MENABUOI, Giusto
de’. – Figlio di Giovanni nacque a Firenze in data ignota, ma da collocarsi verosimilmente nel terzo decennio del Trecento, secondo quanto è possibile inferire dalla cronologia dei primi fatti certi della sua carriera, situabili verso la fine degli anni Quaranta. L’origine fiorentina del pittore è attestata da un documento padovano del 1375, che ne certifica la provenienza dalla città toscana, facendo altresì menzione del nome del padre (Kohl, p. 23).
Anche le circostanze del suo apprendistato sono sconosciute.
La prima attività nota del M. si svolse a Milano e nel suo territorio; ma la cultura figurativa di cui è permeata la sua produzione lombarda, peraltro sostanzialmente già matura, presenta elementi desunti dalla pittura toscana ma anche dagli affreschi di Giotto nella cappella degli Scrovegni a Padova, fatto quest’ultimo che ha indotto a considerare l’eventualità di un precoce soggiorno padovano del Menabuoi. È opinione largamente condivisa, comunque, almeno negli studi più recenti, che egli dovette ricevere una formazione fiorentina, sebbene nessuno dei nomi congetturati nel tempo in rapporto al problema del maestro del M. (Taddeo Gaddi, Bernardo Daddi, persino Giotto), si sia rivelato pienamente convincente al fine di sciogliere la questione. D’altra parte, come risulta dall’analisi della tecnica e di certi schemi iconografici dei lavori iniziali, è probabile che il M. avesse intrapreso il percorso artistico accanto ai pittori appartenenti alla seconda generazione dei giotteschi, con i quali condivise vari aspetti stilistici oltre alla pratica di preparazione delle tavole.
In ogni caso, un solo dipinto è stato riferito al possibile periodo toscano del M., benché in forma molto dubitativa (Boskovits, pp. 29 s.). Si tratta di una tavola raffigurante una Madonna col Bambino in trono, santi e angeli, conservata al Museo di belle arti di Budapest.
L’opera (con ogni probabilità scomparto sinistro di un dittico, come si ricava dalla presenza dell’Angelo annunciante nella parte superiore della cornice cuspidata) reca la data 1345 sul basamento del trono. La cauta congettura attributiva si fonda sul rilevamento di una discreta somiglianza con un altro dipinto assegnato al M. (Di Carpegna, pp. 83 s.), la Madonna che compare nello scomparto centrale della cassetta reliquiario in forma di trittico conservata presso l’abbazia di Montecassino, ma di provenienza ignota e di datazione molto più avanzata, collocabile verosimilmente nel periodo padovano, intorno alla metà degli anni Settanta, almeno secondo l’ipotesi più diffusa. Le analogie riscontrate, tuttavia, non sembrano essere sufficienti per risolvere la questione dell’autografia della tavola di Budapest, come riconosce lo stesso Boskovits (p. 30); e del resto l’esame stilistico condotto sull’opera non propone alcun confronto decisivo con i dipinti sicuri del catalogo del Menabuoi. L’attività fiorentina, pertanto, se mai c’è stata, rimane per il momento solo oggetto di supposizioni.
Verso la seconda metà del quinto decennio, come sostiene l’ipotesi più attendibile, il M. si sarebbe trasferito in Lombardia; tuttavia, mancano riscontri documentari a corroborare l’assunto.
Al M. è attribuita quasi unanimemente una serie di lavori eseguiti a fresco per l’Ordine degli umiliati in S. Maria di Brera a Milano e nella chiesa abbaziale di Viboldone. Quanto alla datazione, invece, sono state formulate proposte molto diverse, che oscillano tra il probabile momento dell’arrivo del M. nelle terre lombarde e gli anni Sessanta.
Secondo la persuasiva indagine di Flores D’Arcais (Giusto a Viboldone, p. 508), gli affreschi milanesi (ora Milano, Accademia di belle arti di Brera) sono da ascrivere al 1348 e da considerare molto probabilmente la prima opera lombarda del Menabuoi. Stando alla ricostruzione prevalente, dunque, in S. Maria di Brera egli rappresentò entro spazi polilobati otto Santi della Chiesa milanese, raffigurati in uno dei sottarchi della campata antistante la cappella sinistra del presbiterio. I dipinti braidensi presentano alcuni degli elementi distintivi della prima maniera del M., come la considerevole ricerca di effetti tridimensionali e una tavolozza molto ricca e caratterizzata dalla predilezione per le tonalità chiare, vera e propria cifra ricorrente almeno fino alla decorazione del battistero padovano.
A Viboldone, una serie di stringenti somiglianze formali con diverse opere della sua produzione ha permesso di assegnare al M. il Giudizio universale raffigurato nel cosiddetto «tiburio» della chiesa abbaziale, sebbene si tratti in realtà, come ha chiarito Flores D’Arcais (ibid., p. 509), della campata antistante la zona absidale. Il Giudizio si snoda su tre delle pareti del tiburio. In quella centrale è raffigurato il Cristo Giudice che separa gli eletti dai dannati; nelle due laterali si trovano, nel registro superiore, oltre agli Apostoli in trono, S. Giovanni Battista seguito dai Patriarchi e Maria seguita da S. Anna e dalle Vergini coronate di rose; in quello inferiore sono rappresentati i Dottori della Chiesa. Nei pennacchi, infine, il M. dipinse gli Evangelisti. Rispetto alla cronologia dei lavori, non si dispone di elementi decisivi per fissare con certezza la data di esecuzione. L’ipotesi maggiormente accreditabile pone la stesura degli affreschi intorno al 1349, anno in cui fu di certo terminata la decorazione (Madonna in trono col Bambino, i ss. Michele, Giovanni Battista, Nicola (?), Bernardo e un donatore) della parete antistante a quella del Giudizio da parte del cosiddetto Maestro della Lunetta del 1349, che lavorò con il M. anche in S. Maria di Brera, dipingendovi otto busti di Profeti. Diversi elementi compositivi e iconografici dell’opera del M., a partire dalla figura del Cristo giudice, costituiscono derivazioni puntuali dal Giudizio universale realizzato da Giotto nella cappella degli Scrovegni, attestando quella conoscenza del capolavoro giottesco da parte del M. sulla quale si fonda la già accennata congettura di un suo viaggio giovanile a Padova. Inoltre, come già aveva riconosciuto M. Gregori (p. 14), l’architettura degli scranni su cui siedono i Dottori della Chiesa presenta chiare matrici toscane, costituendo una sia pur labile testimonianza del probabile tirocinio fiorentino del Menabuoi. Sul piano strettamente pittorico tornano a emergere, in questi affreschi, i tratti caratterizzanti le opere in S. Maria di Brera, cui si aggiungono la tendenza a fare largo uso delle trasparenze del colore e la ricerca di una pronunciata morbidezza degli incarnati. La stessa Gregori (pp. 9-12), sulla scorta di interessanti raffronti con il Giudizio universale, aveva proposto di riconoscere l’autografia del M. anche nei deperiti resti degli affreschi nella prima campata della navata sinistra, dei quali sono ancora riconoscibili taluni Episodi della Genesi (storie di Noè, di Isacco e di Giacobbe) sulla volta e una Madonna in trono e santi su una delle lunette. Tali lavori manifestano un orizzonte di riferimenti figurativi riconducibile all’area toscana, soprattutto per ciò che concerne la costruzione degli spazi, e mostrano varie somiglianze con diverse opere successive del M., che legittimano, sia pure senza verificarla, la supposizione attributiva. Flores D’Arcais (Giusto a Viboldone, pp. 511 s.), infine, gli ha assegnato una figura identificata come Adamo, raffigurata in una finta apertura all’angolo inferiore sinistro della lunetta con la Crocifissione nella parete ovest della terza campata, adiacente al cosiddetto tiburio. La studiosa, nel quadro di una rigorosa riconsiderazione generale delle pitture della chiesa abbaziale, è giunta a ipotizzare, in modo convincente, un ruolo molto più ampio e significativo del M. (e della sua bottega) nel contesto delle decorazioni di Viboldone.
L’attribuzione dell’Adamo, cui si deve associare la simmetrica rappresentazione di Eva, si basa su un paragone ben delineato con lo stile di alcune figure del polittico, oggi smembrato, che il M. completò nel marzo del 1363 per suor Isotta Terzaghi, appartenente a una ricca famiglia di mercanti milanesi.
Lo scomparto centrale dell’opera, firmato e datato, raffigura la Vergine in trono col Bambino, la committente e un’altra donatrice; già in collezione Schiff, esso è oggi conservato nel Museo di S. Matteo a Pisa. I pannelli laterali, ascritti al M. da Longhi (1947) e mai più messi in discussione nella letteratura successiva, rappresentano S. Antonio Abate, S. Tommaso d’Aquino, S. Giovanni Battista, S. Caterina, S. Paolo e S. Agostino e sono custoditi ad Athens, presso il Museum of art dell’Università della Georgia (Kress Collection). Lo stesso Longhi (ibid., p. 82, figg. 76-78; 1957), inoltre, considerava facenti parte probabilmente del registro superiore del polittico Terzaghi anche una S. Cecilia e un S. Ambrogio e sei tondi con Busti di santi, tutti in collezioni private. Il dipinto, specie nella Madonna col Bambino, presenta un modulo compositivo di provenienza toscana, che sarà riutilizzato con leggere variazioni anche durante l’ultimo periodo; i ritocchi che hanno interessato la tavola principale, tuttavia, rendono disagevole un’analisi articolata. Ciò, comunque, non ha impedito alla critica di rilevare analogie, talvolta piuttosto forzate, con diversi artisti (Giotto, Guariento e persino Giottino), si direbbe più per corroborare le varie ipotesi relative alla formazione del M. che non sulla base di accurati esami morfologici. A ogni modo, un confronto che pare reggere meglio di altri è quello con le Madonne di Giovanni da Milano, strutturate secondo schemi tutto sommato simili, senza che ciò, tuttavia, possa costituire un appiglio significativo per dimostrare una qualche forma di frequentazione fra i due, come pure è stato più volte supposto.
Al 1367, come attesta un’iscrizione sullo scomparto centrale («Justus pinxit in Mediol[ano]»), risale l’ultimo lavoro milanese noto del M., vale a dire un piccolo tabernacolo conservato alla National Gallery di Londra.
Il dipinto presenta al centro l’Incoronazione della Vergine; negli scomparti interni dei pannelli laterali sono raffigurate la Natività di Cristo e la Crocifissione, sormontate rispettivamente dall’Angelo annunciante e da Maria annunciata; all’esterno, a scomparti chiusi, sono raffigurati episodi della Vita della Vergine (Gioacchino cacciato dal tempio, Incontro alla porta Aurea, Presentazione di Maria al tempio nella tavola di sinistra; Annuncio a Gioacchino, Natività della Vergine, Sposalizio di Maria in quella di destra). L’Incoronazione è caratterizzata dalla geometrica e piuttosto precoce prospettiva del pavimento, capace di creare un potente effetto di profondità, che viene sottolineato anche dalla scalata disposizione dei Santi in primo piano. La razionale articolazione dello spazio, contraddetta solo dall’ordinamento della pedana del trono, interessa poi le forme gotiche dell’architettura, le cui ombre contribuiscono a delineare l’illusione della tridimensionalità. Il M., in questa occasione, diede segno inequivocabile dell’aggiornamento sulle ricerche spaziali più avanzate del tempo, mostrando nuovamente un preciso interesse per gli affreschi padovani di Giotto. Derivazioni precise provengono, infatti, dalla Cacciata di Gioacchino dal tempio e dal Sogno di Gioacchino, di cui le scene del M. rappresentano libere interpretazioni; mentre risultano più generici i riferimenti ad altri riquadri giotteschi.
Verso il 1370 il M. emigrò a Padova, dove si svolse l’ultima parte della sua carriera: in quell’anno, come si ricava da un passo di Michiel, realizzò ad affresco la decorazione della cappella Cortellieri nella chiesa degli Eremitani.
Dell’originale sistema figurativo, che comprendeva molto probabilmente anche una celebrazione di S. Agostino, secondo quanto è possibile desumere dalla stessa fonte, rimangono parzialmente leggibili sulle pareti undici figure di Virtù e Arti liberali e nel sottarco S. Giovanni Battista e i Santi protettori della città. Le figure femminili, collocate entro finte nicchie, sono contrassegnate da un impianto monumentale, peraltro ricorrente nella pittura del M., ed esibiscono tutto il repertorio di colori dalla sofisticata luminosità sul quale il M. aveva impostato una delle cifre del suo stile già negli anni lombardi. Il M. ricevette l’incarico da Traversina Cortellieri, madre di Tebaldo, giurista e studioso al servizio di Francesco da Carrara il Vecchio, signore di Padova. L’ambito culturale da cui proveniva tale commissione, progettata per celebrare la memoria del famoso uomo di legge, dimostra che, fin dal suo arrivo nei territori veneti, il M. intrattenne rapporti stretti con l’ambiente della corte padovana, riscuotendo già con le prime opere un successo tale da farlo diventare in breve tempo il pittore «ufficiale» dei Carraresi.
Nel 1372 eseguì alcuni affreschi, ridotti oggi allo stato di lacerti, nella chiesa dei Servi, che era stata fatta edificare da Fina Buzzacarini, moglie di Francesco da Carrara (Bellinati, 1988, p. 171).
Il 13 ott. 1373 (Kohl, pp. 14, 23) il M. ricevette dagli eredi di Enrico Spisser, nobile capitano tedesco che aveva combattuto per i Carraresi, il pagamento di 60 ducati per una Madonna col Bambino in trono, santi e un donatore (probabilmente un ritratto di Spisser).
Il dipinto fu eseguito su una parete della cappella dei Ss. Cosma e Damiano (poi Sanguinacci) nella chiesa degli Eremitani, destinata ad accogliere le spoglie del soldato.
Molto vicina all’opera realizzata per gli Spisser sotto il profilo stilistico, e perciò verosimilmente collocabile in prossimità cronologica con essa, è la Madonna col Bambino che il M. dipinse in una nicchia dell’abside della cappella degli Scrovegni.
La posa della Vergine replica in sostanza quella della Madonna Terzaghi; mentre il viso di Maria presenta un contorno leggermente più tondeggiante, assumendo la fisionomia tipica dei volti della sua produzione padovana.
Forse ai primi anni padovani risale anche la decorazione della tomba Da Vigonza nella basilica di S. Antonio, se si accoglie la plausibile ancorché non risolutiva ipotesi di Flores D’Arcais (1988, p. 60) che sottolinea la vicinanza con i dipinti della cappella Cortellieri, contro la tradizionale datazione intorno al 1380.
Nello spazio soprastante il sepolcro sono affrescati l’Incoronazione della Vergine con santi e angeli e i Ritratti di Niccolò e Bolzanello da Vigonza; nel sottarco, invece, il M. dipinse busti di Profeti, mentre sulla facciata esterna dell’arco eseguì un’Annunciazione. La scena principale si distingue per la notevole luminosità dei toni con i quali sono definite le vesti del Cristo e di Maria e per la raffinatezza del grande trono dalle forme e dagli ornamenti gotici.
Da un pagamento ricevuto dai francescani di Gurgo e registrato il 26 apr. 1375 (Kohl, p. 23) risulta che a quella data il M. dimorava nel centro di Padova, in contrada Scalona, e che aveva ottenuto la cittadinanza per decreto di Francesco da Carrara, segno tangibile del favore da lui incontrato presso la corte.
Del tutto verosimilmente nella prima metà degli anni Settanta il M. fu incaricato di decorare il battistero padovano da Fina Buzzacarini, che intendeva fare dell’edificio un mausoleo per sé e per il marito. Sebbene non si conoscano con certezza gli estremi cronologici dell’intervento del M., è ragionevole ritenere che nel 1378, anno della morte di Fina, i lavori fossero terminati. Nel testamento della committente, infatti, che indica esplicitamente il battistero come suo luogo di sepoltura, non si fa alcun riferimento alla decorazione pittorica o alle spese sostenute per essa: ciò lascia supporre che, all’epoca, il M. avesse già completato l’opera (Bettini, 1944, p. 17).
Nella complessa partitura degli affreschi si articolano Scene dell’Antico e del Nuovo Testamento. La cupola ospita una raffigurazione del Paradiso composta da schiere di angeli e beati, accostati e quasi indistinti, disposti in cerchi concentrici che si allineano con ritmo regolare attorno all’iride centrale con il Cristo Pantocrator e alla mandorla con la Vergine. Nel tamburo sono invece illustrati episodi tratti dai primi 37 capitoli del libro della Genesi; mentre sulle vele il M. dipinse gli Evangelisti e otto Profeti. Sulle pareti campeggiano, scandite in riquadri, le Storie di Maria, di Giovanni Battista e del Cristo e completano il ciclo le Scene dell’Apocalisse nell’absidiola e, sulla parete opposta, la Madonna col Bambino in trono e santi, vero e proprio dipinto votivo in cui viene ritratta Fina Buzzacarini in adorazione della Vergine. Con buona probabilità, inoltre, la committente è riconoscibile anche in uno dei personaggi femminili raffigurati nella scena della Nascita del Battista. Del resto, le storie parietali sono costellate di figure dalle fisionomie non convenzionali, che ritraggono verosimilmente membri dell’entourage dei Carraresi. La grandiosa decorazione, dislocata praticamente su ogni superficie disponibile, si caratterizza sul piano stilistico principalmente per due elementi: la qualità assai raffinata del colore e la costante ricerca di verosimili soluzioni spaziali nella composizione soprattutto degli interni. Quanto alle soluzioni cromatiche, le pitture murali del battistero esibiscono una pregevole ricchezza delle tonalità e una chiara trasparenza delle tinte, che contribuiscono a impreziosire l’effetto ornamentale dell’apparato figurativo nel suo insieme. Dal punto di vista della rappresentazione dello spazio, invece, le pareti, in particolare, presentano una sequenza di riuscite invenzioni nella definizione degli ambienti entro i quali si svolge la narrazione per immagini. Il M. riuscì a organizzare una quasi sempre razionale proporzione tra figure e architetture, ottenendo generalmente risultati di calibrata distribuzione dei personaggi nei riquadri e di discreto realismo nella figurazione della profondità, spesso accentuata dagli scorci dei pavimenti e degli elementi architettonici, come nel caso dell’Annunciazione, posta al di sopra del già ricordato «dipinto votivo». In rapporto a quest’ultimo punto, in particolare, risulta significativa l’idea più volte impiegata (per esempio: Zaccaria al tempio, Imposizione del nome al Battista, Presentazione della testa del Battista a Erode, Cristo fra i dottori, Cristo davanti a Pilato) delle arcate che scandiscono i piani dello spazio architettonico, generando una serie di efficaci illusionismi rafforzati anche dalle diverse figure rappresentate in scorcio. Nel complesso, comunque, l’impresa del M. presenta una maniera decisamente personale, segnata, soprattutto per quanto riguarda le figure, da formule in certa misura arcaizzanti rispetto alle tendenze che si andavano affermando nel contesto della coeva cultura figurativa padovana. In effetti, mentre Iacopo Avanzi e soprattutto Altichiero, nella quasi contemporanea decorazione della cappella di S. Giacomo al Santo, elaboravano una pittura fortemente improntata al realismo, evidente nella profusione di dettagli fisionomici, nell’orchestrazione di una gestualità sempre naturalistica, nella rappresentazione di movimenti fluidi e nella sapiente regia dei rapporti prossemici all’interno delle scene di massa, il M. propose nel battistero un ventaglio di soluzioni più legate alla tradizione. Lo si riscontra agevolmente, per esempio, proprio nella figurazione dei corpi, caratterizzati da una solida volumetria di evidente estrazione giottesca, ma dalle forme tendenzialmente semplificate, ridotte non di rado all’essenzialità di strutture geometriche, che viene echeggiata anche nei panneggi, in genere abbastanza «statici». Il singolare arcaismo del M. si manifesta del resto, oltre che nella schematicità dell’impaginato di molte storie, nella rappresentazione stereotipata dei volti, che risulta essere piuttosto monotona specie se confrontata con il vasto repertorio di Altichiero, e delle espressioni, qualificate da una ricorrente fissità. Inoltre, negli episodi in cui il M. dovette cimentarsi con l’interazione di nutriti gruppi di personaggi (per esempio, nella Strage degli Innocenti o nella monumentale Crocifissione), l’allestimento appare debole in confronto a quello messo in scena dagli illustri colleghi operanti presso la basilica di S. Antonio, perché realizzato ammassando semplicemente le figure piuttosto che coordinandone i rapporti di spazio e movimento, con esiti invero più ornamentali che narrativi. A ogni modo, tutta la letteratura specialistica è concorde nell’osservare una rilevante omogeneità dal punto di vista qualitativo nell’esecuzione delle ampie superfici e tende a interpretare il fatto come segno del controllo severo e costante del M. sugli interventi dei più che probabili collaboratori. Peraltro, proprio a causa dell’uniformità generale degli affreschi, è stato possibile isolare il contributo significativo di una mano diversa da quella del maestro solo nelle Scene dell’Apocalisse. Nel contesto della decorazione del battistero il M. realizzò anche un polittico a quattro registri sovrapposti, raffigurante la Madonna col Bambino in trono al centro, Storie del Battista negli scomparti laterali, Santi in quelli superiori e nella predella, in cui sono presenti anche sei figure di Beati; a completare la decorazione il M. dipinse il Battesimo di Cristo e la Pietà, rispettivamente al di sopra e al di sotto della tavola principale. L’opera, collocata sull’altare del mausoleo di Fina e Francesco il Vecchio, è databile agli stessi anni degli affreschi e ripropone, nelle scene narrative, molte composizioni già utilizzate sulle pareti dell’edificio, sia pure semplificate e adattate a uno spazio figurativo ridotto.
Al momento dei lavori nel battistero dovrebbero risalire anche la Madonna col Bambino del Museo diocesano d’arte sacra di Padova, copia di un’icona duecentesca un tempo custodita in duomo (Bellinati, 2000), e il già menzionato polittico di Montecassino, realizzato però molto probabilmente in collaborazione con la bottega.
A ogni modo, la sensibile differenza tra la tavola centrale e gli scomparti laterali di quest’opera, che rende decisamente arduo il lavoro filologico, è forse da imputare a un cattivo restauro, come è stato notato quantunque in modo del tutto marginale (Boskovits, p. 30 n. 17).
La commissione delle opere del battistero dovette garantire al M. una certa solidità economica, che gli consentì, negli anni della realizzazione del mausoleo dei Carraresi, l’acquisizione di diversi possedimenti.
Il 18 genn. 1377 il M. acquistò alcuni immobili da padre Tebaldo «custos ecclesiae cathedralis Padue», mentre il 18 agosto dello stesso anno comprò da Bionda del fu Bartolommeo Capodivacca, moglie di un certo Niccolò Nosedani da Cividale, una casa in contrada Duomo, zona in cui peraltro già abitava (Kohl, p.24). Qualche tempo dopo, il 16 febbr. 1381, si registra una donazione al M. di 16 «campi» di terra da parte di Giovanni Orsato o Rossato (ibid., p. 26).
Verso il 1382, anno della consacrazione dell’ambiente, il M. terminò gli affreschi della cosiddetta cappella del Beato Luca Belludi nella basilica del Santo, dedicata in realtà ai Ss. Filippo e Giacomo Minore. Il M. ricevette la commissione da Naimerio Conti e da suo fratello Manfredino, eminenti personaggi della corte carrarese.
Nell’abside, in asse con l’immagine del Pantocrator sulla volta e con il riquadro dell’Annunciazione, è raffigurata, al centro, la Madonna col Bambino in trono e i ss. Francesco, Ludovico, Antonio e il beato Luca che presentano alla Vergine i committenti; mentre, sulle pareti che fiancheggiano l’affresco, il M. rappresentò due Storie della vita del beato Luca (la Visione del beato Luca e Il beato Luca intercede per gli infermi raccolti presso la sua tomba) e due Storie dei ss. Filippo e Giacomo (la Disputa di s. Filippo e la Comunione di s. Giacomo). Sulle pareti laterali del vano spiccano gli Episodi della vita dei ss. Filippo e Giacomo: a sinistra l’artista dipinse S. Filippo sconfigge il drago nascosto in una statua del dio Marte e la Crocifissione di s. Filippo; a destra, la Predica di s. Giacomo a Gerusalemme, S. Giacomo libera un prigioniero innocente e S. Giacomo soccorre un pellegrino. Il Martirio di s. Giacomo è rappresentato invece sulla parete di fronte all’abside. Il M. ideò, inoltre, una sorta di estesa cornice decorativa, distribuita nello spazio absidale e costituita da archi all’interno dei quali sono raffigurati i personaggi appartenenti alla Genealogia di Cristo, secondo la descrizione del Vangelo di Matteo (1, 1-17).
Sugli affreschi, ultima opera conservata del corpus del M., ha pesato per lungo tempo il giudizio negativo di parte della critica che, anche sulla scorta del parere di Bettini (1944, pp. 99-101), ha provveduto a censurare la presunta mancanza di connessione tra le molte storie raffigurate, i toni meno chiari dei colori rispetto alla pittura del battistero e, nota piuttosto curiosa, a non riconoscere come elemento positivo l’accentuazione del realismo da parte del pittore, fatto questo che lo avrebbe allontanato dalla sua «vera natura» di artefice di immagini senza tempo. I dipinti murali della cappella del Beato Luca si caratterizzano effettivamente per il tentativo di orientare lo stile verso un naturalismo più pronunciato in confronto alle prove precedenti: tale qualità è facilmente rilevabile, tra l’altro, nel maggiore dinamismo delle scene e nell’attenzione per la varietà di espressioni, pose e atteggiamenti. Gli episodi narrati sulle pareti, del resto, sono punteggiati di ritratti di personaggi della famiglia Conti e di cittadini padovani contemporanei, che contribuiscono a enfatizzare l’effetto di realtà degli affreschi e ad attualizzare gli eventi sacri raccontati nelle immagini. Nuove propensioni della maniera del M. si colgono anche nelle scenografie degli interni e in particolare in quelle degli esterni, contrassegnate da finte architetture descritte con grande cura dei dettagli, che costituiscono dei paesaggi urbani di rara analiticità, capaci senz’altro di rivaleggiare con gli scenari allestiti da Altichiero e Iacopo Avanzi. La vena paesaggistica culmina nella ben nota veduta di Padova, raffigurata nella lunetta con la Visione del beato Luca, che viene mostrata da s. Antonio a Luca quando il protettore di Padova annuncia al compagno la liberazione della città dal governo tirannico di Ezzelino da Romano. I lavori al Santo costituiscono, insomma, con ogni probabilità l’estremo sforzo da parte dell’artista «ufficiale» della corte carrarese di adeguarsi a un gusto nuovo, rispondendo alle sollecitazioni figurative provenienti soprattutto da Altichiero, impegnato negli stessi anni (dal 1377 circa al 1384) nella decorazione dell’oratorio di S. Giorgio.
In una fonte seicentesca (Bettini, 1944, p. 102) è ricordata come opera del M. anche la decorazione a fresco del sottarco della cappella di S. Ludovico nella chiesa padovana di S. Benedetto, voluta dalla badessa Anna, sorella di Fina Buzzacarini.
Il M., insieme con un collaboratore di cultura marcatamente veneziana, che dovette portare a termine i lavori dopo la morte del maestro, vi pose mano verso la fine del nono decennio. Il ciclo tuttavia, che rappresentava Scene dell’Apocalisse, riprendendo il tema elaborato sulle pareti dell’abside del battistero, è andato quasi interamente perduto.
Una carta d’archivio del 24 luglio 1387 rende noto l’acquisto da parte del M. di un piccolo terreno di 3 «campi» in Villa di Camin da maestro Pietro, pittore, del fu Gualtiero da Zecchi di Alemagna. È questa l’ultima testimonianza nota relativa all’artista ancora in vita (Kohl, p. 26).
Il M. morì con ogni probabilità a Padova prima del 19 maggio 1391, quando un documento fa menzione degli eredi dell’artista (ibid.).
Come ha suggerito Bellinati (1988, p. 173), è ragionevole ipotizzare che il M. si fosse spento l’anno precedente e precisamente il 18 giugno, giorno nel quale la vedova Antonia fece celebrare negli anni successivi, nella chiesa di S. Canziano a Padova, l’anniversario della scomparsa del marito, che era sepolto nel battistero.
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F. Sorce