Giustizia
"Principes gentium sunt creati, per quos posset licentia scelerum coherceri". Con queste parole Federico II nel Proemio del Liber Constitutionum Regni Siciliae indicava la ragione prima dell'esistenza dei prìncipi temporali: essi erano stati creati per reprimere i crimini e impedire il trionfo del male. A questa funzione se ne aggiungevano altre due: i prìncipi ‒ dichiarava il sovrano svevo ‒ "requiruntur, ut sacrosanctam ecclesiam, Christiane religionis matrem, detractorum fidei maculari clandestinis perfidiis non permittant et ut ipsam ab hostium publicorum incursibus gladii materialis potentia tueantur atque pacem eisdem pacificatis iustitiam […] pro posse conservent". La missione dei prìncipi, dunque, si esprimeva anche nella protezione della Chiesa e nella conservazione della pace, attraverso la tutela del diritto, nel popolo loro affidato da Dio. La funzione principale del monarca, il motivo della sua istituzione, era allora, accanto alla protezione della Chiesa, l'esercizio della giustizia. Federico II lo ripeterà continuamente nelle sue costituzioni, la maggior parte delle quali sono dedicate proprio a regolare lo svolgimento di tale compito. "Nos itaque […] volentes duplicata talenta nobis credita Deo vivo in reverentiam Iesu Christi […] colendo iustitiam et iura condendo mactare disposimus vitulum laborium ei parti nostrorum regiminum primitus providentes, que impresentiarum provisione nostra circa iustitiam magis dignoscitur indigere", dichiarava, ad esempio, nel Proemio. Nella Const. I, 8, poi, affermava: "Pacis cultum, qui a iustitia et quo iustitia abesse non potest, per universas et singulas partes regni nostri precipimus observari", mentre nella I, 31 proclamava: "Oportet igitur Cesarem fore iustitie patrem et filium, dominum et ministrum, patrem et dominum in edendo iustitiam et editam conservando; sic et iustitiam venerando sit filius et ipsius copiam ministrando minister". E dedicava la I, 32 al "cultus iustitie", mentre nella Const. I, 33 affermava di aver tessuto "iustitie telam ordinarie" e di volerla usare arricchendola con "misericordie rivulis". L'inscindibilità del collegamento tra principe e giustizia proposta da Federico II venne subito colta dai commentatori del Liber Constitutionum. Andrea d'Isernia, ad esempio, affermava: "Princeps enim positus est ut faciat iustitiam et iudicium, id est iustum iudicium. Et ideo quando terminos justitie egreditur non dicitur Rex". Un rapporto, dunque, talmente simbiotico che un soggetto incapace di esercitare la giustizia non avrebbe potuto ricoprire la carica di monarca. E l'alto valore riconosciuto dal sovrano svevo alla giustizia regia è stato evidenziato anche dalla storiografia a noi contemporanea: basti qui ricordare il rilievo attribuito da Ernst H. Kantorowicz all'affermazione federiciana per la quale il principe è al contempo "filius", "pater" e "minister" della giustizia e l'importanza riconosciuta dal recente biografo di Federico II, David Abulafia, al "dovere di promuovere la iustitia" assunto dal monarca.
Per comprendere la natura e i contenuti della funzione di giustizia rivendicata per sé dal re svevo appare necessario lasciare da parte concetti e categorie giuridiche riguardanti gli ordinamenti statali odierni e riferirsi esclusivamente alla complessa realtà istituzionale del Regno siciliano nella prima metà del sec. XIII. Una realtà che si caratterizzava innanzi tutto per il fatto che la funzione di giustizia non era riservata al solo monarca, ma spettava anche a ciascuno dei tanti ordinamenti particolari vigenti nel Regno. I grandi signori fondiari, infatti, esercitavano la potestà bannale di giustizia nei riguardi degli abitanti del loro dominio; la Chiesa vantava non soltanto la giustizia signorile nelle terre che costituivano i benefici attribuiti alle dignità ecclesiastiche per l'esercizio del loro ministero, ma anche una competenza esclusiva sia su quanti appartenevano al clero (intuitupersonae), sia in materie temporali che, a suo giudizio, presentavano inscindibili connessioni con quelle spirituali (intuitu materiae).
I rapporti tra il signore e i suoi vassalli erano, poi, disciplinati dalle norme consuetudinarie che costituivano l'ordinamento feudale; infine, le comunità di centri abitativi grandi e piccoli, demaniali e signorili, avevano maturato propri usi la cui osservanza era garantita da corti di giustizia cittadina, necessariamente collegate con la potestà giurisdizionale del titolare ‒ il re nelle demaniali, il signore nelle signorili ‒ delle terre in cui le comunità stesse risiedevano. Ordinamenti particolari che garantivano la pace sociale e che, in quanto tali, il monarca svevo s'impegnava a rispettare e a tutelare sia nelle norme di diritto sostanziale, sia nelle forme di giustizia che ciascuno di loro aveva maturato. La giustizia unitaria del sovrano, allora, doveva necessariamente incontrarsi e armonizzarsi con quella degli ordinamenti particolari.
In questo quadro, l'ambito dell'intervento regio risulta chiaramente enunciato da Federico II nel passo del Proemio del Liber Constitutionum prima ricordato. "Principes gentium sunt creati, per quos posset licentia scelerum coherceri", dichiarava innanzi tutto il sovrano svevo, mettendo in primo piano la riserva regia di giurisdizione in campo penale. Sotto tale profilo il Regno di Sicilia vantava una lunga tradizione: nelle Assise di Ariano del 1140, infatti, il primo sovrano normanno, Ruggero II, nonno di Federico II, aveva assegnato alla propria esclusiva competenza un gruppo di reati particolarmente significativi per la pace e l'ordine interno e ne aveva affidato l'amministrazione ai giustizieri regionali e alla Magna Curia Regis. Una scelta politica, questa, che nel sec. XII venne adottata anche dall'altra monarchia normanna, quella inglese: la raccolta di consuetudini compilata in Inghilterra durante il regno di Enrico I (1100-1135) e nota con il titolo di Leges Henrici I attribuiva al solo monarca e alle sue corti la giurisdizione su alcuni crimini, sottraendola agli ordinamenti particolari. Riallacciandosi, dunque, a una consolidata tradizione e ampliando rispetto alle Assise di Ariano la riserva penale del monarca, Federico II definì nelle sue costituzioni i contenuti della giustizia penale riservata alla sua autorità. Proibì innanzi tutto la giustizia privata (I, 8), il duello (I, 44) ‒ ancorché con le eccezioni definite da II, 32 e II, 33 ‒, le guerre private e le rappresaglie (I, 9), nonché la detenzione e il porto d'armi da parte di quanti non appartenessero al ceto militare (I, 10; I, 11; I, 12). Inoltre, assegnò alla giustizia regia i reati contro la persona e la sacralità del sovrano, come la lesa maestà (Proemio e I, 44), la critica alle decisioni del monarca (I, 4), e le ingiurie rivolte ai componenti della Curia regis (I, 30); poi, i delitti contro la religione e il clero, quali l'eresia ‒ in particolare, la patarina ‒ (Proemio; I, 1; I, 2), l'apostasia (I, 3), il sacrilegio (I, 5), la bestemmia (III, 91), lo spergiuro (III, 90), la violazione di sepolcri (III, 93), il rapimento di monache (I, 20); infine, i reati comuni di usura (I, 6.1 e 2), di percosse (I, 13; I, 14), di ratto di vergini e vedove (I, 22.1), di violenza alle donne (I, 22.2; I, 44), alle meretrici (I, 21), di turbamento della pace sociale (I, 25; I, 26), di omicidio (I, 27; I, 28; III, 88; III, 89), di latrocinio e furto (I, 44), di violazione di case (I, 44), di incendio (I, 44; III, 87), di taglio di alberi da frutto e di viti (I, 44), di falsificazione di documenti (III, 61), di adulterazione di moneta (III, 62; III, 63), di falsa testimonianza (III, 65), di sottrazione di testamento (III, 66; III, 67), di veneficio (III, 69-73), di adulterio (III, 74; ma il marito che coglieva la moglie in flagranza di reato era legittimato a uccidere lei e il correo: III, 81), di vendita di uomo libero (III, 86), di gioco a dadi (III, 90). Si trattava, dunque, di un ampio settore della giustizia penale che lasciava alle corti degli ordinamenti particolari la sola competenza per i delitti minori. Era confermata la competenza dei giustizieri regionali per tali reati, compresa la lesa maestà che in età normanna era stata riservata ai maestri giustizieri centrali (I, 44), mentre la Magna Curia Regis era legittimata a intervenire per quest'ultimo crimine ove i giustizieri locali avessero mancato di esercitare la loro funzione (I, 38.2). Incaricati di fornire "consilium et auxilium" ai maestri camerari, ai baiuli e agli altri ufficiali regi del loro distretto (I, 57.2), i giustizieri erano tenuti a percorrere le località della regione loro affidata per amministrarvi la giustizia, sorvegliare direttamente il rispetto della pace (I, 52.1), promuovere inquisitiones (I, 53.1), adottare i provvedimenti necessari alla tutela dell'ordine pubblico (I, 53.2). I furti di lieve entità e le offese minori erano, poi, assegnati nelle città demaniali ai baiuli (I, 65).
L'enunciazione dei compiti primari dei prìncipi, fatta da Federico II nel Proemio, proseguiva, poi, come sappiamo, con il dovere di proteggere la Chiesa ‒ un dovere che comportava necessariamente il rispetto pieno e la tutela dei diritti di questa ‒ e con l'altro di conservare "iustitiam […] pro posse". E i contenuti di tale compito di giustizia del sovrano, che si affiancava al suo impegno in materia penale, appaiono di due tipi: quello che riguarda la sua potestà di guida di ordinamenti particolari, l'altro che si connette alla sua funzione di autorità unitaria del Regno.
Per quanto riguarda il primo, si deve tener presente che il re era titolare di un vasto patrimonio fondiario, diffuso in tutte le regioni meridionali, che costituiva il demanio e nel quale la sua autorità era di natura eminentemente signorile, sostanzialmente identica a quella riconosciuta a ogni signore nelle sue terre. La potestà di giustizia legata alla sua autorità signorile si esprimeva nella tutela del diritto consuetudinario che ogni comunità demaniale aveva maturato, con la sola eccezione ‒ di cui meglio parleremo in seguito ‒ degli usi abrogati dalle costituzioni regie. In termini chiari Federico II lo stabiliva nella nota costituzione Puritatem (I, 62.1), almeno nel testo a noi giunto, con la quale ordinava ai suoi magistrati di amministrare la giustizia "secundum constitutiones nostras et in defectu earum secundum consuetudines approbatas ac demum secundum iura communia, Langobardorum videlicet et Romanorum". La norma, sulla cui interpretazione hanno dibattuto generazioni di storici, è stata di recente giudicata da Wolfgang Stürner e da Ennio Cortese come non rientrante tra le leggi promulgate a Melfi, ma frutto di una successiva interpolazione. Essa, comunque, sembra riflettere la situazione affermatasi nel sec. XIII e, quindi, esprimere con ogni evidenza l'impegno del sovrano a rispettare il diritto consuetudinario delle varie comunità, integrato e corretto dalle leggi regie. L'amministrazione della giustizia signorile era affidata dal sovrano ai suoi magistrati locali: i camerari regionali, i baiuli e i giudici cittadini; a loro spettava l'esercizio della giustizia civile tra gli abitanti delle terre regie (I, 60.1; I, 65); i camerari conoscevano le vertenze per propria iniziativa, oppure dietro richiesta dei baiuli, oppure per mancata giustizia da parte di questi ultimi, oppure in qualità di giudici d'appello dalle sentenze loro e dei giudici cittadini e locali (I, 60.1). L'impegno di Federico II a conseguire il miglior funzionamento di tale aspetto della giustizia regia appare chiaramente espresso dalla costituzione I, 44 con la quale egli attribuiva ai giustizieri regionali ‒ che, come si è detto, erano i magistrati incaricati eminentemente della conoscenza dei reati riservati alla sfera esclusiva del monarca ‒ l'autorità di giudicare anche in materia civile per i casi di mancata giustizia da parte dei camerari e dei baiuli.
Oltre che titolare della signoria fondiaria sul vasto patrimonio demaniale, il sovrano siciliano era il suzerain feudale del suo Regno: era, cioè, il vertice della gerarchia feudale la quale vedeva al gradino immediatamente inferiore al re i tenentes in capite ‒ i vassalli che direttamente da lui avevano ricevuto l'infeudazione ‒ e a quello successivo i tenentes in servitio, coloro che dai tenentes in capite derivavano il loro beneficio. E in qualità di vertice dell'ordinamento vassallatico, il sovrano svevo amministrava parte della giustizia feudale. In particolare, la Magna Curia Regis aveva giurisdizione in merito alle vertenze relative ai feudi 'quaternati' (I, 40.2) ‒ quelli, cioè, iscritti nei registri (quaterni) della cancelleria regia ‒ mentre per gli altri feudi erano competenti i giustizieri regionali (I, 44).
Il secondo tipo di giustizia regia si collega alla funzione unitaria esercitata dal sovrano nel Regno. Tale giustizia si esprimeva in primo luogo nella tutela e nel rispetto degli ordinamenti particolari. Lo abbiamo detto prima: la pace interna dipendeva dall'osservanza del diritto spontaneamente maturato per via consuetudinaria nelle comunità del Regno e tale osservanza era garantita dall'attività delle corti di giustizia che ciascun ordinamento si era dato; il sovrano, allora, si proclamava difensore delle norme di diritto sostanziale e processuale vigenti nel Regno. Più volte Federico II lo dichiarò nel Liber Constitutionum. Nel Proemio egli ribadì i termini della disciplina dei rapporti tra costituzioni regie e consuetudini locali quali erano stati fissati da Ruggero II, ricorrendo, però, a espressioni più nette di quelle usate dal nonno: mentre, infatti, quest'ultimo aveva dichiarato nell'assisa De legum interpretatione la continuità degli usi e delle consuetudini locali purché non contrastassero "manifestissime" con le sue leggi, Federico in maniera più esplicita dispose che tali usi fossero abrogati. La sostanza, comunque, non mutava: tutte le consuetudini locali che disciplinavano materie non toccate dalle costituzioni regie erano confermate e tutelate in quanto diritto vigente, garanzia della pace sociale che il sovrano doveva assicurare al suo popolo. Inoltre, nella Const. I, 47, con la quale istituiva la corte dei pari per i giudizi riguardanti i tenentes in capite, il monarca disponeva che il maestro giustiziere e i suoi giudici "nobilibus, qui sententiam ferre debebunt, seriatim enuntient, ut sic antedicti comites et barones secundum sacras constitutiones nostras ac in defectu ipsarum secundum regni consuetudines approbatas et demum secundum iura, quibus constitutiones nostre et predecessorum nostrorum non obviant, […] causam secundum Deum et iustitiam sententialiter terminare procurent". Le consuetudini locali non contrastanti con le leggi del sovrano, dunque, erano fonte primaria di diritto, inserite al secondo posto, dopo le costituzioni regie, nella gerarchia indicata dal maestro giustiziere alla corte dei pari. La medesima gerarchia risulta, come sappiamo, anche nel testo a noi giunto della costituzione Puritatem (I, 62.1) di cui si è detto prima.
Federico II, peraltro, non si limitò a enunciazioni di principio, ma predispose anche strumenti atti ad assicurare in concreto la tutela dei diritti particolari. Tra i compiti assegnati alla Magna Curia Regis dalla Const. I, 38.2, infatti, si trova quello di ricevere le lagnanze delle varie comunità che denunciavano violazioni dei loro diritti tradizionali e di giudicare in merito ad esse; e sempre la medesima costituzione attribuiva alla suprema corte del re l'autorità di disporre inquisitiones nelle diverse regioni del Regno per verificare l'esistenza di abusi a danno delle comunità e di giudicare i risultati di dette inchieste. Nel dicembre 1233, poi, Federico II creò un nuovo strumento giudiziario per la tutela dei diritti locali. La costituzione, promulgata in quella data e inserita nel Liber Constitutionum tra le Extravagantes (E 2), dispose che due volte l'anno ‒ il 1o maggio e il 1o novembre ‒ si riunissero assemblee generali a Piazza Armerina per la Sicilia, a Cosenza per la Calabria, Terra Giordana e Valle di Crati, a Gravina per la Puglia, Capitanata e Basilicata, a Salerno per il Principato, Terra di Lavoro e Comitato del Molise, a Sulmona per l'Abruzzo: a dette assemblee dovevano partecipare quattro rappresentanti di ogni grande città, due rappresentanti di ogni città minore e di ogni castello, tutti i chierici e tutti i conti e baroni della regione, mentre il sovrano vi avrebbe inviato un proprio legato a latere, il quale sarebbe stato affiancato dai giustizieri della regione. Di queste curie regionali e del loro significato istituzionale si parla diffusamente nella voce Sicilia, Regno di, amministrazione della giustizia: basti qui sottolineare come la loro competenza riguardasse il giudizio sulle lamentele presentate dalle comunità in merito a violazioni dei loro diritti commesse da parte di magistrati provinciali regi. Con la loro istituzione, allora, il sovrano svevo dava vita a uno strumento di grande efficacia per la tutela dei diritti degli ordinamenti particolari.
La giustizia unitaria del sovrano, poi, si esprimeva nella sua funzione di giudice di appello. Tale funzione era esercitata dalla Magna Curia Regis (I, 38.2) e riguardava sia i magistrati regi, sia le corti di giustizia degli ordinamenti particolari. Nei confronti dei primi si esprimeva in due forme: da un lato come riesame dei provvedimenti giudiziari dei giudici locali, dall'altro come giudizio su vertenze sulle quali i giudici inferiori non si fossero pronunciati o avessero commesso errori, nei casi ‒ cioè ‒ di denegata o errata giustizia. Nei riguardi degli ordinamenti particolari, invece, la funzione di corte d'appello della Magna Curia Regis si esprimeva soltanto nella seconda delle due forme ora indicate, cioè solo nei casi di denegata o di errata giustizia. L'impegno del sovrano di rispettare gli ordinamenti particolari, infatti, non poteva limitarsi alle norme di diritto sostanziale, ma doveva necessariamente comprendere anche le forme di giustizia che quegli ordinamenti si davano per tutelare le loro norme: l'intervento regio, di conseguenza, non poteva essere che straordinario e verificarsi solo quando gli ordinari meccanismi di giustizia previsti dall'ordinamento particolare avessero mancato di funzionare.
Si deve ricordare, inoltre, che il monarca svevo, al pari degli altri sovrani medievali, si spostava frequentemente nelle varie regioni del Regno, seguito da una corte di fedeli: quando sostava presso una comunità, i componenti di questa potevano rivolgersi direttamente a lui per ottenere giustizia. Tale forma di ricorso al sovrano risulta comune a tutti gli ordinamenti monarchici medievali: meno diffuso nella prima metà del sec. XIII appare, invece, il privilegio riconosciuto nel Regno siciliano ad alcune miserabiles personae, cioè liberi non nobili, di essere giudicate nelle loro vertenze dalla Magna Curia Regis, privilegio di cui parla la Const. I, 38.2.
L'ultima forma della giustizia unitaria esercitata dal sovrano svevo consisteva, poi, nella promulgazione di leggi generali valide per l'intero territorio del Regno, per tutti i suoi abitanti. "Colendo iustitiam et iura condendo": con quest'attività bifronte il monarca svevo dichiarava nel Proemio il proprio impegno a guidare il popolo che Dio gli aveva concesso. E proseguiva affermando: "Cum igitur regnum Sicilie, nostre maiestatis hereditas pretiosa, plerumque propter imbecillitatis etatis nostre, plerumque etiam propter absentiam preteritarum turbationum incursibus extiterit hactenus lacessitum, dignum fore decrevimus ipsius quieti atque iustitie summo opere providere […]. Presentes igitur nostri nominis sanctiones in regno tantum Sicilie volumus obtinere, quas cassatis in regno predicto legibus et consuetudinibus hiis nostris constitutionibus adversantibus antiquatis inviolabiliter ab omnibus in futurum observari precipimus". Federico II, dunque, presentava la promulgazione delle leggi generali e la corrispondente abrogazione di usi e consuetudini, ormai superate o inique, come parte integrante della funzione di giustizia unitaria che costituiva l'essenza prima della potestà monarchica.
La natura della legislazione sveva, quale parte integrante della giustizia regia, è stata messa in evidenza già da Kantorowicz e ulteriormente sottolineata più di recente da Pietro Costa. Essa spiega l'espressione, sopra ricordata, usata da Federico II nel Proemio al LiberConstitutionum, con la quale il sovrano, oltre a "filius et minister iustitie", si proclamava anche "pater iustitie": il re non si limitava ad applicare il diritto nato prima e al di fuori di lui, ma anche lo creava in quanto "pater legis". Federico II dimostrava, allora, di aver pienamente recepito un'idea diffusa nella cultura giuridica del suo tempo e maturata nella scienza giuridica bolognese nel quadro della riflessione sul tema dei rapporti tra ius e aequitas. La certezza del diritto imponeva che trovassero applicazione le norme affermatesi per via consuetudinaria, norme che la dottrina giuridica cercava di inquadrare entro gli schemi e le categorie, rielaborati e aggiornati, offerti dal diritto giustinianeo. Ma alcuni usi risultavano legati a una cultura rozza e primitiva e si presentavano pertanto in contrasto con i principi di una giustizia superiore: in questi casi lo ius si contrapponeva all'aequitas, ponendo i giudici di fronte all'alternativa di applicare lo ius, rispettando il criterio della certezza del diritto ma ricorrendo a norme superate o contrarie alla propria coscienza, oppure l'aequitas, conseguendo una giustizia di sostanza ma non di forma. E la scienza giuridica aveva maturato la convinzione che l'unico dei tanti giudici attivi in un ordinamento unitario in grado di sanare l'antinomia fosse il monarca, il quale, attraverso le sue leggi generali, poteva abrogare gli usi iniqui e tradurre l'aequitas in ius. L'impegno del monarca nella tutela del diritto consuetudinario vigente trovava, allora, il proprio limite nella conformità di questo all'equità, mentre l'attività legislativa completava la missione di giustizia incarnata dal re, consentendogli di conseguire anche la giustizia sostanziale. Grazie alle sue leggi, il monarca riusciva ad assicurare quello "iustum iudicium" che Andrea d'Isernia indicava ‒ come abbiamo visto ‒ quale funzione primaria del principe.
L'intervento di Federico II nel diritto consuetudinario del Regno non si limitò alla disposizione generale per la quale tutti gli usi contrari alle sue costituzioni dovevano intendersi come abrogati, ma si espresse anche nella concreta disciplina di singoli casi in sostituzione di regole affermatesi nella tradizione. Così per quanto riguarda l'ordinamento feudale, il sovrano proibì innanzi tutto la cessione, parziale o totale, dei benefici senza la preventiva autorizzazione da parte del sovrano (III, 5.1). Inoltre vietò ai grandi feudatari di pretendere dai loro vassalli prestazioni più onerose di quelle consuetudinarie (III, 12). Infine, disciplinò la complessa materia successoria: abrogò la consuetudine affermatasi in alcune zone del Regno che escludeva le figlie dalla successione nei benefici vassallatici e stabilì che in caso di mancanza di figli maschi il feudo passasse alle figlie superstiti, con piena potestà se maggiorenni, con la guida di un tutore nominato dal sovrano se in età minorile (III, 26); dispose, poi, che figli e nipoti senza distinzione di sesso erano ammessi alla successione dei feudi in capite, che tra i collaterali non rientravano le sorelle del de cuius le quali si fossero sposate e avessero ricevuto la dote, che le figlie nubili rimaste nella casa paterna escludevano dall'eredità del genitore le sorelle coniugate e dotate, che nei feudi iureFrancorum le sorelle maggiori non dotate escludevano dalla successione paterna le minori, mentre per quelli iure Langobardorum l'eredità era divisa tra tutte le figlie, coniugate o nubili che fossero (III, 27). In merito agli ordinamenti municipali, Federico II abolì tutte le forme di governo cittadino che si avvicinavano a quelle dei comuni dell'Italia centrosettentrionale e stabilì che in ogni città operassero soltanto magistrati di nomina regia (I, 50), i quali portavano ovunque i titoli di giudici e di baiuli, con le eccezioni di Napoli dove agiva il compalazzo, di Messina e Salerno dove funzionavano stratigoti, di Palermo dove si trovava il pretore e di Bari dove esercitava il catapano. Infine, l'intervento legislativo di Federico II nell'ordinamento ecclesiastico si espresse nell'attribuzione alla giustizia penale riservata al monarca di reati tradizionalmente rientranti nella giurisdizione della Chiesa, quali l'eresia (I, 1; I, 2), l'apostasia (I, 3), il sacrilegio (I, 5), l'usura (I, 6.1 e 2), il rapimento di monache (I, 20), lo spergiuro (III, 90), la bestemmia (III, 91), la violazione di sepolcri (III, 93).
fonti e bibliografia
L'edizione del Liber Constitutionum qui usata è quella più recente curata da W. Stürner in M.G.H., Leges, Legum sectio IV: Constitutiones et acta publica imperatorum et regum, II, Supplementum, 1996: la numerazione delle costituzioni è, di conseguenza, quella indicata nella suddetta edizione.
Sul tema della giustizia regia in età sveva v. i lavori di E.H. Kantorowicz, I due corpi del re. L'idea di regalità nella teologia politica medievale, Torino 1989, in partic. pp. 84-90, e D. Abulafia, Federico II. Un imperatore medievale, ivi 1990, in partic. pp. 169-188.
Sul rapporto tra giustizia e legislazione si rinvia a P. Costa, Iurisdictio. Semantica del potere politico nella pubblicistica medievale (1100-1433), Milano 1969, pp. 148 ss., e a M. Caravale, Federico II legislatore. Per una revisione storiografica, in La monarchia meridionale. Istituzioni e dottrina giuridica dai Normanni ai Borboni, Roma-Bari 1998, pp. 137-166.
Restano fondamentali le monografie di P. Colliva, Ricerche sul principio di legalità nell'amministrazione del Regno di Sicilia al tempo di Federico II, I, Gli organi centrali e regionali, Milano 1964, e di E. Mazzarese Fardella, Aspetti dell'organizzazione amministrativa nello Stato normanno e svevo, ivi 1966.
Per completezza bibliografica si rinvia alla letteratura richiamata dalle opere ora ricordate e a quelle citate nella voce Sicilia, Regno di, amministrazione della giustizia di questa Enciclopedia.