Gli Antiqui e il Medioevo
Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Il sapere altomedievale si sviluppa in un continuo confronto con le fonti classiche. Accanto alla sopravvivenza testuale di opere antiche, che permette una conoscenza diretta della filosofia greca e latina, bisogna riconoscere una influenza indiretta relativa principalmente ad autori neoplatonici e commentatori aristotelici. Fondamentale è anche l’apporto degli enciclopedisti, i quali riassumono i risultati del sapere pagano in forme più adatte alle nuove esigenze culturali.
Alessandro di Afrodisia
De anima
L’intelletto produttivo è causa dell’abito dell’intelletto materiale. Esso è la forma intelligibile in senso proprio e al più alto grado, cioè la forma immateriale. In tutti i generi di cose, infatti, l’essere che possiede al più alto grado e fondamentalmente una proprietà, è causa dell’esistenza di questa proprietà negli altri esseri. Così il visibile al più alto grado, cioè la luce, è causa della visibilità degli altri visibili; e il bene supremo e sommo è causa della bontà degli altri beni: difatti si giudica del valore di questi, a seconda del loro contributo al possesso del bene supremo. Ciò dunque che è intelligibile al più alto grado e per sua natura è, evidentemente, causa della conoscenza delle altre cose: e tale è dunque l’intelletto produttivo. Se infatti non esistesse qualche intelligibile per natura, nessun’altra cosa potrebbe divenire intelligibile […]. Sempre, infatti, là dove esiste un essere che possiede pienamente una proprietà e un altro che la possiede in grado minore, quest’ultimo la riceve dal primo.
Alessandro di Afrodisia, De anima, in Alessandro di Afrodisia fra naturalismo e misticismo, a cura di G. Movia, Padova, Antenore, 1970
La cultura europea dei secoli dal VI all’XI, il periodo comunemente definito alto Medioevo, sorge dall’incontro fra la sapienza cristiana e quella classica. Tranne rari casi di rigida chiusura intellettuale, infatti, i dotti di quest’epoca riconoscono esplicitamente il proprio debito con il patrimonio di conoscenze pagane, che si propongono, da una parte, di adattare alla Rivelazione e, dall’altra, di conservare contro il generale dissolvimento politico e culturale successivo alla caduta dell’Impero romano. Per quanto riguarda la filosofia, questa conservazione significa anzitutto la copiatura manoscritta e, se necessario, la traduzione dei classici antichi: ma la diffusa ignoranza del greco e la decadenza degli studi comportano, fino alla "riscoperta" del XIII secolo, la perdita di moltissimi testi filosofici. La conoscenza altomedievale delle opere di Aristotele è limitata ai soli scritti logici, tradotti nel VI secolo da Severino Boezio, il quale correda le proprie versioni di commenti esplicativi. Di Platone è nota soltanto una parte del Timeo, volta in latino dal neoplatonico Calcidio che pure vi aggiunge un commentario. Le prime traduzioni del Menone e Fedone, peraltro poco diffuse, risalgono a un periodo successivo (metà XII sec.) e sono opera dell’arcidiacono siciliano Enrico Aristippo. Numerose informazioni sul neoplatonismo possono poi ricavarsi, oltre che dallo stesso Boezio, da Ambrogio Teodosio Macrobio, autore di un commentario al Sogno di Scipione, l’excursus filosofico contenuto nel VI libro della Repubblica di Marco Tullio Cicerone. Infine, gli scritti filosofici e retorici dello stesso Cicerone, e le operette morali di Lucio Anneo Seneca, divengono una miniera d’informazioni per tutta una serie di correnti (stoicismo, epicureismo, scetticismo, probabilismo accademico) sulle quali il primo Medioevo ha solo una conoscenza incompleta e frammentaria.
L’ascendente della filosofia antica sull’alto Medioevo si sviluppa anche, se non soprattutto, in forma indiretta.
Del tutto peculiare è l’esperienza del filosofo carolingio Giovanni Scoto Eriugena: la conoscenza del greco, caso molto raro per il IX secolo, gli permette di tradurre e studiare gli scritti del teologo bizantino Massimo il Confessore e il corpus anonimo tramandato sotto il nome di Dionigi l’Aeropagita, il membro del senato ateniese che, secondo il racconto degli Atti degli Apostoli (17, 19-34), decide di convertirsi al cristianesimo dopo aver ascoltato un discorso di san Paolo. I trattati di Dionigi, fortemente influenzati da un neoplatonismo riletto in chiave cristiana, diventano così la fonte principale per la conoscenza di questa corrente filosofica nell’alto Medioevo. In particolare, tutta la sezione sul male nello scritto Dei nomi divini deriva quasi alla lettera da Proclo; questi è comunemente considerato il più autorevole sistematore del patrimonio filosofico elaborato da Plotino, il capostipite della scuola. La Teologia mistica dionisiana accoglie inoltre l’idea, fondamentale per i neoplatonici, che Dio sia al di là dell’essere e non si identifichi quindi con quest’ultimo, idea che condizionerà Johannes Eckhart e i mistici renani. Leggendo Dionigi, Giovanni Scoto accede così, pur se indirettamente, al cuore del neoplatonismo, e mette a frutto queste conoscenze nella sua opera principale, Sulla divisione della natura, spesso considerata con sospetto dalle autorità ecclesiastiche. Il neoplatonismo, infatti, offre per alcuni fondamentali problemi filosofici (primo fra tutti quello della creazione, descritta attraverso un processo emanazionistico necessario) una risposta razionale alternativa alla fede cristiana.
Fra gli altri pensatori neoplatonici che ispirano gli autori medievali, il posto d’onore spetta a Porfirio, che fu discepolo diretto di Plotino. Il suo breve scritto Isagoge, una elementare introduzione alla logica aristotelica, viene tradotto in latino da Boezio: nonostante le limitate pretese didattiche, l’opera è all’origine della questione degli universali, dato che nelle prime righe, senza pronunciarsi per nessuna di esse, Porfirio dispiega tutte le soluzioni proposte dai filosofi classici al problema dell’esistenza e della natura delle idee. È sugli spunti porfiriani, appunto, che si basano le trattazioni medievali dell’argomento.
Più limitato l’influsso di Giamblico, altra rilevante figura della scuola neoplatonica: la sua speculazione è animata da un lato dal tentativo di conciliare fra di loro Platone e Pitagora, dall’altro dall’esigenza di inquadrare in un sistema filosofico-scientifico gli insegnamenti della religione pagana, in modo da offrire a questi ultimi una giustificazione razionale che li difenda dagli attacchi cristiani. Nei suoi scritti insiste particolarmente sull’idea che la filosofia platonica sia essenzialmente teologia; rispetto a essa, le opere di Aristotele sono una sorta di preambolo che conduce alla verità. L’immagine di un Plato theologus e di un Aristoteles logicus diviene perciò comune nei pensatori medievali.
Indispensabile trasmettitore di idee filosofiche antiche è poi Giovanni Filopono, il cui pensiero è però misconosciuto nell’alto Medioevo. Cristiano di nascita ma discepolo del pensatore neoplatonico Ammonio di Ermia, è una delle ultime figure di spicco della rinomata Scuola di Alessandria, attiva in Egitto fin dal II secolo d.C. Nel 529, anno in cui Giustiniano decreta di fatto la fine della filosofia pagana chiudendo la Scuola di Atene, Giovanni pubblica l’opera Sull’eternità del mondo contro Proclo, nella quale distrugge uno dei capisaldi della filosofia aristotelica in favore dell’idea cristiana di creazione. Gli argomenti da lui esposti saranno ripresi da Bonaventura da Bagnoregio, che li utilizzerà contro gli averroisti. I commentari aristotelici di Giovanni vengono conosciuti solo tardivamente, ma condizionano i filosofi arabi ed ebraici che saranno poi, a loro volta, importanti termini di confronto per gli scolastici.
Gli scritti dei neoplatonici sono infine conosciuti direttamente da Agostino d’Ippona, che da essi deriva la maggior parte delle proprie conoscenze filosofiche, nonché dal retore Mario Vittorino, autore di commenti biblici e manuali di scuola molto letti nel Medioevo. In generale, platonismo e neoplatonismo permeano tutta la speculazione cristiana tardo-antica di area greca, e influiscono di riflesso anche in Occidente: per caratterizzare la filosofia di quest’epoca, l’autorevole medievista Étienne Gilson usa appunto l’espressione "platonismo dei padri" (La filosofia nel Medioevo, trad. it. 1973, p. 110).
Il filosofo tardo-antico più influente nel Medioevo, per quanto assolutamente sconosciuto fino al tardo XII secolo, non appartiene però alle scuole neoplatoniche, ma è professore pubblico di filosofia aristotelica fra 198 e 209, sotto l’imperatore Settimio Severo.
Alessandro di Afrodisia “fu di gran lunga il maggiore dei commentatori di Aristotele” (G. Reale, Storia della filosofia antica, vol. 4: Le scuole dell’età imperiale, 1978), meritando il titolo di "secondo Aristotele". Il Medioevo è particolarmente interessato alle sue teorie psicologiche, che egli espone sia nel suo commento al De anima aristotelico, che in due trattati originali, De anima e De intellectu.
Il problema centrale è rappresentato dalla natura dell’intelletto umano e, di conseguenza, dal modo in cui avviene la conoscenza: le incertezze di Aristotele al riguardo (si veda il celebre quanto criptico passo di De anima, 430a 11) hanno moltiplicato le possibili interpretazioni almeno fino al XVI secolo, e sulla stessa posizione di Alessandro non tutti gli studiosi sono concordi. Interpretando il De anima, Alessandro distingue tre intelletti: quello fisico o materiale, che è pura potenzialità di conoscere le forme delle cose per mezzo dell’astrazione; quello acquisito, che rappresenta la realizzazione di questa potenzialità; e quello agente o produttivo, ovvero la causa che permette all’intelletto materiale di separare e considerare a parte le forme. Quest’ultimo sembra identificarsi in Alessandro con il Primo Principio, ed è causa della conoscenza di ogni altra cosa allo stesso modo in cui la luce è causa della visibilità di tutto ciò che può vedersi; esso infatti è ciò che è conoscibile nel senso più alto e più perfetto, e senza il suo apporto non può conoscersi nulla come senza la luce non può vedersi nulla. I primi due intelletti rappresentano invece in certo modo due "momenti" differenti dello stesso intelletto umano, prima e dopo l’acquisizione di una determinata conoscenza.
Precisando ulteriormente la propria posizione, Alessandro chiarisce che la funzione dell’intelletto produttivo è quella di essere “causa dell’habitus alla conoscenza dell’intelletto materiale”; in altre parole, di offrire a quest’ultimo la possibilità stessa di conoscere, che dopo ripetute esperienze diventa una "disposizione costante" (è questo il senso del termine tecnico latino) alla conoscenza. Grazie all’intervento dell’intelletto produttivo, che molti filosofi medievali intendono come una sorta di illuminazione, l’uomo è in grado di astrarre le forme dalla materia, attivando il proprio intelletto materiale "trasformandolo" così in acquisito, e conseguendo quindi la vera conoscenza delle cose.
Fino alla metà del secolo scorso, gli studiosi aristotelici hanno considerato questa interpretazione psicologica alessandrina come improntata al più rigido naturalismo, e hanno escluso categoricamente che il filosofo attribuisca l’immortalità all’intelletto umano. Molti pensatori medievali, a cominciare dallo stesso Filopono, si preoccupano del resto di correggere questo aspetto così contrario ai principi cristiani.
Un’analisi più attenta dei testi di Alessandro dimostra però che egli ammette, in modo del tutto originale, la possibilità per l’uomo di rendersi immortale: questo avviene quando l’intelletto materiale pensa Dio e in certo modo si assimila a Lui, immortale per natura. L’unico elemento che non si dissolve alla morte del corpo è quindi l’idea “di Dio stesso eterno e incorruttibile, idea che viene dal di fuori del nostro intelletto quando pensiamo Dio” (G. Movia, Alessandro di Afrodisia fra naturalismo e misticismo, 1970). Queste teorie avvicinano Alessandro alla speculazione neoplatonica (egli è d’altro canto fonte di Plotino) e colorano la sua filosofia di un certo misticismo che lo colloca meglio fra le correnti del tempo (per designare la sua posizione si parla oggi di "neoaristotelismo").
Presto recepite dai neoplatonici Temistio e Simplicio, le tesi alessandrine incontrano il massimo favore fra i filosofi arabi, e vengono conosciute in Occidente alla fine del XII secolo, sia attraverso la traduzione latina del De intellectu redatta a Toledo, sia con la diffusione di commentari greci e arabi al De anima dove Alessandro viene citato. Tutto ciò garantisce al filosofo ellenistico una decisiva influenza sul pensiero scolastico, nel quale il problema degli intelletti è un momento centrale di riflessione.
L’esigenza di “tradurre, commentare, conciliare, trasmettere” (É. Gilson, La filosofia nel Medioevo, trad. it. 1973) il sapere antico, propria del tardo Antico e dell’alto Medioevo, si esprime infine nella compilazione di enciclopedie, compendi organizzati (ma molto spesso imprecisi o superficiali) di tutto lo scibile. Queste opere-contenitore sono più funzionali alle esigenze intellettuali di un’epoca che non si propone più il rigoroso approfondimento intellettuale, quanto piuttosto il semplice conseguimento di un accettabile livello di cultura per gli ecclesiastici, ormai unici depositari del sapere.
L’enciclopedia più celebre del Medioevo è quella dell’avvocato africano Marziano Capella: il suo Le nozze di Mercurio e Filologia, in nove libri, è uno dei testi base dell’erudizione fino al XII secolo, ed è anch’esso influenzato da correnti neoplatoniche. Un manuale molto più agile e scarno solo le Istituzioni di Flavio Aurelio Magno Cassiodoro, in soli due libri, uno dedicato alle indispensabili conoscenze di carattere religioso e l’altro al sapere profano. L’interesse per il sapere classico è evidente anche nella più vasta enciclopedia altomedievale, le Etimologie (in venti libri) del vescovo spagnolo Isidoro di Siviglia. L’esigenza di scritti di questo tipo si manifesta pure nelle epoche successive: all’inizio dell’VIII secolo risale il Sulla natura delle cose del sapiente inglese Beda il Venerabile, mentre è dei primi anni del IX l’omonimo trattato del vescovo tedesco Rabano Mauro, il quale meritò al suo autore il titolo di "precettore della Germania". È con la lettura di questi scritti, tutti dipendenti dalla sapienza antica, che la nascente cultura europea muove i primi passi verso l’autonomia di pensiero.