di Anna Longhini
In occasione del cinquantesimo anniversario della costituzione del think tank tedesco per gli affari e la sicurezza internazionali Swp (Stiftung Wissenschaft und Politik), nell’ottobre 2012, l’allora ministro degli esteri di Berlino Guido Westerwelle prendeva atto di come la politica estera contemporanea fosse ormai condotta all’interno di una vera e propria rete di attori statali e non statali. Westerwelle proseguiva il suo discorso spiegando che in un tale contesto dovevano necessariamente mutare anche le funzioni tipiche del ministero degli esteri: quest’ultimo deve avere funzioni di coordinamento e di costruzione di partnership volte a favorire un lavoro congiunto di tutti i cosiddetti portatori di interesse della politica estera, pur rimanendo la cabina di regia di un meccanismo decisionale quanto mai complesso.
La descrizione del nuovo funzionamento della politica estera da parte di Westerwelle non è lontana da una concezione che si avvicina, nell’ambito delle scienze sociali, più alla letteratura delle politiche pubbliche che a quella delle relazioni internazionali. Se infatti quest’ultima è una disciplina che ha fino ad ora contribuito a costituire una vasta letteratura stato-centrica e unitaria, l’approccio delle politiche pubbliche è da sempre stato maggiormente incline a considerare modelli pluralisti, cosiddetti multi-attoriali. Tali modelli sono, tuttavia, stati adottati soprattutto nella spiegazioni di politiche diverse dalla politica estera, poiché il livello nazionale e quello internazionale hanno per così dire camminato su binari disciplinari paralleli. Ciò nonostante diversi sforzi, come ad esempio gli studi di Robert Putnam alla fine degli anni Ottanta, abbiano tentato di conciliare due aspetti che sono ormai difficilmente scindibili.
Oggi nello studio della politica estera non è più possibile prendere in considerazione un unico, seppur importante, decisore centrale (‘lo stato’), ma occorre considerare anche i cosiddetti attori non statali. Si consideri che secondo una recente definizione di Giliberto Capano – uno dei principali studiosi della disciplina in Italia – la politica pubblica è un fenomeno complesso nel quale elementi istituzionali, regole formali, idee, interessi e istituzioni politiche, interagiscono, spesso attraverso la strutturazione di network. È proprio a tali network formali o informali che partecipano una moltitudine di attori o coalizioni di attori, così che il processo decisionale diviene, come è stato definito negli anni ottanta dalla studiosa americana Carol Weiss, diffuso. Questo non significa attribuire forzatamente un peso eccessivo ad attori meno rilevanti dello stato. Significa, invece, riconoscere che nella creazione, ideazione e formulazione della politica estera è innegabile che ormai diverse organizzazioni (tra cui diversi gruppi di interesse, think tank, media, Ong, ecc.) competono o interagiscono, secondo diverse strategie, per influenzare talora il dibattito pubblico, talvolta il dibattito dei decisori pubblici.
Una delle ragioni principali che ha relegato lo studio degli attori non statali e, in particolare quelli della politica estera, ai margini della letteratura, è dipeso dal fatto che il loro impatto è difficile da accertare, tanto più da misurare. Questo perché come ha notato il politologo americano Donald Abelson in una vera e propria arena sempre più affollata di opinioni è difficile isolare la o le voci che sono in grado di fare la differenza. A complicare un tale scenario vi sarebbero poi le osservazioni secondo cui il contesto in cui gli attori delle politiche operano non è soltanto un contesto nazionale, ma si sarebbe trans-nazionalizzato. Occorre tuttavia ricordare come a oggi il sistema politico cui questi attori fanno riferimento (siano essi operanti a livello nazionale o transnazionale) influenza a sua volta le loro strategie e la loro azione ultima. In ultimo, nessuno di questi attori ha la responsabilità di governare. Cosa che li rende ancora più difficili da analizzare. Eppure, secondo una ricerca sulla politica estera statunitense degli studiosi Lawrence Jacobs e Benjamin Page, pubblicata nel 2006 dalla prestigiosa American Political Science Review, emergerebbe come alcuni attori non statali sono più influenti di altri. È questo il caso in primo luogo dei gruppi di interesse e in secondo luogo degli esperti. Considerati i più influenti tra gli attori non statali perché spesso operano a favore di una non definizione dell’agenda politica, i gruppi hanno a disposizioni diversi strumenti per influenzare il policy-making. Uno di questi è noto come lobbying, ovvero un insieme di strategie e tattiche che possono avere natura anche transnazionale, volte ad assicurarsi, per esempio, regimi fiscali e condizioni economiche e del mercato del lavoro favorevoli. Un altro strumento è invece noto come advocacy. Quest’ultimo è appannaggio non solo dei gruppi ma anche dei think tank e costituisce l’insieme di azioni volte a supportare e promuovere una posizione di policy ben definita su determinate questioni. L’advocacy, in questo contesto, è lo strumento attraverso cui è possibile creare o mantenere vivo un dibattito pubblico su una questione saliente. In entrambi i casi descritti, non si può più fingere che questi strumenti non siano utilizzati con diversi gradi di efficacia nelle numerose questioni che vanno sotto la dicitura ‘politica estera’ da attori che non appartengono al governo, al ministero o alla diplomazia ufficiale. Il loro ruolo è tale che la loro azione ha contribuito a coniare il concetto di track two o di diplomazia parallela, un ambito ancora poco osservato in cui esperti e rappresentanti della società civile, separatamente o insieme a rappresentanti dei governi o delle amministrazioni, si incontrano in luoghi lontani dai riflettori per cercare soluzioni condivise a situazioni di crisi internazionali.