FONTANINI, Giusto
Nacque il 30 ott. 1666 a San Daniele del Friuli, figlio di Francesco, discendente da una famiglia di piccola nobiltà locale, e di Ludovica Manzoni di Sacile.
Avviato alla carriera ecclesiastica, il F. fu mandato a studiare in giovane età a Gorizia, nel collegio dei gesuiti, dove maturò quell'ostilità alla Compagnia che conserverà per tutta la vita e scelse autonomamente di ampliare il raggio delle proprie letture, allargandolo alle scienze umane., filosofiche e naturali, specialmente attraverso le opere di F. Redi. Terminato lo studentato il F. decise di trasferirsi a Venezia, dove si laureò in legge e venne ordinato sacerdote il 23 dic. 1690 dal cardinale patriarca di Aquileia Giovanni Dolfin. Trovato quindi l'impiego di bibliotecario e precettore in casa Moro, che gli servì per entrare poi in relazione con Apostolo Zeno, il F. perfezionò la sua preparazione con un soggiorno all'università di Padova.
Da Venezia conservò stretti rapporti epistolari con le maggiori personalità del Friuli. Ammiratore del poeta Ermes Colloredo e amico del conte Fabrizio, tramite costui fu presentato all'abate F. Del Torre, auditore del legato dell'Impero cardinale R. Imperiali, che, nel 1697, gli offrì il posto di proprio bibliotecario a Roma.
In quello stesso periodo il F. portava a termine la prima delle sue molte prove di erudizione: la dissertazione su Le masnade e gli altri servi presso i Longobardi, che fece leggere manoscritta allo Zeno, ottenendo da lui il sostegno per poterla pubblicare a Venezia, nel 1698.
Il F. si ambientò bene a Roma. Seppe conquistarsi la stima e il favore dei più valenti studiosi della capitale, come i cardinali G. Casanate ed E. Noris, il padre G.M. Tommasi di Lampedusa, G.F. Albani, L. Zaccagni, F. Nuzzi e G. Bottari. Studiò il greco e la storia della Chiesa nell'Accademia di Propaganda Fide alla scuola di C. Lupus, J. Mabillon ed E. Rénaudot, archeologia con R. Fabretti; entrò a far parte dell'Arcadia e in un breve spazio di anni riuscì a tessere una rete di relazioni che spaziava da B. Bacchini, G. Capassi, G. Cerati, G. Cenni, F. Bianchini, G.C. Battelli, F. Buonarroti, A.F. Gori, A. Magliabechi, A. Uprotti, S. Maffei, F. Beretta, C. Silvestri, G.G. Orsi, M. Egizio, E. Enriquez in Italia, a F. von Stosch, ai padri maurini M. Lequien, A. Calmet, G. Soller, A. Steyerer, C. Bechrnarm, G. Eckard, H.J.T. Mazangues all'estero. Decisiva però fu la sua amicizia con il giovane D. Passionei, che istruì in dogmatica e storia ecclesiastica, e per il quale si adoperò perché fosse mandato in missione in Francia, appoggiandolo nel progetto di creare un "circolo del Tamburo" per "svegliare" la cultura romana dal sonno provocatole dal gesuitismo ufficiale.
Nel 1700 licenziò a Roma L'Aminta di Torquato Tasso difeso e illustrato, testo significativo della bibliografia tassiana che gli valse l'apprezzamento di B. Montfaucon, arrivato a Roma in quell'anno, e le lodi del Tommasi. L'elezione al pontificato dell'Albani, che prese il nome di Clemente XI, assicurò al F. la cattedra di eloquenza all'università della Sapienza nel 1704, accompagnata dal pievanato di San Daniele, un beneficio già concesso al cardinale P. Rubini, che accettò di cambiarlo con un altro. L'orazione inaugurale del suo corso, De usu et praestantia bonarum litterarum, ebbe un discreto successo e, stampata a Roma nello stesso anno, valse all'autore l'apprezzamento di P. Bayle.
Il F., sempre più noto, cominciò a essere consultato su vari argomenti: Clemente XI gli sottopose un testo contro i fraticelli attribuito a Giacomo della Marca., il cui contenuto ostacolava il processo di canonizzazione di quel francescano, ed egli dimostrò come l'attribuzione fosse falsa. Quindi difese il Liber pontificalis Ecclesie Ravennatis di Agnello Ravennate, raccolse le poesie e le lettere di Ciro di Persia, intraprese la raccolta dei documenti friulani per un progetto di lungo periodo sulla storia letteraria del Friuli e scrisse un commento alle opere di A. Tassoni.
Era ormai pienamente maturata la sua visione teologica che, in sintonia con le esperienze giovanili e le amicizie romane, si era evoluta in senso nettamente e pregiudizialmente antigesuitico: membro a pieno titolo del circolo del Tamburini e assiduo frequentatore di casa Passionei, il F. fu perciò, sin dai primi anni del Settecento, consapevole di essere sospettato di giansenismo. Le sue lettere, specialmente quelle indirizzate al Passionel, sono intessute di cautele, frasi in cifra e inviti a distruggerle dopo la lettura; tuttavia, nel solco della tradizione dei cosiddetti filogiansenisti romani, non si allontanò mai dall'ortodossia, intesa in maniera rigorista. Tra i suoi corrispondenti esteri, del resto, si annoverano da un lato giansenisti veri e propri, come il Mazangues, ma dall'altro anche violenti avversari di questa dottrina, come il vescovo di Malines Tommaso d'Alsazia, che aveva conosciuto sin dalla giovinezza. Il suo curialismo poi lo portava a diffidare in maniera preconcetta di tutta la produzione scientifica che non fosse di provenienza cattolica, come quando si dichiarò contrario, nel 1703, al progetto di riforma del calendario elaborato dal Bianchini perché, pur essendo valido, aveva riscosso il consenso di G.W. Leibniz e di altri studiosi protestanti.
Su questo pensiero si innestava, in più, una forte propensione alle polemiche personali, alimentata da una certa dose di orgoglio e vanità che lo portava a fare di tutto per mettersi in luce. Nel 1705 entrò nel dibattito sulla diplomatica del Mabillon, spintovi da una segnalazione del Passionei, attaccando la tesi del gesuita B. Germon. Inaugurando un metodo che porterà ben presto alle estreme conseguenze, il F. demolì una per una le affermazioni dell'avversario (il che gli mise contro altri gesuiti in Francia e in Italia), senza concedergli alcuna attenuante. Ottenne così il plauso dello stesso Mabillon e degli altri maurini, accresciuto poco dopo quando intervenne per evitare la condanna di L. Tillemont, sollecitata dall'oratoriano G. Laderchi.
Ma oggetto principale della passione polemica del F. fu la sua famosa e lunga lotta contro L.A. Muratori, continuata pure dopo la morte dei due protagonisti dai loro nipoti Domenico Fontanini e G.F. Soli Muratori.
Il F. entrò in relazione col celebre storico nel 1699, attraverso lo Zeno, e venne presto attratto dalla sua vasta erudizione e dal suo progetto di repubblica letteraria, della quale fu considerato da molti candidato alla presidenza. Egli, che era stato un pioniere dell'archeologia cristiana insistendo per salvare dall'Indice l'Epistula ... de cultu sanctorum ignotorum del Mabillon, densa di critiche al culto di santi fantasiosi e al saccheggio indiscriminato dei sepolcri antichi, aveva letto il lavoro del Muratori sulle reliquie che, nel 1698, contestava l'attribuzione della santità ad ogni spoglia rinvenuta nelle catacombe romane, e lo studio che negava la tradizione del chiodo della Croce inserito nella "corona ferrea". Tale ne era risultata la sua ammirazione che, sebbene richiesto dai Morizesi per difendere la sacralità della corona, dopo avere preparato una risposta che confutava le tesi muratoriane rifiutò di darla alle stampe (lo farà dopo molti anni, in circostanze diverse). Anzi il F. e il giovane Passionei si interessarono affinché il Muratori ricevesse una pensione pontificia. All'inizio del 1704 questi, in segno di stima e riconoscenza, gli inviò manoscritto il proprio trattato sulla poesia italiana, pregandolo di fargli pervenire le sue osservazioni prima della stesura definitiva. Il F. dapprima cercò di rifiutarsi, poi si appassionò all'argomento e in maggio spedì al Muratori cinque fogli di annotazioni ortografiche, grammaticali e lessicali (poi in gran parte recepite) e una nota sul fatto che, a suo parere, nelle antiche tragedie il coro cantava realmente (il Muratori sosteneva il contrario). Aggiungeva inoltre alcuni consigli sul titolo: respingendo il muratonano "La riforma fatta da alcuni ingegni ... sopra le regole del buon gusto poetico", il F. faceva notare che non si capiva chi fossero tali ingegni e perché si dovesse utilizzare una parola di portata così ampia come "riforma", quando la corruzione della poesia non era stata la medesima dappertutto; sarebbe stato molto meglio parlare di "rinnovazione". Alla fine gli suggerì quel titolo Della perfetta eloquenza che il Muratori si rassegnò ad accogliere.
Di là dalla questione lessicale, al F. ripugnava il sottofondo protestante che la sola menzione della parola "rifornia" suscitava negli ambienti romani più conservatori e il fatto che, comunque, qualsiasi tipo di riforma, anche solo letteraria, rappresentava per lui una contraddizione in termini. Tutta la poetica del F. è legata al concetto di difesa dell'eccellenza degli scrittori italiani e della superiorità della tradizione linguistica nazionale. La poesia dunque non avrebbe dovuto prescindere dalle componenti primatistiche, nazionalistiche, morali e religiose, adeguandosi ai canoni del classicismo, la cui superiorità in campo etico ed estetico era fuori discussione. Ogni rinnovamento perciò avrebbe dovuto risolversi in un ritorno ai valori mediati della tradizione, vale a dire in una restaurazione, mai in una riforma. E tali idee il F. estendeva non soltanto alla poesia in senso stretto, ma anche alla grammatica, retorica, drammaturgia, storia, filosofia e teologia. E contrasto tra i due, se non ancora scoppiato, era ormai latente.
Egli espresse questi concetti poco dopo, nella prima edizione della sua opera più celebre, la Biblioteca dell'eloquenza italiana (Roma 1706), nota come epistola al conte Orsi sui principi e il progresso della lingua italiana. Con l'aggiunta di una bibliografia ragionata distinta per generi e tipologie discorsive, secondo il modello di K. von Gesner, il F. finì per redigere una specie di indice, molto ricercato dai contemporanei per la facilità della consultazione. Accanto alla novità dell'opera, all'evidente erudizione del suo autore e alla brillante sistemazione della vasta materia, il libro cominciò presto a rivelare anche i suoi limiti: fretta nella redazione, causa di molte imprecisioni ed errori, e soprattutto una lunga serie di giudizi gratuiti su varie personalità. Al F. arrivarono per anni suggerimenti per le successive edizioni (cinque, fino alla sua morte, e altre ancora dopo), particolarmente dallo Zeno. Egli si limitò ad accogliere, il più delle volte senza citarne gli autori, solo quelli consoni alle sue tesi, rendendo così il volume sempre più parziale. Al punto che, dopo la morte del F., lo Zeno decise di curarne egli stesso, con l'aiuto di M. Forcellini, un'edizione corretta, che apparve postuma a Venezia nel 1753. Così trasformato, il libro, in cui le note dello Zeno superavano in quantità e qualità il testo fontaniniano, conobbe un secondo successo che si prolungò fino al secolo seguente, quando verrà ancora raccomandato da U. Foscolo.
Accanto alla letteratura il F. continuava ad interessarsi all'archeologia dedicando al Nuzzi il De antiquitatibus Hortae coloniae Etruscorum (Romae 1708), accolto con molto favore. Nello stesso anno poi, insieme col Tommasi, sosteneva il Bacchini nella pubblicazione del Liber pontificalis.
Ma in quel periodo, tra il 1708 e il 1709, l'ostilità verso il Muratori venne pienamente alla luce in occasione della lunga disputa cagionata dall'occupazione imperiale del territorio pontificio di Comacchio e dal tentativo estense di profittame per far valere gli antichi diritti della casata sul Ferrarese.
Clemente XI, che aveva inizialmente incaricato lo Zaccagni di difendere le ragioni di Roma, reputando insufficiente la pubblicazione latina di costui volle affidare lo stesso compito al Fontanini. Questi cominciò con un opuscolo intitolato Il dominio temporale della Sede apostolica sopra la città di Comacchio per lo spazio continuato di dieci secoli (Roma 1709) - Il Muratori, difensore della causa degli Este, rispose con sue Osservazioni, respinte dal F. nella Difesa del medesimo dominio contro le affermazioni del Muratori (ibid.), nello stesso anno. La replica riprese solo nel 1711, con le Questioni comacchiesi, a cui il F. oppose la Difesa seconda del dominio temporale sopra la città di Comacchio (ibid. 1711). Il duello seguitò nel 1712 con la Piena esposizione dei diritti imperiali ed estensi sopra la città di Comacchio del Muratori, che mise in difficoltà il F., autore di una Risposta a varie scritture contro la Santa Sede in proposito di Comacchio, pubblicata a Roma nel 1720 e smentita dal Muratori, ormai dominatore della materia del contendere, attraverso una Disamina dello stesso anno (pubblicata a Modena, come le opere precedenti).
In questo scontro il F., seppur involontariamente, contribuì ad allontanare il Muratori da una semplice, per quanto vasta, erudizione, spostando in maniera definitiva i suoi interessi verso la storiografia modernamente intesa e lo studio del problema giurisdizionalista. L'acre difesa del F. (peraltro coronata dalla vittoria della Santa Sede sul piano diplomatico nel 1723), pur alimentando la fama del suo nome, nel tempo non potè invece che indebolire quella della qualità dei suoi studi, così come certi suoi attacchi al Leibniz - corrispondente del Muratori e anche lui dalla parte degli Este -, giudicato eretico e perciò non degno d'essere letto. Infatti, dopo un avvio brillante, egli, stretto dalle documentate argomentazioni muratoriane, spostò i termini della questione dal piano scientifico a quello dogmatico-religioso, passando poi a un'ostilità personale che divenne col trascorrere degli anni opposizione violenta alla persona dello storico modenese e a ogni sua opera.
Nel Dominio temporale il F. sosteneva le tesi dell'appartenenza di Comacchio all'Esarcato, possesso della Chiesa tolto dai Longobardi, e della restituzione (non donazione) di quel territorio da parte di Pipino, atto riconfermato poi dai successivi imperatori fino a Rodolfo I, nel 1274. Inoltre, essendo la città una pertinenza di Ferrara, in quanto tale doveva seguire le sorti di quel Ducato, un vicariato pontificio restituito alla Chiesa dopo l'estinzione della linea diretta di discendenza degli Este attraverso, appunto, un "atto dovuto". D'altro canto il Muratori, nei suoi primi scritti su Comacchio, non era riuscito ad opporgli altro che il parere di autori giurisdizionalisti sostenenti la tesi che il Papato avesse fatto andare in oblio il più antico diritto imperiale di sovranità sui territori della Chiesa, con poca fortuna.
Con la Piena esposizione del 1712 il Muratori lasciava da parte il diritto e, citando i documenti, dimostrava che, se la donazione di Pipino era una restituzione, allora si sarebbe dovuto risalire a quella di Costantino, la cui falsità era stata dimostrata già da due secoli. Inoltre, negli scritti successivi, sosteneva che Comacchio era stata feudalmente autonoma da Ferrara perché di vassallaggio imperiale e che la devoluzione di questa città a Roma era stata giuridicamente condannabile.
Il F. cercò allora di mettere in difficoltà il Muratori tentando di trascinarlo su problemi dottrinali: trattando il suo avversario da eretico perché "i beni della Chiesa appartengono direttamente a Dio" (e nell'edizione postuma dell'Eloquenza lo definirà esplicitamente tale, provocandone lo sdegno condiviso da tutto l'ambiente letterario italiano), condannava la scissione muratoriana tra religione e beni terreni e la tesi della supremazia della religione su papi e imperatori. La conseguenza fu la definitiva rottura del F. col Muratori (inevitabile, se lo chiamava "bestia" già in una lettera al Passionei dell'8 apr. 1708) e il suo scatenarsi in una persecuzione contro di lui: cercò di far mettere all'Indice il De ingeniorum moderatione in religionis negotio, ma non vi riuscì e nemmeno fece stampare le proprie deboli Osservazioni critiche in proposito; licenziò invece alle stampe la propria vecchia replica alle tesi muratoriane sulla corona ferrea (Dissertatio de corona ferrea Langobardorum, Romae 1717), fece bloccare nel 1718 l'imprimatur, già concesso dal maestro del Sacro Palazzo, al trattato della carità cristiana (il Muratori potrà pubblicarlo con fatica solo nel 1722) e soprattutto cercò di frapporre ostacoli alla raccolta dei documenti per i Rerum Italicarum Scriptores.
Comunque, nel 1711., Clemente XI, soddisfatto del sostegno alle posizioni romane dato dal F., lo ricompensava con la nomina a proprio cameriere d'onore con diritto d'abitazione nel palazzo apostolico, uno stipendio e la carica di abate di Sesto al Reghena.
Il F. aveva dato intanto alle stampe il Bibliotheca cardinalis Imperialis catalogus (Romae 1711), frutto dei dieci anni di lavoro presso l'Imperiali, e il trattatello De translatione codicis Evangelii s. Marci ex Foroiulio Venetias, documentata ricostruzione delle vicende di un evangeliario di origine friulana, inserito dal Montfaucon nel suo Diarium Italicum (Parisiis 1702, pp. 56-62).
Nel 1717 decise di intraprendere l'unico viaggio della sua vita, da quando era arrivato a Roma, per recarsi in Friuli a rivedere la sua terra natale e controllare lo stato dell'abbazia di Sesto.
Dopo aver toccato Viterbo, Siena e Firenze, il F. compì un ampio giro per il Friuli, dove lo raggiunse la notizia, trasmessagli da monsignor P. Lambertini, che la congregazione dei Riti, a Roma, aveva riconosciuta la legittimità del culto del santo chiodo nella corona ferrea, approvando quindi la sua tesi e smentendo il Muratori. Ritornò a Roma esultante, seminando ovunque passava altre calunnie contro il Muratori, che, a ragione, addebitò alle sue manovre la pochezza di documenti perugini e friulani pubblicati sui Rerum Italicarum Scriptores e il rifiuto di Montfaucon di inviargli la copia di due codici di Cluny che aveva richiesto. Inoltre, col passare degli anni, il F. raffreddò i suoi rapporti col Maffei e cominciò a lamentarsi del comportamento del Passionei, che, a suo dire, lo trascurava, tutto preso dalle proprie molteplici occupazioni; accusa non vera, ché anzi il Passionei si impegnò sempre per diffondere le opere del F., specialmente all'estero, come in Olanda, curandone la traduzione e la stampa.
Pochi anni dopo la S. Sede, mentre ancora perdurava la vertenza con l'Impero per Comacchio, entrava in quella sul Ducato di Parma e Piacenza per l'imminente estinzione della famiglia Farnese. Ancora una volta il F. si gettò nella polemica con un in folio, pubblicato in edizione italiana e latina, Della storia del dominio temporale della Sede apostolica nel Ducato di Parma e Piacenza (Roma 1720), mischiandovi, con uno stile ormai riconoscibile, erudizione, polemiche e parzialità.
Innocenzo XIII non approvò l'eccesso di zelo del F., che gli sembrava portare la S. Sede a invischiarsi troppo su diatribe circa il diritto feudale trascurando il suo problema prioritario, l'effettivo riconoscimento della neutralità - e quindi dell'intangibilità - del territorio pontificio. Ciò non venne fatto intendere al F., che tuttavia si vide lentamente porre in disparte per tutto il breve pontificato innocenziano. Morto il papa, durante il nuovo conclave del 1724 egli fu obbligato a lasciare libero l'appartamento che occupava nel palazzo pontificio. Un colpo grave per lui, da cui però ne uscì grazie all'appoggio dell'arcivescovo di Benevento V.M. Orsini. Proprio questi uscì eletto dal conclave e, tra i primi atti come Benedetto XIII, assegnò un appartamento al Quirinale per il F., insieme con un canonicato a S. Maria Maggiore, la carica di abbreviatore di Curia e cameriere segreto e il conferimento dell'arcivescovato titolare di Ancira il 5 sett. 1725, con la funzione di assistente al soglio pontificio. Seguirono poi un secondo canonicato nella basilica liberiana e una cospicua rendita sul vescovato di Ceneda.
Nello stesso anno 1725 il F. prese parte al sinodo provinciale romano. Nel corso del dibattito difese la sacralità delle cerimonie ecclesiastiche per l'amministrazione dei sacramenti, approvò il richiamo alla norma tridentina che prescriveva ai vescovi di un dato territorio di scegliere il metropolita (egli optò per quello di Aquileia), pubblicò una dissertazione sul contestato tema dell'estensione della provincia romana oggetto dei deliberati conciliari e votò il documento finale che raccomandava l'insegnamento della dottrina cristiana ai fanciulli e agli adulti, la compilazione degli inventari dei beni ecclesiastici e la regolare tenuta degli archivi, la correttezza delle relazioni sullo stato delle diocesi e la regolamentazione degli eremiti.
Oltre agli interventi in questo concilio, il F. si occupò di temi teologici anche in altre occasioni, sempre in chiave antigesuita e con l'intento di riaffermare tradizioni consolidate: così nel 1726 si oppose alla richiesta del missionario gesuita nel Malabar A. Brandolini, che richiedeva la possibilità di modificare certi riti del battesimo per renderlo più accetto alla cultura degli indigeni, difese il benedettino M. Petitdidier dall'accusa di giansenismo, aiutandolo ad ottenere il vescovato di Macri, fece naufragare il progetto di ristampa corretta del Breviario romano, con la scusa che non vi fossero in Roma tipografi capaci di farla, sostenne la foggia tradizionale della corona chiericale, la dottrina tridentina delle indulgenze e condannò l'uso di andare mascherati da pellegrini durante il carnevale romano, un'usanza che gli pareva richiamasse le critiche ai pellegrinaggi mosse dagli "eretici". Soprattutto si espresse sfavorevolmente, nel 1728, nei confronti della nascente devozione al sacro Cuore di Gesù, sintomo, secondo lui, del preoccupante diffondersi di pratiche religiose privatistiche, misticheggianti e neopagane.
Nel 1727 il F. preparò la nuova edizione del Decretum Gratiani (Romae 1727)., in collaborazione con V.T. Moniglia e D. Giorgi. Nell'anno successivo riaprì le ostilità contro il Muratori, schierandosi a favore dei sostenitori del ritrovamento del corpo di s. Agostino nella basilica di S. Pietro in Ciel d'Oro a Pavia (De corpore s. Augustini... Ticini reperto, Romae 1728, subito tradotto in italiano) e ricostruendo il trasporto del santo dall'Africa alla Lombardia, secondo una tesi ancora oggi accettata e approvata poco dopo dalla Chiesa. Quando il Muratori osò esprimere le sue perplessità in proposito, il F. reagì con un Inventario delle imposture contenute nel libello de' motivi contro l'identità del corpo di s. Agostino talmente insultante che restò manoscritto. Fu invece apprezzata la biografia De sancto Petro Urseolo (Romae 1730), ricca di riferimenti alla storia di Venezia, che gli fruttò un pubblico elogio da parte del Senato veneto e il dono di due medaglioni d'oro.
Tra le materie sottoposte al suo giudizio fu anche la concessione del pallio vescovile al presule di Arezzo, parente del cardinale L. Corsini che sollecitava per lui tale grazia. Il F. si oppose. Questa volta sbagliò i propri calcoli perché si attirò il risentimento proprio del porporato, diventato papa nello stesso 1730. Clemente XII, sfruttando il clima di epurazione subito introdotto nella corte dopo la fine del potere del cardinale N. Coscia, ne approfittò per licenziare nuovamente il F., obbligandolo a un altro trasloco.
Anche se il F. reagì nel solito modo, non riuscì più a riguadagnare il favore goduto con i pontefici precedenti. Senza tuttavia perdere il proprio credito: allorché il papa si trovò alle prese con le vertenze mosse dalla corte di Torino, gia nel 1731 ricorse al F., commissionandogli una difesa della Indipendenza de' feudi ecclesiastici di Piemonte da qualunque potestà secolare, giustificata co' principii fondamentali del diritto pubblico dai tempi di Carlo Magno sino al presente, che, dopo avere subito il furto dei fogli di stampa, comparve in una cattiva edizione anonima romana nel 1732. Analogamente, egli fu interpellato nelle trattative per la concessione dell'investitura di Napoli al figlio di Elisabetta Farnese, Carlo di Borbone.
Indebolito dagli anni di lavoro incessante e preda di crisi di nervi, si ammalò di apoplessia nel 1733 e questo male lo condusse alla morte il 17 apr. 1736, a Roma.
Grazie alla cura del nipote Domenico uscirono postumi la quinta edizione dell'Eloquenza, quella che più scatenò le polemiche sui giudizi in essa contenuti, e le Historiae literariae Aquileiensis libri V (Romae 1742), sola parte completata della storia del Friuli. Domenico copiò anche un manoscritto, cominciato dallo zio già nel 1697, la Vita arcana di fra' Paolo Sarpi, una collezione di falsità per svergognare la statura morale del frate servita avversario di Roma, libro che apparve però solo nel 1803 in un'edizione non corretta di cui si discusse a lungo l'attribuzione.
La mole di materiale raccolta dal F. soffrì molte traversie. Con proprio testamento olografo del 9 ott. 1734 il F. aveva disposto che alla sua morte venissero lasciate in eredità alla Comunità di San Daniele la sua collezione di libri (molti dei quali rari e annotati di sua mano) e quella dei manoscritti autografi, apografi, codici e schede costruita nei lunghi anni di ricerca e corrispondenza erudita.
Contro tale testamento mosse causa il principe G. Imperiali, imputando al F. di avere compreso nella donazione testi appartenenti alla propria biblioteca. La perse, ma il dibattimento causò un ritardo nella spedizione dei volumi da Roma al Friuli. Quando ciò avvenne, il 10 sett. 1737, toccò agli inquisitori della Repubblica di Venezia bloccare il carico con l'ordine di sequestro di tutti i documenti e stampati fontaniniani attinenti alla questione del patriarcato di Aquileia. La disposizione fu interpretata estensivamente, comprendendo nel sequestro anche documenti sulle relazioni di Venezia con la S. Sede e l'Austria, per un complesso di cinquantotto volumi che finirono alla Marciana. Né la Biblioteca civica Guarneriana di San Daniele riuscì a tutelare il fondo da successive sottrazioni e vendite da parte di eredi della famiglia, sicché oggi esso si trova disperso tra la città friulana (Mss. 205-271), che ne conserva comunque la parte più importante, e le biblioteche arcivescovile e dell'Archiginnasio di Bologna, Vaticana e Corsiniana di Roma, nazionale di Firenze, Estense di Modena, universitaria di Pisa, Ambrosiana di Milano, Fabroniana di Pistoia, Classense di Ravenna, Marciana e del seminario di Venezia, comunale di Bassano del Grappa, Savignano, Trento, Udine, Trieste e nazionale di Vienna, che si dividono sue lettere e suoi libri.
La Biblioteca civica Guameriana di San Daniele conserva un ritratto anonimo del F., mentre la Vaticana custodisce un disegno di P.L. Ghezzi (Ottob. lat. n. 3113) che lo raffigura in piedi, piccolo di statura e piuttosto pingue. Molte edizioni dei suoi libri riportano, nel frontespizio, incisioni con il volto dell'autore.
Il F., oltre ai testi citati, scrisse varie opere minori, compreso l'abbozzo di una autobiografia pubblicata postuma nella Raccolta di A. Calogerà, per un complesso di quarantacinque titoli editi e nove lasciati manoscritti, tra i quali anche un giovanile "dramma per musica" intitolato Il Bellerofonte. È ancora valido il catalogo redatto da G.B. Baseggio in E. De Tipaldo, Biografia degli Italiani illustri..., VII, Venezia 1840, pp. 447-450.
Fonti e Bibl.: Compendio della vita di mons. G. F., in Raccolta d'opuscoli scientifici e filologici, a cura di A. Calogerà, XV, Venezia 1737, pp. 337-357; Clarorum Venetorum ad Antonium Magliabechium nonnullosque alios epistolae, Florentiae 1745, ad Indicem; D. Fontanini, Memorie della vita di mons. G. F., Venezia 1755; Lettere scritte a Roma al sig. abate G. F., Venezia 1762; Correspondance inédite de Mabillon et de Montfaucon avec l'Italie, a cura di M. Valery [A-CI. Pasquin], Paris 1846, 1-111, ad Indicem; L.A. Muratori, Epistolario, a cura di M. Campori, I-XIV, Modena 1901-22, ad Indicem; Lettere inedite... del F., a cura di E.D. Petrella, in Riv. storica benedettina, VII (1912), pp. 288-295; S. Maffei, Epistolario, a cura di C. Garibotto, I-II, Milano 1955, Passim; Corrispondenza dell'abate E. Rénaudot con mons. G. Passionei e con l'abate D. Passionei negli anni 1708-1709, a cura di E. Sgreccia, in Studia Picena, XXXII (1964), pp. 101 ss.; Lettere e carte Magliabechi. Regesto, a cura di M. Doni Garfagnani, I-II, Roma 1981-88, in Fonti per la storia d'Italia, CXXXVII-CXLIII, ad Indicem; F.M. Renazzi, Storia dell'Università degli Studi di Roma, IV, Roma 1806, pp. 101-104; G.G. Liruti, Notizie delle vite ed opere scritte da' letterati del Friuli, IV, Venezia 1835, pp. 281-315; L. Narducci, Notizie istoriche della Biblioteca comunale di San Daniele del Friuli, Venezia 1875, pp. 13 ss., 18 ss., 27 s.; I. Carini, L'Arcadia dal 1690, I, Roma 1891, pp. 45, 304, 315, 332 s., 361, 385, 404; A.C. Jemolo, Ilgiansenismo in Italia prima della Rivoluzione, Bari 1928, pp. 102, 120; F. Nicolini, Monsignor C. Galiani, Napoli 1931, pp. 19 s.; C.G. Mor, G. F., in Mem. stor. forogiuliesi, XXXII (1936), pp. 85-100; E. Dammig, Il movimento giansenista a Roma nella seconda metà del secolo XVIII, Città del Vaticano 1945, pp. VIII, 48-53, 72, 389; E. Codignola, Illuministi, giansenisti e giacobini nell'Italia del Settecento, Firenze 1947, pp. 195 s., 199; L. Bellini, Comacchio nell'opera di L.A. Muratori, in Atti e mem. della Deputaz. provinciale ferrarese di storia patria, V (1950), 2, pp. 23 s., 42 ss.; G.V. Vella, Il Passionei e la politica di Clemente XI (1708-1716), Roma-Napoli-Città di Castello 1953, pp. 9, 26, 37 s.; A. Vecchi, Due documenti su G. F., in Mem. stor. forogiuliesi, XIII (1956-57), pp. 217-222; S. Bertelli, Erudizione e storia in L.A. Muratori, Napoli 1960, ad Indicem; E. Appolis, Entre jansénistes et zelanti. Le "Tiers parti" catholique au XVIIIe siècle, Paris 1960, ad Indicem; P. Berselli Ambri, L'opera di Montesquieu nel Settecento italiano, Firenze 1960, pp. 20, 35, 124; L. von Pastor, Storia dei papi, XV, Roma 1962, pp. 43, 387, 678, 692; L. Raybaud, Papauté et pouvoir temporel sous les pontificats de Clément XII et Benoit XIV, 1730-1758, Paris 1963, pp. 95 s.; A. Caracciolo, D. Passionei tra Roma e la repubblica delle lettere, Roma 1968, ad Indicem; V.E. Giuntella, Roma nel Settecento, Bologna 1971, ad Indicem; M. Schenetti, La vita di L.A. Muratori ricavata dal suo espitolario, Torino 1972, pp. 31 s., 82, 101 ss.; M. Monaco, I rapporti di L.A. Muratori con i "letterati" romani del suo tempo, in L.A. Muratori e la cultura contemporanea..., I, Firenze 1975, pp. 66, 81-92, 94; F. Venturi, L'Italia fuori d'Italia, in Storia d'Italia (Einaudi), III, Torino 1973, p. 1009; L. Fiorani, IlConcilio romano del 1725, Roma 1978, pp. 76, 87, 127, 255, 257; M.R. Di Simone, La "Sapienza" romana nel Settecento, Roma 1980, pp. 83, 112, 188; P. Stella, in Dict. d'hist. et de géogr. ecclés., XVII, Paris 1971, coll. 875 ss.; C. Donati, La Chiesa di Roma tra antico regime e riforme settecentesche (1675-1760), in Storia d'Italia (Einaudi), Annali, IX, La Chiesa e il potere politico dal Medioevo all'età contemporanea, a cura di G. Chittolini - G. Miccoli, Torino 1986, p. 740; G. Mazzatinti, Inv. dei manoscritti delle Bibl. d'Italia, III, pp. 108, 145-152; R. Ritzler - P. Sefrin, Hierarchia catholica medii et recentioris aevi, V, Patavii 1952, p. 84; Letteratura italiana (Einaudi), Gli autori..., p. 806.