GIZYAH
. Vocabolo arabo d'origine aramaica, che significava "tributo" in genere, ma che, in base a un passo del Corano (IX, 29), designò nel diritto musulmano il testatico o tributo personale annuo gravante sui dhimmī (v.), ossia sui non musulmani sudditi dello stato islamico, quale corrispettivo della libertà di culto loro concessa e della protezione accordata alle loro vite e averi.
La gizyah è dovuta da ogni dhimmī maschio, libero, maggiorenne, sano di mente e in condizione di poter pagare; essa dovrebbe essere riscossa dall'esattore con atto di dispregio verso il contribuente (in base a un'eccessiva interpretazione del passo coranico predetto); il suo provento deve essere erogato dall'erario a esclusivo vantaggio dei musulmani. Il suo ammontare dipende dai patti conclusi al momento della resa, qualora si tratti di territorio d'infedeli conquistato senza combattimento per capitolazione pacifica; in caso diverso le autorità lo determineranno secondo il loro prudente arbitrio, ma non mai in quantità inferiore a un dīnār (v.) legale per persona. Nell'impero ottomano la gizyah continuò ad essere riscossa anche dopo la proclamazione dell'eguaglianza di tutti i sudditi ottomani senza distinzione di religione (1839), finché il firmano imperiale del 10 maggio 1855 non venne a sostituire la gizyah con una tassa di esenzione dal servizio militare imposta agli Ebrei e ai cristiani.
I re normanni di Sicilia (1072-1194), succedendo al dominio musulmano, conservarono il testatico e il rispettivo nome di gezia sugli Ebrei; non sembra che lo abbiano applicato ai loro sudditi musulmani, o per lo meno per questi non applicarono il nome odioso di quell'imposta.
Bibl.: Th. W. Juynboll, Man. di dir. musulmano, trad. G. Baviera, Milano s. a. [1916], pp. 217-221 (3ª ed. olandese, Leida 1925, pp. 348-54); C. H. Becker, art. Djizya, in Encyclop. de l'Islam, ed. francese, I (1913), pp. 1082-1083; N. P. Aghnides, Moham. Theories of Finance, New York 1916, pp. 398-408.