di uno Stato, della Convenzione europea. L'art. 25 della Convenzione costituisce infatti una clausola facoltativa che lo Stato ratificante è libero di non accettare. È tuttavia incoraggiante il fatto che, al settembre 1977, ben tredici dei diciotto Stati ratificanti abbiano accettato la clausola facoltativa; tra questi si annoverano la Gran Bretagna, la Repubblica Federale Tedesca e (benché soltanto a partire dal 1 agosto 1973) anche l'Italia. Tale accettazione rappresenta un importante impegno internazionale dei tredici paesi e un nuovo tentativo - sul piano giuridico, intellettuale e morale - di risolvere uno dei più gravi e minacciosi problemi delle società contemporanee. Si tratta di un tentativo che, se avrà successo nel Vecchio Continente, potrà essere di stimolo e valere come modello per tentativi analoghi anche in altre regioni del mondo, e forse anche a livello mondiale. La giurisprudenza della Commissione e della Corte europea dei diritti dell'uomo, per quanto assai prudente e fin troppo moderata nei suoi primi anni di vita, non è priva di notevoli decisioni, le quali possono far bene sperare nel successo, a lungo termine, di tale esperimento di giustizia internazionale.
c) Il superamento della concezione dello Stato nazionale come fonte esclusiva del diritto e della giustizia
Se analizziamo il processo di affermazione e consolidamento degli Stati nazionali, osserviamo che esso fu accompagnato e rafforzato dall'idea di ‛sovranità'. Lo Stato nazionale divenne sempre meno disposto a riconoscere sopra di sé autorità e leggi soprannazionali, come il Sacro Romano Impero, la Chiesa cattolica, il diritto romano e canonico, lo jus commune gentium, l'equità o il diritto naturale; esso ha inteso affermarsi invece come dotato di assoluta autonomia, appunto come ‛Stato sovrano'. Diritto (law) e legge (statute), come s'è visto, furono identificati, e suprema legge vincolante divenne quella ‛posta' dallo Stato sovrano, ossia il diritto positivo.
Questa concezione dello Stato come fonte unica del diritto (jus) e della giustizia (iustitia) si andò sempre più profondamente radicando, specie nel periodo a cavallo fra il XIX e il XX secolo. In quest'epoca, non soltanto si rifiutano le autorità soprannazionali limitatrici della sovranità nazionale, ma si nega al diritto internazionale la natura di vero e proprio sistema normativo (v. Austin, 1954, pp. 142, 200-201, 254; v. Hart, 1961, pp. 208-231, 255-257) e si arriva al punto di negare, con ferrea coerenza, ogni valore giuridico anche al diritto straniero. Leggi, provvedimenti amministrativi e decisioni giudiziarie di altri paesi non possono essere ‛diritto' per lo Stato sovrano, che si proclama fonte unica del diritto: essi sono affermati dunque come ‛meri fatti'. Ma poiché era inevitabile che anche a quell'epoca individui ed enti dovessero entrare in rapporti giuridici di carattere internazionale, per non paralizzare gli scambi trascendenti le frontiere dello Stato-nazione fu sentita la necessità di affidare a finzioni giuridiche e ad astratte costruzioni concettuali, accompagnate talora da specifiche istituzioni giuridiche (come il procedimento di exequatur), il compito di ‛adeguare la realtà al pensiero', anziché preferire - più umilmente, ma più realisticamente - il saggio principio di adeguare il pensiero alla realtà. Perciò il diritto straniero, e in genere gli atti normativi di altri paesi, non potendo essere cancellati dalla realtà si dicevano essere ‛incorporati' nel diritto nazionale, ‛nazionalizzati' dunque con atto di volontà dello Stato sovrano, e in tal modo da questo stesso Stato trasformati, da meri fatti privi di carattere normativo, in vero e proprio diritto ‛nazionale' (v. Cappelletti, 1969, pp. 339-474 e in particolare pp. 345-348, 372-373).
Tutto ciò è evidentemente in conflitto con una moderna concezione di ‛giustizia internazionale'. La dimensione internazionale della giustizia implica infatti, prima di ogni altra cosa, l'abbandono della concezione esclusivistica e monopolistica della sovranità dello Stato; implica, com'è eloquentemente proclamato dalla Costituzione italiana del 1948, la volontà dello Stato di consentire le ‟limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni".
Gli avvenimenti descritti nei precedenti paragrafi di questo capitolo non sono altro che alcuni esempi delle numerose manifestazioni del graduale abbandono di una concezione divenuta ormai anacronistica. Tale abbandono è più che naturale in un mondo caratterizzato da un'espansione senza precedenti dei rapporti economici, personali e culturali di carattere transnazionale. Basti pensare alla formazione di ‛mercati comuni' multinazionali, di cui la Comunità Economica Europea è l'esempio più importante; basti pensare ancora alle migrazioni transnazionali di milioni e milioni di lavoratori, o al turismo internazionale di massa, o alle gigantesche società commerciali multinazionali, o infine all'inarrestabile espansione di conglomerati urbani che travalicano i confini, divenuti ormai artificiali, dei vari paesi. Un grande storico inglese recentemente scomparso ha scritto, a proposito di quest'ultimo fenomeno, che l'inevitabile formarsi della ‛ecumenopoli' (o world city), ossia il conglomerarsi di megalopoli che si estendono al di là dei confini degli Stati nazionali, è ragione imperativa e pressante per la formazione di una ‛federazione universale' che superi la concezione di Stato ormai rifiutata dalla realtà, e che sia in grado di salvare l'umanità dalla catastrofe e dal caos politico e amministrativo derivante da un sistema di governi nazionali di una realtà divenuta invece globale (v. Toynbee, 1970, pp. 215-216). D'altro canto, un insigne giurista francese ha tratto da questa situazione le conseguenze in termini di giustizia: gli Stati devono muoversi verso un sistema di ‟giustizia superiore", ossia verso una concezione internazionale della giustizia, ‟anche a costo di rinunciare a ciò che ciascuno di essi, preso individualmente, è portato a considerare come la giustizia migliore e più vera" (v. David, 1971, p. 29).
Invero, sempre più frequentemente i giudici nazionali devono risolvere questioni e dispute che, essendo radicate in contesti non puramente nazionali, richiedono l'‛accertamento' e l'‛applicazione' di leggi, principî e costumi stranieri; e sempre più frequentemente, provvedimenti giudiziari e amministrativi stranieri assumono rilevanza nell'ambito dello Stato e necessitano di ‛riconoscimento' entro i confini di questo. In tutti questi casi, i giudici e le altre autorità nazionali, come pure i privati cittadini, sono posti davanti a una realtà ben più forte di concezioni e finzioni nazionalistiche. Istituzioni modellate sulla base di tali concezioni sono destinate ad apparire sempre più chiaramente come paralizzanti relitti di un'epoca superata.
Dappertutto, anche nell'Est europeo, si moltiplicano i sintomi di una crescente ‛apertura internazionale' dei sistemi giuridici nazionali, accompagnata da una crescente ‛coscienza internazionale' dei giudici e delle altre autorità interne. Le cittadelle del nazionalismo giuridico sono sottoposte ad attacchi sempre più pesanti da parte delle corti e dei legislatori, degli studiosi e del pubblico. Alcune di esse hanno già capitolato, come ad esempio l'istituzione della révision au fond la quale imponeva alle corti francesi di non riconoscere valore giuridico alle sentenze straniere senza averne prima riesaminato il merito. Questa istituzione, di chiaro stampo nazionalistico, è stata soppressa in Francia, senza bisogno di alcun intervento legislativo, in forza di un'importante decisione della Cour de cassation del 7 gennaio 1964 e avvenimenti simili si sono verificati, sempre ad opera delle corti, in Inghilterra e negli Stati Uniti d'America (v. Cappelletti, 1969, pp. 367-368, 380-381).
Altri sviluppi nella stessa direzione sono stati il frutto di riforme legislative, anziché di una spontanea evoluzione giudiziaria. Basti menzionare l'emendamento apportato negli Stati Uniti, nel 1966, alle Federal rules of civil procedure, con cui fu espressamente abbandonata la tradizione di considerare il diritto straniero come mero fatto, anziché come vero e proprio diritto. Infine, contributi alla stessa tendenza evolutiva sono venuti da trattati internazionali. Si possono ricordare, in particolare, la Convenzione di New York intesa a facilitare il riconoscimento e l'esecuzione di decisioni arbitrali straniere, conclusa nel 1958 sotto gli auspici delle Nazioni Unite e ratificata da quasi tutti i principali paesi del mondo (inclusa l'Unione Sovietica); nonché le Convenzioni dell'Aja del 1964, 1966 e 1968, intese in generale a facilitare la cooperazione giudiziaria internazionale in materia civile e commerciale.
Sempre nel 1968, la Convenzione fra i paesi della CEE, per il riconoscimento e l'esecuzione nell'ambito dei singoli Stati membri di sentenze civili e commerciali emesse dai giudici di altri paesi comunitari, ha rappresentato un passo significativo verso la formazione di un nuovo diritto comune europeo. Ma ancora più significativi e innovatori rispetto alla tradizione delle sovranità nazionali sono altri aspetti di questo movimento d'integrazione europea a livello comunitario. Va menzionato anzitutto l'effetto giuridico ‛automatico', nell'ambito di tutti i nove Stati membri delle Comunità (CEE, EURATOM e CECA), dei provvedimenti normativi emanati dal Consiglio e dalla Commissione delle Comunità, come pure delle decisioni della Corte europea di giustizia (con sede al Lussemburgo): ovviamente, concezioni e istituzioni tipiche della tradizione nazionale, quali l'exequatur, vengono qui ormai abbandonate. In secondo luogo, va ricordato lo stretto legame che si va gradualmente stabilendo fra la Corte europea di giustizia e tutte le corti nazionali dei nove paesi comunitari. Queste ultime, allorquando per la decisione di una controversia pendente davanti a esse s'impongono questioni d'interpretazione o di validità del diritto comunitario (norme dei trattati o altri provvedimenti normativi comunitari), possono e a volte debbono rimettere tali questioni alla Corte comunitaria per un giudizio definitivo e vincolante. È certo che questo stretto legame finirà per contribuire potentemente non soltanto alla formazione di un nuovo diritto comune, ma anche alla formazione, non meno importante, di una nuova ‛coscienza comunitaria' dei giudici nazionali. In terzo luogo, va pure considerato l'importante sviluppo che ha portato ad affermare la superiorità del diritto comunitario rispetto a quello nazionale. La conseguenza è che il diritto comunitario non soltanto ha efficacia automatica, come s'è detto, nell'ambito degli Stati membri, ma ha altresì assunto efficacia ‛prevalente' rispetto a norme nazionali (ancorché successive) con esso contrastanti. Si deve sottolineare che si tratta di uno sviluppo veramente rivoluzionario, che ha irreparabilmente travolto gli schemi e istituti più profondamente radicati della concezione dello Stato come fonte esclusiva del diritto e della giustizia.
In quarto luogo, è degli ultimissimi anni un altro sviluppo che ha portato a un ulteriore affascinante intreccio d'idee e d'istituzioni sul piano della ‛giustizia internazionale'. Si tratta del problema dell'eventuale conflitto di qualche norma comunitaria con i diritti fondamentali dell'uomo. Sia la Corte europea che talune corti nazionali (in particolare, la Corte costituzionale tedesca e in parte anche quella italiana) hanno cominciato ad affermare il loro potere e dovere di negare applicazione a norme comunitarie che appaiano lesive dei diritti fondamentali dell'uomo. Ma quali sono questi diritti? E chi ha il potere di affermarli e di definirli? Certo non gli Stati nazionali: deve infatti trattarsi di un catalogo ‛transnazionale' di diritti per essere tale da imporsi a tutti i paesi comunitari e agli organi stessi delle Comunità. Le risposte agli interrogativi testé posti sono varie. È stato ad esempio sostenuto che la Convenzione europea dei diritti dell'uomo, pur essendo il prodotto di un organismo internazionale, il Consiglio d'Europa, diverso da quello delle Comunità europee - tant'è vero ch'esso comprende altri dieci paesi in aggiunta ai nove paesi comunitari - rappresenti tuttavia una Carta dei diritti dell'uomo alla quale anche il diritto comunitario è soggetto. Altri invece vorrebbero trovare tale Carta fondamentale nella Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo.
Un'altra soluzione, per il momento più realistica, è quella di rinunciare, almeno provvisoriamente, a un testo scritto e rimettersi piuttosto a una flessibile elaborazione giurisprudenziale, ad opera specialmente della Corte europea di giustizia, di quelli che sono i diritti fondamentali e inalienabili a livello comunitario. Ma quale che sia la risposta agli interrogativi poco sopra indicati, resta il fatto, estremamente significativo, che ancora una volta emerge nelle società contemporanee l'esigenza, sempre più forte, di ricorrere a norme di condotta transnazionali - nella specie, norme trascendenti non soltanto il diritto dei singoli Stati ma finanche quello di comunità di Stati. La nuova, potente istanza di una dimensione transnazionale, e tendenzialmente universale, della giustizia non potrebbe essere più chiara.
Risultato finale della tendenza evolutiva delineata in questo capitolo dovrebbe essere dunque, insieme al superamento di una concezione nazionalistica e statalistica del diritto e della giustizia, la formazione di un efficace sistema di ‛giustizia internazionale', fondato sul controllo, da parte di corti internazionali, della conformità delle attività degli Stati a una rule of law di carattere transnazionale. Si tratta di un nuovo ‛principio di legalità' basato su un catalogo di valori fondamentali, internazionalmente, anzi universalmente, accettati e vincolanti.
Certamente, per raggiungere questo risultato le società moderne devono ancora percorrere un lungo e faticoso cammino. Il problema, invero, non è tanto quello delle gravi difficoltà da superare, quanto soprattutto del tempo concesso per superarle. Avrà l'umanità tutto il tempo necessario per attuare una così rivoluzionaria trasformazione di concezioni, di leggi e di strutture tuttora profondamente radicate e tuttavia divenute pericolosamente inconciliabili con le necessità più vitali del mondo contemporaneo? Avremo noi, in particolare, abbastanza tempo per superare quel ‟tragico paradosso della nostra epoca" che è ‟the failure of nation-states to recognize the imperatives of internationalism"? (v. Warren, 1973, p. 1258; v. anche Bodenheimer, 1967, p. 227).
La giustizia internazionale rappresenta la risposta dell'umanità al più serio pericolo che mai abbia minacciato l'umana sopravvivenza; e tuttavia si tratta finora di una risposta appena sbozzata, tuttora embrionale. Soltanto il futuro potrà dire se questa risposta sarà stata capace di crescere e svilupparsi secondo le drammatiche, urgenti necessità della nostra epoca, e di condurre finalmente, come vogliamo sperare, a un mondo in cui individui, gruppi e popoli vivranno in pace e in reciproca comprensione, anziché in guerra, terrore e oppressione.
4. La ‛giustizia sociale' e il superamento della concezione della giustizia come libertà individuale e uguaglianza formale
a) Giustizia sociale, libertà, uguaglianza e il conflitto ideologico tra mondo occidentale e mondo socialista
Gli sviluppi sul piano costituzionale e internazionale che abbiamo discusso nei due capitoli precedenti, per quanto importanti, rivelano tuttavia una loro fondamentale debolezza. Infatti, con la sola eccezione della Organizzazione delle Nazioni Unite e dei suoi derivati, quegli sviluppi non hanno finora nemmeno tentato di superare la mightiest cleavage della nostra epoca: il profondo solco, e il minaccioso confronto, fra ideologia comunista da un lato e ideologia occidentale dall'altro, e fra i paesi che di tali contrapposte ideologie si fanno portatori armati.
Per comprendere le radici profonde del contrasto fra questi gruppi, o ‛blocchi', di paesi, si deve prendere in considerazione quella terza serie di fatti ed eventi che abbiamo menzionato all'inizio: le gigantesche trasformazioni economiche e sociali delle società contemporanee.
La ‛rivoluzione borghese', che spazzò via dalla Francia e da gran parte del resto d'Europa i relitti di un'organizzazione sociale ancora sostanzialmente medievale, gerarchica, compartimentalizzata, feudale, scoppiò anzitutto in un paese, e trovò poi il suo terreno naturale di espansione in un continente, entrambi legati ancora essenzialmente a un sistema statico di economia agraria (v. de Tocqueville, 1967, pp. 89, 96; v. Savatier, 1959, p. 5). Ma dopo di allora un travolgente processo d'industrializzazione ha radicalmente trasformato la faccia dell'Europa, con tutte le conseguenze che ne sono derivate: soprattutto, le enormi migrazioni di massa dalle campagne, dai villaggi, dalle fattorie, da una vita statica e raccolta, verso centri urbani e complessi industriali sempre più vasti, anonimi, mutevoli, spersonalizzanti.
Con i suoi effetti spersonalizzanti e alienanti, l'industrializzazione, pur produttrice della ricchezza senza precedenti che caratterizza la ‛civiltà delle macchine' e ‛dei consumi', ha anche promosso la formazione di una nuova consapevolezza di quelle vaste masse emigranti: la sofferta consapevolezza della miseria della loro condizione umana. Ciò ha significato per molti acquistare coscienza della condizione di sfruttamento delle masse lavoratrici da parte dei detentori della nuova ricchezza e del nuovo potere, ma anche, allo stesso tempo, coscienza da parte di quelle masse di una loro potenzialità, anch'essa di dimensioni senza precedenti: la possibilità di unirsi, per diventare il potente motore di una nuova, radicale, ‛definitiva' trasformazione sociale, o rivoluzione.
L'ideologia, naturalmente, fu pronta a offrire le basi teoretiche a un siffatto promettente - o minaccioso - sviluppo storico. L'idea di proprietà individuale, un'idea profondamente radicata nella storia delle società occidentali, divenne il primo bersaglio dell'acido corrosivo della nuova filosofia, da Proudhon a Marx e a molti altri. Ritenuta in passato un'essenziale garanzia della libertà e un diritto ‛naturale' e inalienabile dell'uomo (v. Gierke, 19602, pp. 103-104; v. Vlastos, 1962, pp. 34-35), la proprietà privata venne indicata invece come il simbolo dell'egoistico sfruttamento dell'uomo sull'uomo. Il nuovo verbo fu quello comunista, o socialista: esso proclamava che, secondo natura, la proprietà dei mezzi di produzione appartiene a tutti - alla comunità, alla società, quindi allo Stato e ai suoi organi, almeno fintantoché una nuova generazione di uomini e di donne, liberatasi da ogni residuo dell'egoismo lungamente nutrito dalla proprietà privata, renderà superfluo anche lo Stato. La Rivoluzione d'Ottobre si basò sul fascino di questo nuovo verbo; per molti, essa rappresentò l'aurora, nel 1917, di una nuova era nella tormentata storia dell'umanità: l'era della ‛giustizia sociale'.
L'acido corrosivo del nuovo verbo non si arrestò al suo primo bersaglio. Esso mosse all'attacco di tutti quei diritti ‛individuali' (o ‛politici', o ‛classici') di libertà che avevano rappresentato la base sacrosanta dello Stato di diritto e della rule of law nella concezione liberale-individualistica del XIX secolo. Quei diritti fondamentali - quali la libertà di pensiero, di espressione, di religione e di associazione, la libertà di movimento, di commercio e in generale d'iniziativa economica - erano stati considerati dai ‛liberali' del secolo scorso come la suprema garanzia per tutti i cittadini di poter partecipare alla vita politica ed economica della comunità. La nuova ideologia considera invece quegli stessi diritti niente più che un'ingannevole facciata. Dietro questa facciata la minoranza dominante, che detiene il monopolio del potere economico, vorrebbe nascondere il fatto che, in realtà, essa soltanto ha facile accesso a quegli strumenti che, come l'educazione, la stampa e altri mezzi di pressione, sono necessari per rendere effettivi, e non meramente illusori, quei diritti e quelle libertà (v. Golunskij e Strogovič, 1951, pp. 351, 381).
Molti argomenti possono certamente essere addotti in favore di questa analisi demolitrice (v. Weber, 19252, pp. 454-455). E tuttavia il XX secolo ha visto il formarsi di una nuova e più sofisticata generazione di liberals, i quali hanno buone ragioni per ritenere che la conseguenza più ragionevole di quell'analisi non sia di condannare come ‛borghesi' i classici diritti individuali, e perciò di preconizzarne l'indiscriminata abolizione. Piuttosto, quei diritti debbono essere rimodellati, integrandoli con altri diritti e garanzie - i diritti ‛sociali' di libertà - che sono intesi appunto a rendere i primi ‛effettivamente accessibili a tutti' (v. Calamandrei, 1968, pp. 183-210; v. Cappelletti, 1969, pp. 511-524). È questo il nucleo vitale delle migliori dottrine variamente chiamate di ‟socialismo liberale" (v. Rosselli, 1945) o, più correntemente, socialdemocratiche o laburiste.
Un'indiscriminata abolizione della libertà individuale è stata invece la strada seguita per molti anni dall'Unione Sovietica e dagli altri Stati socialisti, come è stato denunciato anche dal XX e dal XXI Congresso del Partito comunista dell'URSS (1956 e 1961). Eppure durante l'ultimo ventennio anche in quei paesi il pendolo della storia si è andato muovendo, non senza difficoltà e amari ritorni, nella direzione di una certa ‛liberalizzazione' e alla ricerca di una più ‛umana' forma di socialismo (v. Ehrlich, 1961, pp. 67 ss.; v. Berman, 1963, pp. 66-96). La recente ratifica da parte dell'Unione Sovietica (16 ottobre 1973) del Patto internazionale sui diritti civili e politici può forse costituire un sintomo significativo di questo sviluppo che, se è certamente assai lento, è però, si spera, destinato a continuare e a rafforzarsi.
D'altro canto, nei paesi dell'Occidente da alcuni decenni ormai si è andato verificando un fondamentale fenomeno di convergenza. La tendenza è nel senso di muovere verso l'ideale di uno ‛Stato sociale di diritto', abbandonando, o correggendo, il vecchio ideale, ottocentesco e laissez faire, di uno Stato di diritto di stampo liberaleindividualistico, uno Stato afflitto esso stesso da innumerevoli e ormai ben provati abusi (v. Savatier, 1959, pp. 20- 21) che ne hanno discreditato l'assunto centrale di una giustizia basata sulla libertà (meramente) individuale e sull'uguaglianza (puramente) legale o formale.
I primi importanti tentativi di muovere in questa direzione furono compiuti dalla Costituzione di Weimar nel 1919 e, prima ancora, dalla Costituzione messicana scaturita nel 1917 dalla Revolución de los campesinos. In entrambi questi documenti si trova appunto il tentativo di ‛congiungere' ai diritti individuali tradizionali i nuovi ‛diritti sociali' di libertà, piuttosto che abolire i primi nel tentativo, forse vano, di meglio glorificare in tal modo i secondi.
Questa tendenza evolutiva si è allargata e ha acquistato vigore nell'ultimo dopoguerra. Essa si è riflessa in documenti quali la Costituzione della quarta Repubblica in Francia (1946), la Costituzione della Repubblica italiana (in vigore dal 1948) e la Costituzione di Bonn (in vigore dal 1949). Alcune frasi del Preambolo della Costituzione francese del 1946 sono particolarmente illuminanti. Dopo aver ‟solennemente riaffermato i diritti e le libertà dell'uomo e del cittadino consacrate dalla Dichiarazione dei diritti del 1789", il Preambolo continua annunciando che ‟in aggiunta, il popolo proclama i seguenti principî sociali, economici e politici, come particolarmente necessari nel nostro tempo", ossia, tra l'altro, ‟il diritto di ottenere un lavoro", il diritto, garantito ‟a tutti, e specialmente alle madri, ai bambini e ai lavoratori anziani", alla ‟protezione della salute, alla sicurezza materiale, al riposo e allo svago", nonché il diritto di ‟eguale accesso" di tutti i cittadini ‟all'educazione, all'addestramento professionale e alla cultura".
La concezione emergente da questo fondamentale sviluppo storico, il quale è comune, con differenze soltanto di grado, a tutti i moderni Stati democratici del mondo occidentale, è che il vecchio ideale della ‛rivoluzione borghese', égalité, deve trasformarsi da istanza di un'uguaglianza meramente formale in istanza di un'uguaglianza reale (v., ad es., espressamente in questo senso, l'art. 3, comma 2, della Costituzione italiana). In altre parole, l'uguaglianza deve cessare di essere semplicemente, e staticamente, ‛un assunto giuridico' - l'eguale status giuridico di tutti i cittadini - per diventare altresì una finalità economico-sociale da promuoversi e perseguirsi costantemente: ‟l'uguaglianza cessa di essere punto di partenza del diritto, diventa obiettivo dell'ordinamento giuridico" (v. Radbruch, 1948; tr. it., p. 218; v. anche Bobbio, 1969). Ed è appunto per il perseguimento di tale finalità che si sono imposti i nuovi diritti sociali di libertà, la cui attuazione implica un costante intervento dello Stato.
Tutto ciò era ovviamente in netto contrasto con i metodi adottati dalla ‛rivoluzione borghese', il cui compito glorioso fu quello di abbattere gli ostacoli giuridici all'eguaglianza, che, sotto l'ancien régime, consistettero principalmente nel riservare a gruppi privilegiati la partecipazione al potere politico. Pertanto i diritti fondamentali proclamati da quella rivoluzione avevano un carattere meramente ‛negativo', nel senso che non implicavano un intervento dello Stato ma semplicemente un suo dovere negativo: l'obbligo di ‛astenersi' dal fare qualcosa, l'obbligo di non interferire nella libertà di pensiero, di voto, di associazione, di commercio dei cittadini (v. Calamandrei, 1946, pp. V, XIX-LVI). Ma una volta divenuto chiaro che anche in assenza di ostacoli giuridici, altri ostacoli, di carattere socio-economico, potevano di fatto, e non meno potentemente dei primi, sbarrare l'accesso alla libertà e all'uguaglianza, un nuovo impegno dello Stato si è dimostrato necessario: l'impegno di prevenire, o per lo meno di attenuare, le cause della formazione di privilegi e ingiustizie. Un intervento attivo, promozionale, dello Stato è stato dunque richiesto per garantire un minimo di sicurezza sociale: alloggi decenti, educazione e assistenza sanitaria, insomma le nuove ‛libertà' dalla fame, dal bisogno, dall'ignoranza, dallo sfruttamento, dalla disoccupazione e in generale dalla ‛paura economica'. È appunto questo sviluppo che segnò la nascita del moderno ‛Stato sociale' o welfare State (art. 20 della Costituzione di Bonn; v. Rehbinder, 1973; v. Street, 1968).
Si deve sottolineare a questo punto che siffatto sviluppo nel mondo occidentale rappresenta in realtà la naturale evoluzione di una concezione che per almeno due secoli è stata al centro della storia dell'Occidente: la concezione, cioè, ‟che tutti gli esseri umani hanno uguali diritti, [...] e che la giustizia implica l'uguaglianza" (v. Russell, 1961, p. 186). Allo stesso tempo, questo sviluppo ha portato con sé peraltro una radicale trasformazione: il passaggio dalla concezione del diritto e della giustizia come ‛mantenimento dell'ordine sociale', a una concezione dinamica del diritto e della giustizia come postulazione di ‛mutamento sociale'. Non meno importante è sottolineare un altro fatto, ossia che questo sviluppo del mondo occidentale rappresenta uno dei due bracci convergenti di una grande tendenza evolutiva, la quale è andata attenuando la contrapposizione fra le due ideologie originariamente in totale conflitto, l'ideologia socialistica ‛orientale' da una parte e quella liberale-individualistica ‛occidentale' dall'altra. Vista insieme a quel fenomeno di graduale liberalizzazione ideologica che è iniziato nell'Est, la nascita dello ‛Stato sociale' nell'Occidente può incoraggiare la speranza in un futuro nel quale il più minaccioso ‛baratro' del nostro secolo finirà forse per spianarsi e sparire.
b) Un esempio: la giustizia dei poveri
Gli sviluppi verificatisi nel corso del sec. XIX e nel nostro, in tema di assistenza legale alle parti povere nei processi giudiziari, per almeno due ragioni possono considerarsi un esempio particolarmente illuminante della tendenza evolutiva verso una ‛ sociale' (per un'analisi comparativa dettagliata di tali sviluppi v. Cappelletti e altri, 1973).
La prima ragione è che tale esempio è preso dal campo dell'amministrazione giudiziaria: e anche se va certamente riconosciuto che ‛giustizia' (Gerechtigkeit) non è sinonimo di ‛amministrazione della giustizia' (Justiz o Gerichtsbarkeit), non si deve trascurare il fatto che le corti giudiziarie sono il più importante strumento umano creato specificamente per porre rimedio alle ingiustizie - when wrongs need to be righted. La seconda ragione consiste in ciò, che le profonde trasformazioni avvenute nel campo delle istituzioni di assistenza giudiziaria (legal aid) rappresentano uno specchio ideale del grandioso movimento che da un sistema di uguaglianza formale, tipico dello Stato di laissez faire, va portando a un sistema in cui lo ‛Stato sociale' si assume invece il gigantesco compito di rendere effettiva l'uguaglianza - rendendo, appunto, la giustizia accessibile a tutti.
Per molti secoli, l'assistenza legale alla parte povera - consistente, soprattutto, nell'assicurare alla parte i servizi di un difensore, normalmente un avvocato, nonostante l'incapacità della parte stessa di pagare tali servizi - fu concepita, tutt'al più, come un dovere morale di carità, ma non come un dovere giuridico, e non quindi come un vero e proprio ‛diritto' della parte bisognosa. Ciò era vero ancora alla vigilia della Rivoluzione francese.
Un primo importante passo inteso a modificare questa situazione fu compiuto negli anni 1789-1790, quando la Rivoluzione - oltre ad abolire le ‛giurisdizioni privilegiate' (feudali, ecclesiastiche ecc.) unificandole in un sistema giudiziario unico e uguale per tutti - proclamò la gratuité de la justice con i nuovi giudici compensati non più dalle parti ma dallo Stato. Ma se in tal modo la Rivoluzione sradicò il costume secolare della venalité de la justice, non eliminò tuttavia le altre spese di giustizia (in particolare, gli onorari degli avvocati) e tutta la serie di ulteriori ostacoli economico-sociali tuttora pesantemente gravanti sulle parti, specie le meno abbienti (v. Cappelletti e altri, 1976, pp. 669, 673-681).
Così, nonostante l'ottimistica proclamazione rivoluzionaria della sua gratuità, una più realistica descrizione della giustizia rimaneva ancora quella lasciataci, nientemeno, da Ovidio: ‟Curia pauperibus clausa est" (Amores, 3, 8, 55). Una volta di più, l'‛uguaglianza borghese' dette prova di essere una conquista importante, ma incompleta. In forza di tale conquista tutti i cittadini divennero formalmente uguali davanti alla legge. Oggi però è divenuto ben chiaro che trattare su un piano di parità coloro che sono economicamente e socialmente svantaggiati e coloro che tali non sono non è che un altro modo di promuovere la disuguaglianza e di fare ingiustizia.
È vero che lo ‛Stato di diritto' liberale-individualistico tentò di attenuare, o per lo meno di nascondere, le più flagranti iniquità di quella situazione. In Francia, a partire dalla legge del 1851 sull'assistance judiciaire, e poi in Italia (1865), in Germania (1877) e altrove, nuovi schemi legislativi posero a carico della professione forense un obbligo giuridico (anziché meramente morale), e quindi giuridicamente sanzionato, di assicurare gratuitamente ai poveri il patrocinio giudiziario. Questa soluzione, sopravvissuta in Germania fino al 1919, in Inghilterra fino al 1949, in Francia fino al 1972, e che tuttora sopravvive ad esempio in Italia e in Spagna, consistette dunque in ciò, che lo Stato scaricava sui privati professionisti, gli avvocati, l'onere di rappresentare senza compenso le parti povere in giudizio: essa rifletteva ovviamente la filosofia politica del laissez faire che ebbe il suo apice proprio in quell'epoca - i primi decenni dopo la metà dell'Ottocento -, una filosofia caratterizzata dal desiderio di minimizzare gli interventi dello Stato in materia sociale ed economica.
Come è ben comprensibile, tali schemi legislativi portarono a risultati tutt'altro che soddisfacenti. È appena il caso di dire che, in un'economia di libero mercato, prestazioni non compensate tendono a conservare un aspetto di carità, anziché di vero obbligo giuridico: di fatto esse tendono a essere rifiutate e, se ciò non è possibile, saranno comunque marginali e di scadente qualità.
Un grande movimento di riforma è però in corso. Esso ha avuto inizio nella Germania di Weimar nel 1919 e in Gran Bretagna nel 1949, in entrambi i casi sotto un regime socialdemocratico o laburista. Il nucleo essenziale di questa riforma è di non accontentarsi più di affermare l'assistenza giudiziaria come un diritto, giuridicamente sanzionato, del povero, ma di porne altresì l'onere finanziario a carico dello Stato. I servizi prestati dal difensore non sono più dunque privi di compenso, e l'elemento caritativo è pertanto interamente abbandonato. L'assistenza giudiziaria ai poveri rappresenta così una nuova forma di ‛sicurezza sociale', ossia d'intervento dello ‛Stato sociale', intesa a rendere l'ideale di uguaglianza meno irreale e a fare della giustizia un bene più accessibile a tutti.
Che questo movimento rifletta una profonda aspirazione del nostro tempo è provato dall'impeto dei recenti sviluppi in materia di assistenza giudiziaria. Questi sono andati assumendo carattere sempre più vasto nell'ultimo decennio, estendendosi dagli Stati Uniti alla Francia, dalla Svezia al Canada e a molti altri paesi dei cinque continenti.
I paesi che, come la Spagna e l'Italia, conservano tuttora la mistificante soluzione ottocentesca del dovere ‛onorifico', ossia non compensato, della professione forense stanno divenendo sempre meno numerosi. Essi rappresentano la retroguardia di un movimento universale verso quella ‛giustizia sociale' che è ormai divenuta un bisogno riconosciuto di tutte le società progredite.
5. Conclusione
Abbiamo visto che alcuni fatti ed eventi, che hanno caratterizzato la storia dell'uomo nel XX secolo incidendo- vi il proprio marchio profondo, sono emersi come i principali ‛problemi di giustizia' della nostra epoca e che le società contemporanee si sono andate sforzando di risolvere questi problemi mediante principî, leggi e istituzioni che tendono a dare alla giustizia tre dimensioni fondamentali: costituzionale, internazionale e sociale.
Abbiamo anche visto che ciascuna di queste dimensioni della giustizia contemporanea affonda le proprie radici nella storia passata, e nelle concezioni che riflettono tale storia. La dimensione costituzionale è radicata nei grandi conflitti storici, di cui essa tenta di essere il superamento, fra ‛equità' e ‛legge' e fra ‛diritto naturale' e ‛diritto positivo'. A sua volta, la giustizia internazionale rappresenta il tentativo dell'umanità di superare una storia plurisecolare di nazionalismo, la rigida separazione, fonte di tanti disastrosi conflitti, delle molteplici sovranità statali assolute, e la concezione dello Stato-nazione come fonte esclusiva del diritto e della giustizia. Infine, la giustizia sociale rappresenta la reazione a una concezione della giustizia tradizionalmente intesa come libertà meramente individuale e come uguaglianza puramente formale e la naturale evoluzione di tale concezione; allo stesso tempo, essa rappresenta altresì un tentativo di superare il più minaccioso confronto politico e ideologico del nostro tempo.
Benché teoricamente distinguibili, le tre dimensioni sono essenzialmente legate fra loro: in realtà, esse rappresentano le tre frontiere di una tendenza evolutiva unitaria e integrale. Da un lato, la giustizia costituzionale è integrata dalla giustizia internazionale: quegli stessi valori basilari, che trovano espressione nei cataloghi dei diritti fondamentali delle costituzioni moderne e nell'apparato istituzionale inteso a proteggere tali diritti, tendono infatti a trovare un loro posto e una loro (per ora embrionale) protezione anche in documenti e istituzioni transnazionali. Dall'altro lato, sia la dimensione costituzionale che quella internazionale della giustizia sono integrate dalla dimensione sociale, nel senso che i ‛diritti sociali' sono andati emergendo come parte integrante e vitale dei bills of rights non soltanto a livello costituzionale, ma altresì a livello soprannazionale.
Se a questo punto la nostra analisi comparativa può consentirci una previsione, peraltro concretamente basata sui dati reali di una corrente evolutiva ormai ben precisata nella fenomenologia del nostro tempo, vorremmo concludere auspicando ulteriori e sempre più importanti manifestazioni di questo sviluppo integrale e unitario. È chiaro, ad esempio, che la ‛frontiera' sociale e di welfare non può interamente soddisfare il moderno desiderio di giustizia, fintantoché sia limitata a pochi Stati (o gruppi di Stati) privilegiati. Essa deve espandersi internazionalmente e universalmente per spianare, finalmente, anche quell'altro sciagurato ‛baratro' che si è andato scavando fra i paesi economicamente sviluppati e un affamato Terzo Mondo.
‟Non videtur esse lex, quae iusta non fuerit" (Tommaso d'Aquino, Summa Theologica, I-II, q. 95, art. 2; Agostino, De libero arbitrio, I, 5, [11]). Queste antiche parole - di Agostino, di Tommaso e di tanti altri nella storia del pensiero sulla giustizia - potrebbero assumersi come il motto della rinnovata aspirazione dell'uomo contemporaneo, che sente la necessità di un ritorno della legge alla giustizia - un ritorno del quid jus al quid iustum.
La netta separazione del diritto dalla giustizia e dalla morale è stata lungamente accettata, anche se spesso discussa (v. Pound, 1959, pp. 215-279; v. Hart, 1963; v. Fuller, 1964; v. Perelman, 1968, pp. 127-133; v. Ross, 1959, pp. 59-64; v. Passerin d'Entrèves, 1951, pp. 80-94; v. Piovani, 1961; v. Denning, 1955, pp. 1-7). Tale scissione, al pari di quella fra politica ed etica, era probabilmente giustificata in altre epoche. Al tempo di Machiavelli, che fu il primo studioso del moderno Stato laico (v. Cassirer, 19699, pp. 133-137), e ancora per qualche secolo dopo di lui, tali nette scissioni rappresentarono un modo ragionevole per affermare l'autonomia, l'indipendenza e il diritto all'unificazione del nascente Stato nazionale laico, nei confronti di altri e, originariamente, anche più potenti e probabilmente non meno pericolosi candidati a imporsi come fonti supreme di una rule of iustice. Come ha scritto Cassirer, ‟quando Voltaire lanciò il suo attacco contro la Chiesa romana, quand'egli pronunciò il suo famoso ‛Ecrasez l'infâme', egli poteva ben credere di essere il continuatore dell'opera del Machiavelli", che implacabilmente, e con molte giustificazioni, aveva attaccato la Chiesa come la causa prima della divisione dell'Italia (ibid., pp. 120-121). E non è certo strano che una generale rivalutazione del Machiavelli si sia verificata proprio nella Germania e nell'Italia della prima metà dell'Ottocento, dove scrittori come Hegel, Fichte e Alfieri lo glorificarono appunto come il simbolo dell'unità nazionale e dell'indipendenza per cui entrambi quei paesi stavano lottando (ibid., pp. 120-124).
La netta separazione della giustizia da altri valori - o addirittura, il netto diniego di qualsiasi significato reale delle idee di giustizia e di morale - poté avere un'ulteriore giustificazione nel pensiero e nel contesto storico dell'utilitarismo classico. È famosa la definizione di quel grande e influente filosofo-giurista che fu J. Bentham: ‟La giustizia, nel solo senso in cui ha un significato, è un personaggio immaginario, inventato per convenienza di discorso, i cui dettati sono i dettati dell'utilità, applicati a certi casi particolari" (v. Bentham, 1970, p. 120, nota b2). Una tale separazione, o un tale diniego, può in effetti aver rappresentato un modo ragionevole d'incoraggiare e rafforzare, magari inconsciamente, il primo fiorire dello Stato industriale, proteggendolo contro l'azione ritardatrice del dubbio morale. Si ricordi la sferzante osservazione di Max Weber sull'utilità, ai fini della crescita del capitalismo industriale in Inghilterra, di un generale ‟diniego di giustizia alle classi economicamente più deboli" (v. Weber, 1954, p. 353).
D'altro canto, anche all'epoca in cui il potere dello Stato-nazione ebbe raggiunto il suo apice - o il suo parossismo - con l'autoaffermazione dello Stato stesso come fonte unica del diritto, riaffermare la separazione del diritto dalla giustizia e dalla morale può aver rappresentato un estremo rifugio per coloro che volevano salvare le proprie coscienze, allorquando accettavano d'inchinarsi a una legge oppressiva in conflitto con la loro personale valutazione del giusto.
Queste giustificazioni di una separazione del diritto dalla giustizia non sarebbero più valide però in un mondo nel quale le tre dimensioni della giustizia, sopra analizzate, fossero compiutamente realizzate. Ci sono molte - e, a questo punto, abbastanza evidenti - ragioni per crederlo. Mi limiterò a discutere tre di queste ragioni.
La prima sta nel fatto che, in quel mondo, perderebbero ogni validità le giustificazioni di una separazione fra il diritto dello Stato e la lex superior di un'istituzione soprannazionale. In un sistema di ‛giustizia internazionale', infatti, il diritto dello Stato lungi dal rifiutare è anzi pronto a riconoscere il suo legame con - e la sua dipendenza da - una legge transnazionale, e tale legame e dipendenza sono attuati e resi esecutivi anche da corti di giustizia soprannazionali.
La seconda ragione è che individui e gruppi avrebbero ampie possibilità di ricorrere a un comprensivo sistema, articolato sia a livello interno che a livello soprannazionale, di controlli della conformità dell'attività pubblica (legislativa, esecutiva e giudiziaria) a valori costituzionali, internazionali e sociali. Tali ampie possibilità di controllo ridurrebbero grandemente il rischio che le leggi, e il diritto in generale, non corrispondano a ciò che la società, in un certo periodo dello sviluppo umano, tende a considerare come giusto, e che individui e gruppi debbano passivamente aderire a quella che essi sentono essere una legge ingiusta.
La terza ragione infine è che le tre dimensioni di giustizia discusse in questo studio, lungi dal costituire un ostacolo, sembrano rappresentare piuttosto il modo più adeguato, e forse l'unico, per assicurare la sopravvivenza e per stimolare l'ulteriore sviluppo della civiltà, della felicità e del benessere dell'uomo. Pertanto anche una visione utilitaristica, che veda con John Stuart Mill ‟il fondamento della morale nell'utilità, ossia nel principio della massima felicità" - e che pertanto consideri le azioni umane come ‟giuste (right) nella misura in cui esse tendono a promuovere felicità, ingiuste (wrong) se tendono a produrre [...] dolore, e la privazione di piacere" (v. Mill, 1972, p. 6) -, dovrebbe concludere che quelle dimensioni coincidono con la più ‛utile', e perciò la più ‛giusta', di tutte le leggi possibili.
Appare invero da molti segni che le dimensioni costituzionale, internazionale e sociale, mentre tendono a superare il tradizionale conflitto fra legge naturale, o etica, e legge positiva, sono oggi divenute le frontiere di una nuova regola di giustizia che tende a porsi anche come nuova regola di diritto, come dimostrano le molteplici norme e istituzioni discusse nei capitoli precedenti. Il fatto che più di un pensatore contemporaneo tenda a ricongiungere, piuttosto che a separare, diritto e giustizia, può essere significativo di una sentita esigenza del nostro tempo (v. Coing, 19692, pp. 146- 147; v. Rawls, 1971, pp. 3-4, 221-228, 235-243, 333-391).
Individuare una tendenza evolutiva non significa però, naturalmente, accertare un fatto compiuto. Troppe leggi sono ancora lontane dalla giustizia; e nella mente di troppi di noi manca ancora la consapevolezza che il più apocalittico dei destini minaccia il genere umano, se non saremo capaci di compiere la più profonda rivoluzione sociale e spirituale che mai sia stata compiuta, il più profondo mutamento di qualità. Giustizia al di sopra delle nazioni e della loro ottusa bilancia del potere, giustizia al di sopra dell'oppressione, giustizia alla portata di tutti: sono questi, ancora, sogni e utopie scherniti da molti, non creduti dai più.
Certo, nessuna fra le grandi avventure umane nel campo della giustizia, della libertà e del diritto è stata priva di difficoltà, di dubbi, di cadute e di ritorni. Né alcun progresso umano è mai stato capace di condurre a uno stato di perfezione. Siamo pronti ad ammettere che anche le più significative istituzioni, come ad esempio il controllo operato da corti nazionali e soprannazionali, non sono altro che strumenti nelle mani di uomini, e gli uomini, naturalmente, non sono dei. Ma siamo consapevoli anche del fatto che non c'è stata nella storia dell'uomo alcuna rivoluzione progressiva che non abbia avuto una sua propria utopia; né conosciamo alcun importante sforzo dell'uomo che non abbia avuto dietro di sé una potente forza morale e ideologica. Il costituzionalismo e l'internazionalismo moderni, i bills of rights nazionali e transnazionali, i diritti sociali di libertà, la protezione giurisdizionale, operata a livello interno e soprannazionale, di tali diritti - tutti questi possono ben essere appunto gli aspetti molteplici della grande Utopia della nostra epoca.
Epperò, nella storia dell'uomo le utopie riuscirono talvolta a realizzarsi. Nel nostro caso la realizzazione presuppone che la nuova visione della giustizia, emersa dall'analisi della realtà contemporanea, sia capace d'imporsi come la legge effettiva dell'umanità, e che il futuro, presagito sulla base delle grandi tendenze evolutive del nostro secolo, sia capace di avverarsi.
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