Giusto prezzo
In queste pagine verrà individuato il substrato etico-economico a cui i pensatori medioevali e tardomedioevali hanno attinto per formulare, con una certa organicità, le loro riflessioni sull’interpretazione del ‘giusto prezzo’, al fine di dare una risposta agli interrogativi suscitati dall’attività mercantile di quei tempi. Questi interrogativi riguardano soprattutto la liceità stessa del commercio e del guadagno che ne proviene, e fondamentalmente attengono al giusto prezzo, secondo la concezione del tempo. Si tratta, pertanto, di una riflessione soprattutto teologica, perché fu questa scienza che seppe cogliere molti dei problemi morali presentati dalla multiforme realtà economica, e non soltanto quelli relativi alla mercatura e al prezzo.
La storiografia del pensiero economico – come in generale le più tradizionali interpretazioni storiografiche – ha codificato in qualche modo lo stereotipo, di derivazione illuministica, che il Medioevo è l’età dei ‘secoli bui’: un’epoca oscura, arretrata, statica, compatta, unitaria, superstiziosa. Di conseguenza, nel cercare le radici della scienza economica molti studiosi hanno finito per concentrare la loro attenzione sulle dottrine sviluppatesi a partire dal 16° sec. in Inghilterra e negli altri Paesi dell’Europa settentrionale; e non si sono spinti invece a esplorare le opere dei canonisti, dei teologi e degli umanisti civili italiani, come pure le pagine degli statuti municipali e mercantili delle città italiane, le quali hanno generato prima di Martino Lutero, di Giovanni Calvino, di Bernard de Mandeville, di Adam Smith, di John Locke e di Benjamin Franklin, la nascita dell’homo oeconomicus, inteso sì come soggetto razionale che persegue il proprio vantaggio, ma in un contesto teologico-morale la cui dimensione antropologica rimanda al modello di relazioni interpersonali che consentono agli operatori di cum-petere, ossia di cooperare positivamente e responsabilmente nel mercato, nelle imprese, negli scambi commerciali per il bene-vivere della comunità cittadina.
Fin troppo note sono, a questo proposito, le tesi del sociologo tedesco Max Weber (1864-1920), che individua una significativa corrispondenza tra lo spirito del capitalismo moderno e l’etica calvinista. In realtà, la ricerca storica più aggiornata dimostra che la scienza economica affonda saldamente le sue radici nel basso Medioevo. Il capitalismo italiano, quindi, è anteriore di almeno tre secoli a quello europeo, e il protagonista di questo fatto storico è la nascita del nuovo imprenditore. Tra la fine del Duecento e l’inizio del Trecento, infatti, i mercanti italiani organizzarono una libera circolazione dei beni, o almeno di alcuni di essi, anche al di là delle molte barriere politiche rappresentate dai piccoli Stati cittadini.
Finché l’economia era stata dominata dall’idea del mero bisogno – come codificato da figure come Pier Damiani (1007-1072) e, dopo di lui, da teologi come Alano di Lilla (nato tra il 1115 e il 1128 e morto nel 1202), detto doctor universalis, che, pur trattando il problema dell’usura, non affrontarono mai direttamente la questione del prezzo – l’atto dello scambio si esauriva nel momento stesso in cui veniva in essere. Per le necessità di un tale atto economico, l’operatore – artigiano, agricoltore o mercante che fosse – non aveva bisogno di scrivere l’atto dello scambio e il volume delle merci, né le variazioni del tasso di cambio delle monete, né i crediti concessi o i pagamenti dilazionati. Ma questa fase evolutiva significò il passaggio dalla forma artigiana a quella cosiddetta capitalistica.
Alla fine del Duecento, specialmente in Toscana, mercanti, imprenditori e cambiavalute, motivati dallo spirito del guadagno e dal desiderio dell’accumulazione del denaro come mezzo di ascesa sociale e politica, allargarono gli orizzonti dei mercati e degli scambi commerciali. I circuiti del commercio, dunque, oltre all’area di scambio rappresentata dalla città e dal territorio da essa dipendente, superarono i confini per svilupparsi in un ambito nazionale e internazionale. Va inoltre precisato che in questa Italia fortemente segnata dai commerci esistevano aree più forti e aree più deboli; città con più spiccate connotazioni mercantili come Venezia, Genova e Pisa, e città a forte vocazione manifatturiera e finanziaria come Firenze, Lucca, Siena e Milano. Quest’ultima era soprattutto un centro di produzione di oggetti di ferro e armi, mentre le altre mostravano una struttura economica ben equilibrata tra produzione e commercio, compreso il commercio del denaro.
Un ruolo importante negli scambi avevano le derrate agricole, in particolare i cereali, che erano l’ingrediente fondamentale dell’alimentazione; si trovavano in gran quantità anche il sale e il bestiame. Fra i beni durevoli circolavano soprattutto le lane, le pelli e le materie coloranti. Fra i prodotti finiti, nello scambio a distanza, vi erano in primo luogo le stoffe, ma si commerciavano anche le armi.
Naturalmente, non è da sottovalutare il fatto che lo scambio dei beni incontrasse spesso molteplici ostacoli, sia dal punto di vista tecnico-organizzativo (mancanza di strade, ponti, valichi montani, luoghi dove alloggiare), sia da quello giuridico (regolamentazioni diverse da città e città, pedaggi, dazi), stagionale (neve sui monti, tempeste in mare), della sicurezza (pirati in mare, brigantaggio per le strade). Contro i pericoli cui andavano incontro le merci si sviluppò un sistema di assicurazioni marittime e su terra. Al miglioramento tecnico dei trasporti contribuì la nascita di vere e proprie organizzazioni di vetturali, mulattieri, carradori, portatori. Al miglioramento economico dette un contributo sostanziale la coniazione, a partire dalla metà del Duecento, di forti e stabili monete auree, poi universalmente accettate, a opera di Firenze, Genova, Venezia, che portarono un po’ di ordine, almeno in campo internazionale e negli scambi all’ingrosso, nel marasma delle monete che tutte le città erano venute coniando per gli accresciuti bisogni commerciali. Il fiorino di Firenze e il ducato di Venezia, entrambi di coniazione aurea, furono i grandi mezzi di pagamento internazionali ed ebbero allora il ruolo rilevante che poi, in epoca moderna, sarebbe stato della sterlina e quindi del dollaro.
Di fronte a questa struttura nascente dei processi economici, i teologi e i canonisti uscirono dal loro mondo ed entrarono in quello economico, e a questo scopo foggiarono alcuni strumenti di analisi – l’idea di prezzo, di mercatura, di scambio commerciale, di prestito, di interesse e così via – desumendoli dalla stessa dinamica che stavano osservando. Il loro interesse era diretto non tanto a definire il funzionamento del processo produttivo e distributivo dei beni utili, quanto piuttosto alla formulazione di un giudizio etico su entrambi questi aspetti della vita economica. Da questo punto di vista la maggiore difficoltà per una giustificazione morale veniva dall’esercizio della mercatura che, durante il 13° sec., cominciava già ad alimentare sempre più complesse operazioni di credito e apriva mercati lontani all’imprenditorialità cittadina, specialmente nel settore dei prodotti tessili.
La nascita delle compagnie commerciali (dei Bardi, dei Frescobaldi, dei Pucci e dei Peruzzi di Firenze, oppure dei Salimbeni, dei Buonsignori, dei Tolomei e dei Piccolomini di Siena, o ancora degli Orsini, dei Colonna, dei Caetani di Roma) rispondeva all’esigenza di raccogliere una quantità di capitali superiore a quella che poteva essere messa insieme da una singola famiglia per meglio sostenere, tra l’altro, i costi derivanti dal mantenimento di agenti nelle diverse piazze commerciali.
In questo scenario innovativo di trasformazioni economiche e sociali, che segna l’inizio di una fase nuova e inarrestabile, a fianco dei guadagni dei mercanti convivevano quelli degli agricoltori e dei piccoli artigiani che invece non trovavano difficoltà a essere moralmente accettati, perché facenti parte del lavoro umano finalizzato al mantenimento della famiglia. Generalmente la vita degli agricoltori, dei braccianti o dei lavoratori manuali si svolgeva intorno al castello o alla chiesa. D’altra parte, erano la chiesa e il suo parroco, più che il castello con il suo signore, a dare un’impronta alla vita rurale e a cementare l’attività dei contadini: era in chiesa che andavano ad assistere alla messa domenicale, ad ascoltare le prediche ed essere informati sulle novità, a venerare il santo patrono, a ricevere i sacramenti, a sposarsi e a seppellire i propri cari. Sulla soglia della chiesa pagavano la decima e sulla piazza organizzavano la fiera e il mercato. La campana, con i suoi rintocchi, scandiva le diverse ore del giorno e l’Angelus della sera richiamava i lavoratori a casa. Il senso di appartenenza a una comunità, insieme alla reciprocità e alla solidarietà, dava vantaggi sociali sicuri, e per questo accettati.
Si era creato, dunque, una specie di doppio circuito commerciale, nel quale a immettere sul mercato i beni di base erano gli imprenditori, mentre i piccoli artigiani e agricoltori, che costituivano la piccola economia locale, fornivano verdura, frutta, carne, uova, latte, legna da ardere e modesti prodotti artigianali, come canestri o cappelli di paglia.
Dalle cronache e dai ricordi dei mercanti umanisti italiani del Trecento e del Quattrocento viene fuori una morale che si organizza intorno a tre valori fondamentali: profitto, prudenza, misura. Ciò che nobilita il profitto è la sua stessa fonte: l’operosità, l’industriosità, il non-ozio (negotio) che permettevano l’acquisizione di tale ricchezza. È la concezione dell’homo faber che dà la possibilità di ricavare un profitto. In questo senso, l’usura stessa, dal punto di vista laico, era un’azione biasimevole non perché fosse condannata dalla morale della Chiesa, ma in quanto dannosa per l’onore e la fama del prestatore.
«Il nome di Dio e del guadagno»: così – come testimoniano le carte dell’archivio del mercante Francesco Datini di Prato – iniziavano le lettere di cambio e gli ordini di pagamento; è un binomio che di per sé esprime una ‘filosofia’ pratica della vita e degli affari nel Trecento. Questa Italia dominata dalla nuova figura del mercante capitalista, che introduce profondi mutamenti nell’attività economica e produttiva, tutta percorsa da correnti intense di traffici e tutta punteggiata di luoghi di mercato, in definitiva coinvolse nelle attività di scambio, sia pure in misura molto diversa, tutti i ceti sociali, compreso il mondo ecclesiastico.
Dove c’è fatto economico, c’è prezzo; altrimenti tale fatto, anche genericamente inteso come ricerca dei mezzi di sussistenza, non si porrebbe nemmeno. Ma esiste un legame fra i diversi tipi di riflessione economica che si fonda sull’interpretazione del prezzo: quello teologico medioevale e quello dell’attuale scienza economica. Un punto di particolare importanza, allora, nella prospettiva di questo excursus, riguarda la misura della partecipazione alle questioni economiche nel tardo Medioevo della teologia, alla quale spetta una posizione centrale per il suo contributo decisivo e autonomo alla formulazione dei concetti economici, tra cui quello di giusto prezzo.
Oltre ad Aristotele, che riteneva la funzione mercantile poco importante per la vita sociale, altri tre autori costituiscono il punto di riferimento per i teologi medioevali a proposito del problema della mercatura: Giovanni Crisostomo (nato tra il 344 e il 354 e morto nel 407), vescovo di Costantinopoli, e l’Opus imperfectum in Matthaeum (il commento al Vangelo di Matteo a lui attribuito dai pensatori medioevali); Agostino Aurelio (354-430), vescovo di Ippona; il celebre filosofo-politico inglese Giovanni di Salisbury (nato tra il 1110 e il 1120 e morto nel 1180), nelle cui opere si fondono i trattati di Ambrogio e Agostino, le dottrine degli stoici e dei giureconsulti romani e i principi della civiltà cristiana.
Per quanto riguarda Giovanni Crisostomo, il punto importante è un passo del Vangelo di Matteo citato nell’Opus imperfectum, che recita: «Gesù entrò nel tempio e scacciò tutti coloro che vendevano e compravano nel tempio» (Matteo 21,12). Questa citazione è accompagnata nel commento dello pseudo Crisostomo da un chiarimento sul ruolo del mercante, in cui si effettua una netta distinzione tra il mercante buono e quello cattivo, scacciato dal tempio. E tale distinzione è basata su un’idea molto semplice, cioè sulle modificazioni che vengono apportate all’oggetto scambiato. Se l’oggetto, restando il medesimo e immutato, viene venduto a un prezzo maggiore, si deve parlare di cattiva mercatura, che non trova nessuna giustificazione. Se invece l’oggetto viene modificato in senso utile, come nel caso del fabbro, che compra il ferro allo scopo di fare strumenti di lavoro e utensili vari, il guadagno è pienamente giustificato dal valore del lavoro aggiunto (G. Crisostomo, Opus imperfectum in Matthaeum, in J.-P. Migne, Patrologiae cursus completus [...], Series graeca [...], 56° vol., t. 6, 1862, coll. 839-40).
È significativo notare come, quasi un millennio più tardi, il teologo francescano Alessandro Bonini di Alessandria dia dello stesso passo evangelico, nel Tractatus de usuris (composto nel 1302 ca.), un’interpretazione diversa, sostenendo che a Gesù non interessava tanto il comportamento dei mercanti quanto la sacralità del luogo (propter reverentiam loci), che era destinato alle cose spirituali e non alle transazioni di affari.
Un altro passo dello pseudo Crisostomo ha attirato l’attenzione dei teologi medioevali; si tratta del commento alla parabola del re che chiama gli invitati alle nozze di suo figlio. Il versetto recita: «Ma gli invitati non se ne curarono e se ne andarono, chi al suo campo e chi ai suoi affari» (Matteo 22, 5). Da questa frase il commentatore prende lo spunto per ripartire tutta l’attività degli uomini in due grandi categorie: agricoltura (villa) e commercio (negotiatio). Nella prima pone tutte le attività manuali, nell’altra quelle che riguardano lo scambio mercantile, gli impieghi nella pubblica amministrazione e nell’esercito. Secondo lo pseudo Crisostomo, la prima categoria è onesta, la seconda è disonesta. L’idea del valore intrinseco dei beni ritorna in questo passo attraverso l’altra sua faccia, cioè il lavoro manuale, che solo può giustificare il guadagno. È immorale, invece, ogni attività lucrativa là dove il lavoro manuale viene a mancare per essere sostituito dalla scaltrezza mercantile oppure dal desiderio di accedere a pubblici incarichi per solo spirito di guadagno.
Agostino, dal canto suo, nel De civitate Dei (413-426), dopo aver illustrato «la varietà e la moltitudine degli esseri esistenti distinti da Dio loro Creatore» dal punto di vista utilitaristico o della natura, introduce la distinzione tra il valore intrinseco di un bene e il suo valore economico:
Chi, infatti, non preferirebbe avere in casa sua pane anziché topi, denaro anziché pulci? Quale meraviglia, dunque, se, anche trattandosi di uomini la cui natura è tanto nobile, spesso si compera a più caro prezzo un cavallo che non un servo, una perla che non una schiava? Così, data la libertà di valutazione, vi è grande differenza tra il giudizio della ragione, la necessità dell’indigente e la voluttà di chi è in desiderio. Poiché chi riflette su una cosa, la giudica secondo il suo valore intrinseco, chi ne ha bisogno la giudica secondo l’utile che può ricavarne; la ragione ricerca ciò che appare vero alla luce della mente, la voluttà, invece, ciò che è piacere per i sensi del corpo (La città di Dio, a cura di A. Landi, 1973, p. 615).
Scrivendo queste parole, il vescovo di Ippona certamente non ha pensato al prezzo dei beni nel rapporto economico. Tuttavia i grandi moralisti fanno riferimento a questo passo nei loro trattati sul giusto prezzo. Il modo laconico in cui Agostino parla dei due sistemi di valutazione ha salvato la tradizione scolastica dal pericolo di formulare una dottrina del giusto prezzo del tutto staccata dalla realtà economica. Tradotto in un linguaggio più tecnico, Agostino dice che nello scambio economico i beni e i servizi vengono trattati non secondo il loro valore o la loro dignità intrinseca, ma secondo il significato o l’importanza che hanno per la persona che li desidera; in altre parole, secondo la loro relativa scarsità. Nello scambio economico, beni e prestazioni vengono ridotti a un denominatore comune, cioè al valore di scambio o prezzo.
Giovanni di Salisbury, infine, con il suo Polycraticus sive de nugis curialium et vestigiis philosophorum (scritto intorno al 1159) stabilisce la connessione tra il valore dei beni e l’intrinseco: «Non può essere senza valore, ciò che è il prezzo delle cose». E chiarisce:
Il pane e i viveri, che consistono in alimenti e vestimenti, sono in pregio in tutto il mondo. Le cose che dilettano i sensi, sono gradite a tutti. Che altro dire? Le cose che valgono per natura sono sempre le stesse per tutti. Quelle che seguono l’opinione hanno valore incerto: si affermano con le mode e con le mode svaniscono. L’imperatore dunque non tema di soffocare l’attività commerciale, poiché il comprare e il vendere furono pratiche usuali anche in quelle società che non conobbero il denaro (Policraticus. L’uomo di governo nel pensiero medievale, a cura di L. Bianchi, 1985, p. 61).
Non c’è dubbio che in questa affermazione si coglie il principio della domanda e dell’offerta. Appare evidente, da tutto ciò che affermano i tre autori, che ogni bene, ogni prestazione, ha il suo prezzo, indipendentemente dalla dignità, dalla fatica, dalle qualifiche o dai bisogni soggettivi dei lavoratori che lo hanno prodotto. I consumatori, in genere, non s’interessano della questione se, nella produzione di un bene, il lavoratore abbia avuto l’occasione di sviluppare la sua personalità o le sue qualità umane, se il suo salario sia stato sufficiente e così via. I consumatori vogliono avere il bene, e lo vogliono al prezzo più basso. Ciò che conta è l’intensità della domanda e l’abbondanza dell’offerta. In realtà, come si vedrà più avanti, i dottori medioevali supereranno quest’impostazione, aprendosi a una visione ben più ampia del problema.
Per considerare complessivamente il problema del giusto prezzo nel Medioevo partiamo dalle interessanti pagine che l’economista tedesco Joseph A. Schumpeter ha scritto sul valore economico e appunto sul giusto prezzo nella sua monumentale opera History of economic analysis (ed. E. Boody Schumpeter, 1954; trad. it. 1° vol, 1959, p. 103). Nell’evoluzione del pensiero scolastico sull’economia, egli distingue tre periodi: il primo, che va dal 9° al 12° sec., il secondo, che abbraccia il 13° sec., l’ultimo, che dagli inizi del 14° sec. arriva sino agli inizi del 17°. Nota Schumpeter che l’interesse per il problema economico, scarso nel primo periodo, si fa grande nel secondo e raggiunge il suo culmine nel terzo; egli arriva ad affermare che gli ‘ultimi scolastici’ sono i fondatori dell’economia moderna.
Ora si deve precisare che è invece nel secondo periodo – del quale occorre allungare lo spazio temporale di un secolo e mezzo rispetto alla scansione di Schumpeter – che si pongono le premesse per la successiva singolare e forte fioritura di riflessioni sull’economia. È proprio analizzando i fatti socioeconomici del 14° sec. che si possono constatare i fenomeni legati alla genesi della scienza economica. La nascita del mercato, del commercio e degli scambi; lo sviluppo della funzione imprenditoriale; l’invenzione di strumenti finanziari e creditizi; l’adozione di scritture contabili; il valore delle merci trasportate da un mercato all’altro: sono tutti segni di una ‘rivoluzione’ socioculturale, di nuove concezioni di vita e di nuovi ideali.
Proprio per questo sembra corretto indicare il dies ad quem per il tema del giusto prezzo nella prima metà del Quattrocento, periodo entro il quale si esprimono personaggi di grande spessore che, rendendosi conto delle mutate condizioni oggettive dell’economia, elaborarono e diffusero nuove formulazioni dottrinali: non solo calcolarono il valore oggettivo ma, partendo dalle utilità che dai beni ognuno può trarre, introdussero nel pensiero economico il valore soggettivo. Accanto al labor e alle operae posero l’industria e apprezzarono l’attività del mercante, le sue prestazioni, le spese, i rischi e le accumulazioni di risparmio che devono essere calcolati nella formazione del prezzo. Tutte analisi sull’agire economico che appartengono ormai di diritto alla storia del pensiero economico.
L’eredità del diritto romano, che determinava il prezzo di una transazione solamente in base all’interazione tra compratore e venditore, lasciando, al di là della frode, massima libertà di contrattazione, metteva in difficoltà i pensatori medioevali. Comprare e vendere per profitto, ammettere transazioni speculative, vendere le merci a un prezzo superiore a quello del loro acquisto senza necessità, aumentare il prezzo sulle vendite a credito: erano considerate tutte attività di usura nascosta, universalmente proibite.
Oltre al prezzo di mercato corrente, il giusto prezzo poteva anche essere fissato dall’autorità pubblica in casi di collusione o di emergenze. Vi erano, tuttavia, due punti di vista che apparivano decisamente in minoranza. Il primo sosteneva che il prezzo giusto fosse soltanto quello che, oltre al lavoro e alle spese, permetteva al venditore di mantenere la sua condizione sociale. Il secondo, che il prezzo giusto fosse il costo di produzione, più la compensazione per il lavoro e il rischio corso. Il primo è stato considerato tipico della dottrina scolastica del giusto prezzo, prendendo a esempio la posizione tomista che identificava il giusto prezzo con quello che è il valore economico dei beni o quel quid che ne stabilisce la misura in termini quantitativi. Il secondo ha fatto nascere la teoria del valore-lavoro di A. Smith (1723-1790), David Ricardo (1772-1823) e Karl Marx (1818-1883).
È utile il confronto tra il pensiero economico medioevale e l’economia scientifica per una serie di motivi: per l’influenza dell’uno sull’altra; per l’uso di una stessa terminologia; per aver indagato su un medesimo fenomeno (per es., sul valore e sul prezzo); per l’analogia di due eventi, identificativi di due periodi storici (la nascita della figura del mercante e la rivoluzione industriale). In questo senso molte intuizioni medioevali sono precorritrici della scienza sistematica.
Non è senza importanza che per la prima volta si ponesse così esplicitamente, come hanno fatto in genere gli scolastici, il problema del valore economico, intendendo la parola valore come sinonimo di prezzo vero, equo e giusto. Alla sua formulazione si pervenne indirettamente partendo da un discorso di filosofia morale: dalla necessità, cioè, di giudicare criticamente il prezzo in sede teologica. Per far questo occorreva porre una distinzione concettuale fra prezzo giusto e prezzo ingiusto; distinzione che trovò la sua equivalenza nel binomio valore-prezzo, e si espresse spontaneamente nella domanda se fosse lecito vendere una cosa a un prezzo diverso dal suo valore. Se si vuole riconoscere lecita la mercatura, bisognerà soprattutto giustificare il sovrappiù che essa tende a produrre e a smerciare. E questo si può fare affrontando il problema dell’analisi del valore e dell’analisi del prezzo.
Mentre la maggior parte dei teologi sembra non porsi questi problemi (essi rimangono influenzati razionalmente più dalle esigenze della giustizia commutativa definita da Aristotele), la scuola francescana cerca nella determinazione del valore economico il criterio oggettivo della giustizia negli scambi, secondo l’equazione che eguaglia il valore al prezzo, giungendo all’assunto che il mercante svolge un servizio utile (quindi produttivo) nei confronti della società civile.
I tre teologi francescani che qui sommariamente saranno considerati – Pietro di Giovanni Olivi, Giovanni Duns Scoto (il quale ha esercitato un grande influsso sui teologi scolastici italiani) e Bernardino da Siena – sono gli unici che abbiano indagato, con una certa organicità, il valore di scambio o prezzo dei beni. Le loro idee, specialmente nella versione scotista, faranno testo e nei secoli seguenti diventeranno un passo obbligato che si inserisce in tutte le Summae e trattazioni economiche.
Particolarmente interessante è la teoria del valore economico e del giusto prezzo, che l’Olivi (Pierre de Jean Olieu, 1248-1298) analizza nella prima parte del trattato De emptionibus et venditionibus, de usuris, de restitutionibus. Esso si compone di sette Quaestiones, secondo il seguente ordine: se le cose possono essere vendute lecitamente e senza peccato a più di quanto valgono o comprate a meno; se si possa stabilire il prezzo di una cosa in rapporto al valore determinato dall’utilità dei compratori o secondo qualunque vantaggio che ne abbiano i riceventi usandola; se il prezzo delle cose possa essere aumentato a causa della carestia, ossia della loro comune o personale scarsità; se il venditore sia tenuto a dire o manifestare al compratore tutti i difetti della cosa posta in vendita; se tutto ciò che nei predetti contratti illecitamente e colpevolmente eccede il giusto prezzo appartenga, secondo la giustizia divina, a colui dal quale fu tolto; se chi compra una cosa qualunque per rivenderla a un prezzo maggiore senza averla trasformata, come comunemente fanno i mercanti, pecchi mortalmente o venialmente; se chi aggiunge alle sue cose venali false misture, oppure chi con menzogna esagera oltre la debita misura il valore delle cose, pecchi mortalmente e sia tenuto alla restituzione del prezzo defraudato (Un trattato di economia politica francescana. Il “De emptionibus et venditionibus, de usuris, de restitutionibus” di Pietro di Giovanni Olivi, a cura di G. Todeschini, 1980, p. 51).
Dopo aver trattato nella quaestio prima il valore economico dato dall’uso che gli uomini fanno dei beni e dell’utilità che ne ricevono (variando l’utilità varia anche il valore: stima soggettiva dell’utilità dei beni), l’Olivi si pone il problema del giusto prezzo. L’angolo visuale è quello della giustizia commutativa. Il valore dei beni non si determina solo rispetto al loro uso personale, ma rispetto all’uso comune, e non soltanto per il solo bene privato, ma per quello di tutti:
Affermo che le cose non possono lecitamente essere vendute a più di quanto valgono, né comprate a meno, determinando il loro valore rispetto al nostro uso e al probabile giudizio dell’umana stima; giudizio che misura il valore delle cose nei limiti di una conveniente ampiezza (Un trattato di economia politica francescana, cit., p. 53).
Il «bonum comune» per l’Olivi è il primo degli elementi risolutori della sua analisi; il valore economico passa decisamente da un piano soggettivo – il piano dei concetti – a un piano di analisi collettiva, basata sul comune uso delle cose. Il soggetto non è più l’individuo che vive isolato, ma una persona che vive in una società, per il bene della quale deve rispettare il bene degli altri. Il passaggio da un tipo di analisi individuale a un tipo di analisi collettiva consente all’Olivi di introdurre in qualche modo il moderno concetto di mercato, come luogo (città, villaggio, communitas), dove avviene l’incontro tra domanda e offerta e dove viene stabilito concretamente il prezzo.
Normalmente – sostiene il teologo francescano – in un mercato i prezzi si stabiliscono in un modo che tiene conto (observat) di quattro circostanze: a) la graduatoria naturale dell’utilità delle cose (quendam naturalem ordinem utibilium rerum); b) l’ordinamento delle cose quanto alla loro abbondanza o scarsità (communem cursum copie et inopie seu paucitatis et abundantie); c) il lavoro, il rischio e la perizia necessaria per ottenere la disponibilità delle cose e dei servizi (laborem ac periculum et industriam adduzioni rerum vel obsequiorum); d) il grado e la dignità degli uffici (omnem gradum et ordinem officiorum et dignitatum eis ammixtarum) quanto alla determinazione delle retribuzioni (p. 56).
In altre parole – per usare lo schema dell’Olivi – una merce vale più di un’altra: perché è più adatta ai nostri usi per le sue intrinseche qualità; perché se ne sente di più il bisogno, essendo scarsa oppure difficile da reperire; perché soggettivamente è più desiderata di un’altra.
Bernardino da Siena nella sua trascrizione di questo passo nel Quadragesimale de Evangelio aeterno, composto tra il 1430 e il 1444, per esprimere sinteticamente questi concetti, introduce tre espressioni ben conosciute agli storici del pensiero economico: virtuositas, raritas, complacibilitas. Per virtuositas s’intendono le intrinseche qualità e proprietà che rendono un bene più adatto di un altro a soddisfare i nostri bisogni; la raritas di una merce riguarda, invece, la sua maggiore o minore quantità rispetto alla domanda, cioè la sua scarsità o difficoltà a essere trovata; la complacibilitas, infine, è la volontà soggettiva di appagare un bisogno piuttosto che un altro (gusto individuale e personale), stabilendo fra loro una gradualità (Quadragesimale de Evangelio aeterno, Sermones XXVII-LIII, in Opera omnia, studio et cura patrum Collegi s. Bonaventurae, 4° vol., 1956, pp. 190 e segg.). Pertanto, il valore economico si determina in funzione dell’utilità – sia nella sua forma oggettiva (virtuositas), sia nella sua forma soggettiva (complacibilitas) – e in funzione della raritas.
L’Olivi aggiunge che se i mercanti non sono scaltri nel prevedere le variazioni di prezzo, oppure le giuste valutazioni delle cose, possono anche non riottenere il loro capitale, e quindi si troverebbero nel disagio di dover vendere in perdita. Non solo, ma il guadagno del mercante non può escludere quello degli altri operatori economici. Gli artigiani, i commercianti, i contadini, i produttori in genere, devono ottenere il loro giusto guadagno. Per questo, il mercante, dopo aver acquistato una merce a un prezzo che consenta un conveniente guadagno per chi l’ha prodotta, può rivenderla dove può realizzare di più, a motivo della diversità dei prezzi da luogo a luogo, che dipende della scarsità o abbondanza della merce in quel mercato: e rende – così facendo – un servizio vantaggioso alla comunità. In altre parole, i mercanti comprano dove la merce abbonda, pagandola meno, e la rivendono dove scarseggia, facendola pagare di più. È questa veramente la migliore e la più moderna tra le teorie del valore elaborate per contribuire allo sviluppo della scienza economica.
Duns Scoto (1265/1266-1308), dopo aver analizzato l’origine della proprietà privata, parte dalla distinzione fra commutatio economica e commutatio negotiativa. La prima, cioè lo scambio economico, è fatta in vista dell’uso della cosa ottenuta, mentre la seconda, cioè lo scambio negoziativo, non è fatta per l’uso, ma allo scopo di rivendere la cosa acquistata successivamente e a un prezzo più alto. Quest’ultimo tipo di scambio è anche chiamato da Duns Scoto commutatio pecuniaria vel lucrativa.
Ma, al di là delle sottili differenziazioni sulle regole fondamentali del giusto scambio, Scoto imposta il problema del valore economico in maniera più originale rispetto agli scolastici che lo hanno preceduto. Egli, infatti, distingue il valore in naturale e usuale. Il valore naturale sarebbe quello obiettivo, messo da Dio nella creatura: «Un essere vivente (un topo, una formica, una pulce) vale di più di una cosa inanimata (pane), che non ha vita, anima e sensi» (Quaestiones in libros quatuor sententiarum, cum commentario R.P.F. Antonii Hiquaei, 1639, p. 166).
L’altro valore, che in termini moderni chiamiamo valore economico e che dal ragionamento del doctor subtilis ha avuto la sua originale intuizione, è quello ‘usuale’, che si assume nei riguardi dell’uso umano.
Poiché frequentemente le cose che sono più nobili nella loro sostanza naturale, sono meno utili quanto agli usi umani e quindi sono anche meno preziose (Quaestiones, cit., p. 166).
Sotto questo profilo, tanto più le cose sono utili ai nostri usi tanto più valgono, e perciò il pane vale più del topo. È vero, il topo, la formica e la pulce hanno la vita, e sono quindi naturalmente più ‘nobili’ del pane; ma il pane vale economicamente molto di più per la sua utilità di nutrire gli uomini. Poiché la compravendita delle merci risponde allo scopo dell’uso della vita umana, il loro valore è determinato da questo secondo tipo e non dal primo.
Passando all’analisi che Duns Scoto fa dello scambio propriamente mercantile, egli sostiene, in sostanza, che i mercanti acquistano i beni non già per usarli, ma per venderli più cari. Ma a questa regola generale ne aggiunge una di carattere etico: in ogni tipo di scambio il mercante deve svolgere un servizio utile alla società, e per questo ha diritto a ricevere un’adeguata remunerazione (p. 185). Le condizioni alle quali si può considerare che i mercanti rechino un servizio utile alla comunità sono: se essi trasferiscono da un posto all’altro cose utili, se le conservano, se le migliorano, se aiutano la gente comune a giudicare rettamente il valore e il prezzo delle cose (p. 186).
Sulla base di questo servizio reso allo Stato e alla collettività, Duns Scoto ammette e giustifica l’acquisto delle merci non per il bisogno, ma per la vendita da farsi con guadagno:
Chiunque serve lo Stato in una attività lecita, ha diritto di vivere del proprio lavoro. Inoltre […] il commerciante può con giustizia conseguire, oltre la propria sussistenza e quella della famiglia per cui lavora, una ulteriore ricompensa per le proprie capacità e per i rischi che affronta. Infine, può anche ottenere un quid che copra i rischi che si assume sia importando che conservando le merci (p. 186).
L’economia perciò diventa lo strumento del guadagno personale, che si sublima nell’utilità al bene comune, alla società, in una sintesi mirabile tra particolare e universale, soggetto e collettività, individuo e società. Il mercante esaltato da Duns Scoto – se in una comunità venissero a mancare gli imprenditori, la collettività si troverebbe infatti nella necessità di pagare dei funzionari pubblici che svolgano le stesse funzioni, magari con il rischio di minore professionalità – con la sua attività provvede al proprio guadagno, ma, mettendo a disposizione di tutti una merce, anche al bene della società.
Al centro del pensiero economico di Bernardino da Siena (1380-1444) si pone il problema: se il mercante dev’essere colui che gode di buona fama, in quanto attento al bene comune e alla felicità pubblica, diventa indispensabile fornire alcuni criteri per riconoscerlo, o meglio per identificare chi non lo è in modo autentico. Dato lo stretto legame tra attività commerciale e attenzione alla comunità, ne consegue il fatto che non ci si possa fidare di coloro che vivono non pienamente integrati nella vita civica, come si riteneva allora avvenisse nel caso di ebrei ed eretici, le cui attività erano giudicate dai predicatori francescani come la negazione dell’economia solidale e mercantile che deve, invece, caratterizzare il vero mercante. Da qui l’origine di una condotta economica etica.
Secondo Bernardino coloro che sono dediti a produrre le mercanzie devono essere uomini di fede, innanzitutto nella loro famiglia, poi nel mercato, a beneficio di tutta la città. Le ricchezze non devono essere accantonate improduttivamente, ma fatte circolare in modo produttivo. Secondo il predicatore senese, quindi, il prezzo è un fenomeno sociale e non è definito da una decisione arbitraria degli individui, ma collettivamente dalla comunità. Come? Vi sono due possibilità: il prezzo di un prodotto può essere fissato o dalle autorità pubbliche per il bene comune, o dalla stima cui è giunto in quel momento il mercato. Nel Quadragesimale de Evangelio aeterno chiarisce: «Il prezzo dei beni e dei servizi è definito per il bene comune, tenendo in debita considerazione la valutazione o la stima comune fatta collettivamente dalla comunità dei cittadini» (Quadragesimale, cit., pp. 197-98), o meglio «dalla stima comune, che è il prezzo di mercato» (pp. 157-58).
Il primo è il prezzo legale; il secondo è il prezzo di mercato, che in seguito verrà chiamato prezzo naturale. Bernardino sottolinea che il prezzo di mercato dev’essere accettato dal produttore e che è equo indipendentemente dal fatto che egli guadagni o perda, cioè che il prezzo sia sopra o sotto al costo. Anzi, Bernardino sostiene che il prezzo dovrebbe essere uguale per tutti e che nessuno può far pagare di più agli stranieri rispetto agli acquirenti locali o approfittare dell’ignoranza del compratore, della sua rozzezza o di un suo bisogno particolare (pp. 148-49). Egli non ignora che i prezzi aumentano o diminuiscono in funzione della scarsità (inopia) o dell’abbondanza (copia). Spiega tali fluttuazioni adducendo la motivazione che quanto è raro è per questo anche costoso, mentre l’abbondanza porta deprezzamento. Naturalmente Bernardino, come molti altri scolastici, critica aspramente la regolamentazione dei prezzi e si dichiara contrario a ogni forma di monopolio (pp. 153-54).
Antonino da Firenze, che segue anche sui prezzi la dottrina del senese, da moralista qual era, marchia nella Summa theologica (composta tra il 1440 e il 1459) il monopolio come pratica «nefasta, illecita e punibile con la confisca dei beni e l’esilio perpetuo» (ed. a cura di P. e G. Ballerini, 1740, rist. anast. a cura di I. Colosio, 1959, col. 328a). Gli scolastici erano, infatti, favorevoli alla libertà o alla concorrenza più di quanto si ritenga generalmente. La loro ostilità nei confronti dei monopoli era fortemente marcata, e non si fidavano del sistema della regolamentazione dei prezzi per mantenere la pace sociale tra le classi.
Certamente questa dottrina sul giusto prezzo, che arriva fino agli ultimi scolastici del 17° sec. e viene consegnata sia alla scuola italiana dell’economia civile di Antonio Genovesi e di Pietro Verri sia alla scuola scozzese di filosofia morale del mercato di Francis Hutcheson e A. Smith, non è lontana dai principi della scuola classica (seconda metà del 18° sec.-seconda metà del 19° sec.), detta economia politica.
Questa nuova scienza, con scopi diversi, avrebbe riproposto le sue analisi riprendendo le vecchie idee e usando in modo nuovo un lessico pazientemente creato dalla scolastica. Naturalmente con la scienza economica si entra in un clima diverso, perché si introduce l’idea di sviluppo economico – inteso come progresso civile – che era estranea alla ‘Schola’. In tale nuova prospettiva sta la vera differenza fra il pensiero economico medioevale scolastico e quello sistematico classico, che raggiunge l’autonomia scientifica.
Ioannis Duns Scoti Quaestiones in libros quatuor sententiarum, cum commentario R.P.F. Antonii Hiquaei, Lugduni 1639.
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