Giustizia
di Mauro Barberis
Giustizia
sommario: 1. Introduzione. 2. Giustizia sociale. 3. Giustizia costituzionale. 4. Giustizia internazionale. 5. Conclusione. □ Bibliografia.
1. Introduzione
Al termine 'giustizia' vengono talvolta attribuiti due significati principali: il significato 'sociale', relativo alla distribuzione dei beni in una società (come nell'enunciato "la giustizia di uno Stato non si misura sulla base del suo prodotto interno lordo"), e il significato 'legale', relativo, direttamente, alla distribuzione di quei beni particolari che sono risarcimenti e pene, e, indirettamente, all'apparato giudiziale che gestisce quest'ultima distribuzione (come nell'enunciato "nel nostro paese, la crisi della giustizia sembra senza fine"). Tale distinzione fra giustizia sociale e giustizia legale, risalente ad Aristotele, è comunque abbastanza consolidata da spiegare perché anche l'Enciclopedia del Novecento abbia dedicato al termine 'giustizia' due diversi articoli: rispettivamente, giustizia (nel secondo senso del termine), nel vol. III, e teorie della giustizia (nel primo senso del termine), nel vol. X.
Talvolta si è proposto di ridurre la giustizia sociale a giustizia legale (v. sotto, cap. 2; v. anche Hayek, 1976); i maggiori teorici novecenteschi dell'etica (v. Hare, 1989; tr. it., 1994, p. 217) e della giustizia (v. Rawls, 1971; tr. it., pp. 264-265) sembrano peraltro pensare che, al contrario, della giustizia legale si possa parlare in termini di giustizia sociale. Proprio così procederà, comunque, questo (unico) aggiornamento di entrambe le voci sopra citate: aggiornamento che seguirà come filo conduttore i più recenti sviluppi della teoria della giustizia come equità ( fairness), elaborata da John Rawls con riferimento alla giustizia sociale (ibid., in particolare il cap. 2). I capitoli terzo e quarto verranno dedicati a due temi sempre più rilevanti anche per la giustizia strettamente legale: giustizia costituzionale e giustizia internazionale. La conclusione traccerà un rapido bilancio e qualche previsione per il futuro.
2. Giustizia sociale
Gli anni ottanta del Novecento, segnati dalle politiche economiche liberiste e dal crollo del comunismo, lasciano in eredità al decennio successivo un diffuso atteggiamento critico nei confronti della teoria della giustizia liberal, o progressista, proposta da Rawls in A theory of justice (1971). Tale teoria continua però a rappresentare l'autentico paradigma delle teorie della giustizia, che spesso ne proseguono la triplice svolta: dalla metaetica (la riflessione sui fondamenti dell'etica) all'etica normativa (la soluzione di problemi etici) o all'etica applicata (bioetica, etica degli affari, dell'ambiente, delle generazioni future, ecc.); dall'etica sostanziale (che assume valori e principî fondamentali come dati) all'etica procedurale (che li assume come costruiti, e giustificati, per mezzo di un'apposita procedura di scelta); dall'etica teleologica, o utilitaristica, o consequenzialistica, a un'etica deontologica, o neocontrattualistica.
Rawls, com'è noto, aveva proposto un contratto sociale incardinato su due principî - il principio dell'eguale libertà e il principio di differenza (cioè di ridistribuzione) - giustificati come prodotto di una scelta avvenuta in una situazione ideale (la "posizione originaria"), a sua volta caratterizzata da un velo di ignoranza sulla posizione che l'autore della scelta avrebbe occupato nella società da costituire; ignorando se gli sarebbero toccate in sorte ricchezza o povertà, gioventù o vecchiaia, salute o malattia, questi avrebbe scelto infallibilmente i principî più vantaggiosi per sé e per tutti. In realtà, tutta la teoria, procedura di scelta compresa, dipende dal previo rifiuto della "lotteria naturale" (v. Celano, 2000): Rawls non accetta che la distribuzione dei beni dipenda solo dal caso o, più specificamente, da quella variante del caso che è il mercato, come insieme di effetti inintenzionali di azioni intenzionali miranti ad altri scopi.
Proprio contro questo previo rifiuto della lotteria naturale, a ben vedere, si concentrano le due principali critiche esterne con le quali la teoria della giustizia di Rawls si confronta ancora all'inizio degli anni novanta. Da un lato, vi sono le critiche libertarian, liberiste o anarco-capitaliste, per le quali la giustizia sociale potrebbe e dovrebbe ridursi a giustizia legale, limitandosi a sanzionare la distribuzione dei beni già operata dal mercato (v. Epstein, 1995, pp. 317-320; v. anche Buchanan, 1975); dall'altro lato, vi sono le obiezioni communitarian, rivolte anzitutto contro la pretesa rawlsiana di elaborare una teoria della giustizia neutrale fra le diverse concezioni del bene (v. MacIntyre, 1988, tr. it., vol. II, pp. 8 e 156-157; v. Sandel, 1997).
Anche le obiezioni communitarian, peraltro, si rivolgono contro il rifiuto della lotteria naturale: in particolare, contro la decisione di astrarre, nella scelta dei principî di giustizia, da quegli ulteriori effetti inintenzionali dell'azione umana, costitutivi dell'identità individuale e di gruppo, che sono le tradizioni e le culture. Secondo i communitarians, una teoria della giustizia che pretenda di ignorare le identità dei soggetti cui si rivolge, come il liberalism rawlsiano, non farebbe altro che spacciare per universali alcuni tratti distintivi o idiosincratici della tradizione politica e della cultura occidentali: risultando già per questo inidonea a fronteggiare le sfide portate contro di essa dalle varie politiche 'multiculturali', 'del riconoscimento' o 'della differenza', tese a rivalutare i diritti delle culture contro i diritti degli individui (v. Ferrara, 1992).
Mentre alla sfida liberista i teorici della giustizia liberal spesso non si degnano quasi di rispondere (ma v. Van Parijs, 1992), alla sfida communitarian essi reagiscono soprattutto indebolendo e relativizzando le proprie posizioni: sino al punto di approdare, molto spesso, a una sorta di communitarian liberalism, o di liberalism 'multiculturalista' (v. Dworkin, 1989; v. Kymlicka, 1995; per una critica, v. Vitale, 2000; v. Barry, 2001). Di questo liberalism sempre più disposto a coniugarsi con le posizioni più distanti ed eterogenee, del resto, costituiscono altrettante varianti il repubblicanesimo di alcuni giuristi statunitensi (v. Michelman, 1988; v. Sunstein, 1997), molte correnti del femminismo (v. Pateman, 1988; v. Okin, 1989; v. Nussbaum, 1999), nonché lo stesso neocostituzionalismo dei teorici del diritto (v. sotto, cap. 3).
La critica più penetrante alla teoria della giustizia di Rawls, in effetti, non è esterna ma interna, e proviene dai saggi che lo stesso Rawls pubblica negli anni ottanta e poi rifonde in Political liberalism (1993). Il secondo Rawls - come si potrebbe chiamarlo opponendolo al primo, l'autore di A theory of justice - compie appunto questa operazione: distingue fra dottrine della giustizia comprensive (comprehensive) o metafisiche, relative all'intero ambito etico, religioso e filosofico, e concezioni della giustizia meramente politiche, cioè relative solamente a quel sotto-ambito dell'etica che è la politica; quindi, riformula la teoria della giustizia come equità elaborata negli anni settanta, trasformandola da dottrina liberal comprensiva a concezione meramente politica: una concezione sulla quale potrebbero concordare, cioè, anche i sostenitori di dottrine comprensive in conflitto.
Raccogliendo la sfida communitarian, in altri termini, il secondo Rawls riformula il proprio liberalism come una teoria valida non più sub specie aeternitatis, ma per le sole società occidentali moderne o contemporanee, caratterizzate da ciò che egli chiama il fatto del pluralismo: la divisione di tali società, almeno a partire dalle guerre di religione del Seicento, fra sostenitori di dottrine comprensive in conflitto (v. Rawls, Political liberalism, 1993, tr. it., pp. 12-15; v. Rawls, The law..., 1999, tr. it., pp. 198-202; ma v. anche Schmitt, 1929; per una 'storia' di più lungo periodo, v. Prodi, 2000). In tale contesto, il liberalismo non può più ambire a essere 'la' dottrina comprensiva della modernità: esso deve accontentarsi di rappresentare 'una' delle tante concezioni politiche che si disputano l'assenso di quanti aderiscono a dottrine comprensive confliggenti (v. Rawls, The law..., 1999; tr. it., pp. 238-239).
Da questa riformulazione della teoria della giustizia come equità, ribadita in Justice as fairness: a restatement (v. Rawls, 2001) scaturiscono nuove tesi: la concezione della ragione pubblica come discorso sulla giustizia prodotto pubblicamente, facendo appello a valori meramente politici, da soggetti istituzionalmente qualificati, ossia politici, legislatori e giudici; la distinzione fra 'ragionevole' e 'razionale' come atteggiamenti miranti, rispettivamente, a raggiungere il consenso degli altri consociati e la massimizzazione dell'utilità attesa; l'idea del consenso per intersezione (overlapping consensus), come adesione, da parte di fautori di dottrine comprensive divergenti, a un insieme di valori politici comuni. Ma soprattutto, la riformulazione della teoria della giustizia di Rawls produce l'incontro con le teorie continentali del diritto e della politica, come quella di Jürgen Habermas.
Partito dal marxismo e dalla sociologia della Scuola di Francoforte, passando per l'etica del discorso - una concezione della ragione come dialogo vincolato - Habermas (v., 1992) è definitivamente approdato al recupero e al ripensamento dei fondamenti della liberal-democrazia: ciò che determina il suo atteggiamento nei confronti della teoria della giustizia come equità, rispetto alla quale, come mostra anche una recente discussione (v. Habermas, 1995; v. Rawls, 1995), egli sembra avanzare soprattutto critiche interne. Comunque sia, sono ormai proprio Rawls e Habermas a rappresentare la corrente principale della teoria della giustizia contemporanea: corrente attorno alla quale si muovono autori europei e angloamericani che perseguono da decenni programmi di ricerca più esigenti, o meno ecumenici, di quelli dei capiscuola.
Si pensi alla teoria della giustizia come scambio di Otfried Höffe (v., 1987); al neocontrattualismo di Thomas Scanlon (v., 1998), che rinuncia al discusso artificio rawlsiano del velo di ignoranza; alla teoria della giustizia come imparzialità di Brian Barry (v., 1989 e 1995), critica contro i residui di utilitarismo presenti nel primo Rawls (per una obiezione, v. Raphael, 2001, pp. 220-230); alla teoria dell'eguaglianza di risorse di Ronald Dworkin (v., 2000); all'approccio delle capacità (capabilities) di Amartya Sen e Martha Nussbaum (v., 1993; v. Sen, 1999 e 2002), mirato ai problemi dei paesi in via di sviluppo e dell'emancipazione femminile; alla stessa teoria femminista della giustizia e del genere, le cui obiezioni hanno spinto l'ultimo Rawls a occuparsi di giustizia in seno alla famiglia (v. Rawls, The law..., 1999, tr. it., pp. 208-218, e 2001, tr. it., pp. 181-187).
3. Giustizia costituzionale
Se si astrae per un attimo dalla giustizia sociale e si concentra l'attenzione sulla giustizia legale - l'applicazione del diritto da parte dei giudici - la prima cosa che si constata è che negli anni novanta, in tutti i paesi occidentali, il ruolo del potere giudiziario ha continuato a crescere in almeno due direzioni. Da un lato, sul modello americano, la decisione di questioni giuridiche di rilevanza politica è stata sempre più spesso delegata a giudici, in particolare costituzionali, o almeno ad authorities imparziali. Dall'altro lato, specie nell'Europa latina, la magistratura è andata sempre più consapevolmente riappropriandosi di poteri di produzione normativa che il modello illuministico prima, rivoluzionario e napoleonico poi, le avevano sottratto; la magistratura penale, in particolare, è entrata in sempre nuovi e plateali conflitti col mondo politico (v. Pizzorno, 1998; v. Guarnieri, 2001; v. Robert e Cottino, 2001).
Anche per questo, mentre proseguivano le tradizionali discussioni sulle funzioni della pena e del risarcimento del danno - specie al fine di rispondere alle provocazioni avanzate negli anni ottanta dall'analisi economica del diritto (law and economics: v. Hierro, 2002) -, al centro dell'attenzione dei teorici del diritto si è posta quella peculiare forma di giustizia legale che è la giustizia costituzionale. Per un verso, il ruolo crescente giocato dal controllo di costituzionalità nei sistemi giuridici dell'Occidente ha ispirato teorie neocostituzionalistiche del diritto, che pretendono di superare la tradizionale alternativa fra giusnaturalismo e positivismo giuridico configurando i parametri di giustizia del diritto positivo in termini non più di diritto naturale, bensì di principî costituzionali (v. Ferrajoli, 1989; v. Alexy, 1992; v. Nino, 1994 e 1996; v. Dworkin, 1996).
Per altro verso, soprattutto negli Stati Uniti - dove le obiezioni al 'governo dei giudici' hanno ormai una lunga tradizione - è stata riproposta da più parti la cosiddetta 'obiezione contromaggioritaria': il potere dei giudici di disapplicare o di annullare la legislazione incostituzionale sarebbe incompatibile con la democrazia. La giustizia costituzionale sarebbe incompatibile con la democrazia, in particolare, non solo quando quest'ultima venga concepita come regola di maggioranza, ma anche quando la si ripensi come democrazia deliberativa, ossia come procedura di formazione di una volontà collettiva che non esiste prima di, e indipendentemente da, una deliberazione (v. Nino, 1996, pp. 187-216; v. Gargarella, 1996). Fra i molti argomenti elaborati negli ultimi anni per superare tale obiezione, merita di essere citato almeno l'argomento del vincolo preventivo (precommitment, precompromiso).
Proprio come Ulisse si sarebbe comportato razionalmente legandosi all'albero della nave per poter ascoltare impunemente il canto delle Sirene, così si comporterebbero razionalmente i cittadini titolari del potere costituente quando legano le mani a se stessi e ai propri discendenti tramite una costituzione o istituti come il controllo di costituzionalità (v. Holmes, 1988; v. Moreso, 1997). In almeno un caso (v. Freeman, 1990-1991) questa strategia argomentativa si rifà esplicitamente a Rawls; questi, negli anni novanta, è andato configurando sempre più chiaramente la Corte Suprema statunitense, e più in generale le corti costituzionali, come foro pubblico di principio (public forum of principle: v. Rawls, 2001; tr. it., pp. 163-164): un'istituzione indispensabile ad alimentare e a far progredire la discussione pubblica intorno ai grandi temi etici.
Questa idea, condivisa anche da Habermas (v., 1992; tr. it., p. 328), documenta un cambiamento nella percezione delle connotazioni politiche della giurisdizione da parte dei teorici liberal. Tradizionalmente considerata come strumento di conservazione, e proprio perciò apprezzata da autori liberisti o di destra, la giurisdizione è stata sempre più spesso percepita, sia negli Stati Uniti, sia nei paesi latini del Vecchio Continente, come un'alternativa più 'illuminata' rispetto alle decisioni di maggioranze elettorali inerti o manipolate, e di maggioranze parlamentari spesso non più 'illuminate' di quelle elettorali. Il problema è peraltro che questa percezione 'progressista' della giurisdizione non riflette solo l'esigenza strutturale di limitare il potere, ma anche l'esigenza - contingente - di contrastare poteri sempre più sfuggenti ai normali controlli democratici.
4. Giustizia internazionale
Sul piano internazionale, gli anni novanta hanno visto la dissoluzione di Stati multinazionali come l'Unione Sovietica e la Iugoslavia, la fine della divisione del mondo in due blocchi, l'aggravamento di problemi come l'inquinamento, l'esaurimento delle risorse, i flussi migratori da regioni più povere verso regioni più ricche; ma soprattutto hanno visto quel fenomeno epocale che è la globalizzazione dell'economia e dell'informazione. Di fronte a tutte queste sfide, la risposta è consistita soprattutto nel tentativo da parte dell'unica superpotenza rimasta, gli Stati Uniti, di sostituirsi all'Organizzazione delle Nazioni Unite nella gestione dei problemi e dei conflitti: con una prosecuzione della tradizionale politica 'realistica' nelle vesti dell'interventismo umanitario prima, della lotta al terrorismo poi. In realtà, si tratta di fenomeni che richiedono istituzioni sovranazionali e una teoria della giustizia internazionale, globale, o 'senza frontiere' (v. Sen, 2002, pp. 29-49; v. Veca, 2002).
Sul piano dottrinale, in effetti, pare aver avuto successo il tentativo (v. Beitz, 1979; v. Pogge, 1989, pp. 211 ss.) di sostituire allo studio 'realistico' della politica internazionale un approccio normativo più rawlsiano di Rawls. Nella consapevolezza della difficoltà di applicare a relazioni fra Stati una teoria pensata per relazioni interne agli Stati, il primo Rawls (v., 1971; tr. it., pp. 313-314) faceva solo un accenno alla possibile estensione della teoria della giustizia all'arena internazionale; la stessa teoria della giustizia internazionale avanzata dall'ultimo Rawls - prima nella Amnesty lecture intitolata Law of peoples (v. Rawls, The law..., 1993), poi nel volume omonimo (v. Rawls, 1999) - costituisce una riformulazione piuttosto che un'estensione della teoria della giustizia 'interna': riformulazione molto più cauta e 'realistica' dei tentativi di estensione operati dagli allievi di Rawls.
Nella riformulazione rawlsiana, in effetti, la teoria della giustizia come equità finisce per atteggiarsi a 'utopia realistica': mentre sulla scena nazionale la teoria doveva confrontarsi solo con il pluralismo (v. cap. 2), sulla scena internazionale essa deve fare i conti con il problema della convivenza pacifica fra popoli liberali ragionevoli - di fatto, le liberal-democrazie occidentali - e società di altro tipo, compresi i cosiddetti 'Stati-canaglia'. Realisticamente, dunque, Rawls ritiene che un contratto sociale internazionale possa legare fra loro solo popoli liberali e popoli cosiddetti 'decenti' (in un senso parzialmente diverso da quello dato all'aggettivo da Margalit: v., 1996): di fatto, le potenze occidentali e quei paesi moderati, soprattutto del mondo islamico, che nel gergo rawlsiano diventano appunto popoli "ragionevoli", o "decenti", o "bene ordinati".
I rappresentanti di tali popoli, messi nella posizione originaria e sottoposti al velo di ignoranza, produrrebbero otto principî di giustizia internazionale: 1) libertà e indipendenza di tutti i popoli; 2) rispetto dei trattati; 3) uguaglianza dei popoli e loro partecipazione agli accordi che li vincolano; 4) dovere di non-intervento bellico; 5) diritto alla guerra difensiva, e solo a essa; 6) rispetto dei diritti umani; 7) rispetto dello ius in bello; 8) dovere di assistenza verso altri popoli perché si diano un regime sociale o politico giusto, o almeno decente. Sulla scorta di Kant, Rawls si spinge a immaginare una federazione di Stati (v. Rawls, The law..., 1999; tr. it., pp. 46-48): non, però, quella ridistribuzione delle risorse a favore dei paesi poveri che sarebbe richiesta dall'estensione all'arena internazionale del principio di differenza (v. Pogge, 1994). Come i liberali ottocenteschi, Rawls sembra scommettere su istituzioni politiche giuste come soluzione di ogni altro problema.
5. Conclusione
Se gli anni settanta hanno conosciuto l'imperialismo della politica e gli ottanta l'imperialismo dell'economia, gli anni novanta sono stati per più versi gli anni dell'imperialismo della morale (v. Nino, 1994, pp. 67-69): al successo di partiti o coalizioni liberal in politica interna, in effetti, ha fatto da contrappunto l'interventismo cosiddetto 'umanitario' in politica estera. Questo ritorno della morale, sia sulla scena interna, sia su quella internazionale, ha concorso a far apparire unilaterali, riduzionistiche e comunque superate le tradizioni di ricerca più vicine alle scienze sociali (marxismo, utilitarismo, analisi economica del diritto): ciò ha prodotto, da un lato, e per reazione, la ripresa di approcci più vicini alle scienze naturali (sociobiologia, evoluzionismo), dall'altro, e più conseguentemente, approcci sempre meno economicistici e sempre più deontologici, come quello del secondo Rawls e dei suoi infiniti critici ed epigoni.
In realtà, la proliferazione delle etiche applicate e le stesse difficoltà incontrate dalla teoria della giustizia di Rawls nella sua applicazione all'arena internazionale (v. Buchanan, 2000; v. Veca, 2002) lasciano pensare che il futuro non sia più di concezioni generalissime e decontestualizzate, com'era originariamente la stessa teoria della giustizia come equità, ma di concezioni sempre più particolari e contestualizzate, elaborate a partire dai problemi concreti e solo in seguito, semmai, coordinate sistematicamente. Della teoria della giustizia (sociale e legale) nel Duemila, in effetti, si può immaginare solo quanto già oggi si vede: l'accelerazione del tempo storico manifestatasi alla fine del Novecento, in effetti, non rende solo obsoleta qualsiasi tradizionale filosofia della storia, ma fa inoltre diventare poco plausibili previsioni a lunga o anche solo a media scadenza.
Il problema maggiore, come si è detto, è la globalizzazione, rispetto alla quale i vari localismi degli anni novanta costituiscono una reazione, non una soluzione. Se vorrà restare all'altezza dei problemi posti dalla globalizzazione, la teoria della giustizia non potrà certo accontentarsi, à la Rawls, di proporre soluzioni istituzionali tali da assicurare la pacifica convivenza fra nazioni e culture: anche se è questo il compito più urgente. In realtà, le teorie della giustizia del Duemila - per indicare solo i compiti più ovvi - dovranno occuparsi seriamente della ridistribuzione planetaria di risorse sempre più scarse, prima fra tutte la sicurezza individuale e collettiva, e confrontarsi da presso con i problemi bioetici posti dallo sviluppo della scienza e della tecnologia: in poche parole, dovranno guardare in modo più lungimirante e compassionevole alle sorti del pianeta e dei suoi abitanti.
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