Gli ebrei nell'Alto Medioevo
Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Fra il V e il X-XI secolo le caratteristiche della presenza e della consistenza della comunità ebraica all’interno di quella cristiana mutano profondamente: si avvia, fra l’altro, il processo di emarginazione degli ebrei dalla vita pubblica. A causa della scarsità di fonti che contraddistingue l’intero periodo è ancora necessario, all’occorrenza, limitarsi a rilevare quanto è noto per le aree meglio documentate, fra cui l’Italia meridionale. Tuttavia si può evidenziare una presenza ebraica diffusa e prospera, almeno inizialmente, soprattutto nelle regioni mediterranee, dalle quali le persecuzioni bizantine e le scorrerie islamiche, nel IX secolo, spingono numerosi nuclei familiari verso l’area centro-settentrionale – Linguadoca, Provenza, area renana – ove si pongono le basi delle comunità ashkenazite (franco-tedesche) europee.
Il periodo compreso fra la fine del V secolo e il Mille, sul quale anche per quanto riguarda la storia ebraica grava il peso della generalizzata scarsità di fonti, costituisce lo scenario in cui si avvicendano processi lunghi e complessi, al termine dei quali si giunge a una sensibile ridefinizione del ruolo e della posizione degli ebrei nella società europea.
Il punto di partenza di tale percorso affonda le sue radici già nel IV secolo, ossia risale al momento della cristianizzazione dell’impero, quando va a precisarsi la marginalizzazione degli ebrei dalla società cristiana. Tale atteggiamento trova ben presto modo di manifestarsi al di fuori della sfera strettamente religiosa e giunge a investire lo status stesso dell’elemento ebraico nella comune compagine. Nel corso del V secolo la legislazione riguardante gli ebrei, seppure considerati nefaria secta, non è priva di elementi dell’antica e relativa tolleranza: la sezione specifica del Codex Theodosianus (16.8, De iudaeis, caelicolis et samaritanis) mostra nondimeno, nel 439, il duplice approccio della nuova società cristiana nei confronti di una minoranza di cui, da un lato, si tende a limitare quanto più possibile i diritti e le autonomie; ma che, dall’altro, si cerca di non alienare completamente dal corpo sociale, di cui costituisce una componente ancora utile; per esempio, nell’obbligo di partecipazione alle cariche pubbliche, in particolare alle onerose magistrature municipali.
Il Codex Theodosianus, nel ribadire il diritto all’esistenza dell’ebraismo – “Iudaeorum sectam nulla lege prohibitam satis constat” (“la setta giudaica non risulta sia mai stata proibita da alcuna legge”, in C.Th. 16.8.9) – richiama alle curie cittadine gli ebrei senza eccezione ma, d’altro canto, conserva tutte le limitazioni antiebraiche che erano già nella legislazione anteriore, specialmente nei punti più separatisti (quali i divieti sulle conversioni e i matrimoni misti). La definitiva frammentazione del potere temporale fra Oriente, Occidente e papato, nel VI-VII secolo conduce a soluzioni diversificate anche nelle questioni ebraiche. In Italia, per esempio, mentre le aree sottoposte a Bisanzio risentono della dura legislazione imposta da Giustiniano, nei territori amministrati dai Longobardi il clima appare più disteso, ma non in quelle occasioni in cui ha modo di farsi sentire la mano della Chiesa. Del tutto diverso, e peraltro favorevole, sarà l’ambiente siciliano nel periodo islamico.
Sulla terraferma, però, l’autorità del Codex Iustiniani e della sua successiva integrazione (le Novellae) si fa sentire anche al di fuori del mondo bizantino e riguarda, ad esempio, il divieto per gli ebrei di acquistare proprietà ecclesiastiche e la loro esclusione dagli onori collegati al servizio presso le amministrazioni locali, pur restando soggetti ai relativi oneri. È su tali basi legislative – opportunamente integrate dalla tesaurizzazione della polemica antigiudaica ereditata dai Padri della Chiesa, in espansione per tutto il Medioevo – che le autorità ecclesiastiche si sentono talora in diritto di assoggettare le comunità ebraiche dei propri territori a varie forme di vessazione che in seguito si troveranno più sistematicamente adottate nella storia europea, quali l’obbligo di assistere a prediche coatte, specialmente nei giorni festivi, o il divieto di mostrarsi in pubblico durante la settimana santa, motivato dal rischio di incidenti e linciaggi. I frequenti richiami ai vescovi e l’atteggiamento complessivamente più moderato di Gregorio Magno non hanno particolare seguito nei secoli successivi, sui quali purtroppo la documentazione è assai scarna.
In forza della crescente separazione fra mondo ebraico e mondo cristiano, a differenza dell’età tardoantica, l’alto Medioevo si caratterizza anche per il modo in cui emergono gli spazi visibili – sociali, economici, religiosi e culturali – dell’ebraismo in rapporto e in proporzione, ma non paralleli, a quelli della società circostante. L’analisi di tali evidenze deve limitarsi, però, a quelle poche aree europee per le quali si dispone di maggiori testimonianze, una delle quali è senza dubbio l’area mediterranea, dove le fonti sono maggiormente concentrate, come in Italia meridionale e in Spagna. Solo molto più tardi, nel IX secolo, s’inizia ad avere materiale significativo per la Provenza e, più a est, entro l’area renana. Fra il V e l’XI secolo è comunque l’Italia meridionale (e particolarmente la fascia apulo-lucana e salentina) a dominare largamente nella documentazione.
Il migliore spaccato della società ebraica meridionale fra tarda Antichità e alto Medioevo è ottenibile dalla documentazione epigrafica di Venosa (Basilicata), le cui catacombe ebraiche, in uso fra il III e il VII secolo e attigue a quelle cristiane, hanno restituito una settantina di epigrafi, una delle quali datata al 521. In esse si riscontra fra l’altro un notevole grado di partecipazione degli ebrei alla vita pubblica locale – peraltro conformemente a quanto previsto dalle norme vigenti – e sono attestati gruppi familiari di rango relativamente elevato, le cui scelte onomastiche tradiscono il grado d’interazione con la società non ebraica circostante. Il confronto di questi testi con quelli di un altro sepolcreto venosino del IX secolo rivela la frattura sociale e culturale nel frattempo determinatasi, e resa subito evidente dal fatto che il greco e il latino precedentemente impiegato negli epitaffi è stato interamente sostituito dall’ebraico.
Durante i “secoli bui” è la zona salentina a essere maggiormente rischiarata da vari resti documentari d’importanti e operose comunità – particolarmente illustri quelle di Taranto, Oria, Otranto – presso le quali si afferma una fioritura culturale che resterà un paradigma ancora dopo secoli, come è attestato dal celebre motto del glossatore provenzale Ya‘aqov ben Meir (anche noto come Rabbenu Tam): “da Bari esce la Torah e la parola di Dio da Otranto”. Indicativa di tale fama è inoltre la leggenda, raccolta anch’essa nel XII secolo da Avraham ibn Daud nel suo Sefer ha-qabbalah (Libro della tradizione), secondo cui almeno tre dei più importanti centri di studio ebraici del Mediterraneo (Fustat, Qairawan e Cordova) avrebbero avuto origine dalla fortuita dispersione di altrettanti sapienti pugliesi, imbarcatisi a Bari alla volta della Mesopotamia, quindi rapiti e venduti da musulmani andalusi. Il clima sociale e culturale dell’area pugliese fra VIII e X secolo sarà tuttavia particolarmente ben rievocato, a metà dell’XI secolo, nel Sefer yuchasin (Libro delle discendenze) di Achima‘az ben Paltiel, la cui famiglia, originaria di Oria, si era trasferita a Capua. Trasferimento significativo, inquadrabile nel cospicuo spostamento di ebrei meridionali che avviene verso la fine del IX secolo, particolarmente sotto la spinta conversionistica promossa dapprima dall’imperatore bizantino Basilio I nell’873 e quindi, circa cinquant’anni dopo, da Romano Lecapeno, non senza il concorso dell’intensificarsi dei rischi legati alle incursioni islamiche sulle aree costiere. Nel giro di pochi decenni, tali fattori determinano un consistente spostamento di gruppi ebraici dal meridione bizantino verso le aree del ducato longobardo, presso le quali molti gruppi si fermano; ma da dove molti altri risalgono la penisola ravvivando antichi focolai ebraici o fondandone di nuovi, per esempio a Lucca o a Ravenna. L’Italia centro-settentrionale, comunque, non sembra offrire un clima particolarmente propizio per i nuovi stranieri ed è solo in territorio oltremontano, nella valle del Reno, e specialmente a Mainz e a Spira, che i discendenti dei profughi meridionali – fra cui i membri della rinomata famiglia Calonimos di Lucca, ma già di Oria – trovano modo, secondo la tradizione, di ricostituirsi in una società ebraica organizzata, la cui relativa tranquillità sarà bruscamente interrotta soltanto dalla prima crociata.
Occupandosi a più riprese di problemi legati ai rapporti del clero con la popolazione ebraica residente in varie città d’Italia (fra cui Cagliari, Agrigento, Napoli), Gregorio Magno accenna più volte nel suo epistolario alle attività economiche degli ebrei, che risultano già distribuite su un piano sia locale sia internazionale. Fra la fine del VI e il principio del VII secolo, per esempio, la comunità ebraica di Napoli – ancora isola bizantina – presenta esponenti facoltosi e impegnati nel commercio con l’estero. Gregorio c’informa del ruolo chiave degli ebrei napoletani nei traffici marittimi e specialmente nell’importazione di schiavi, acquistati da altri mercanti in Gallia (Ep. IV, 9, anno 596); attività queste che ben si allineano a quei peregrina commercia che, per l’età gotica, Cassiodoro aveva indicato in tale città (Variae IV, 5) e che, a causa delle implicazioni giuridico-religiose in materia di possesso di schiavi cristiani presso proprietari ebrei, sollecitano diversi interventi del papa.
È dunque nel corso dell’alto Medioevo che le attività ebraiche vengono progressivamente limitate o orientate verso settori sempre più specifici e, particolarmente, verso talune manifatture. Prevalgono, per esempio, le attività legate alla lavorazione del vetro e al comparto tessile, con particolare riguardo alla tintoria. In entrambi gli ambiti, il grado di specializzazione riconosciuto agli ebrei si deve però, almeno in parte, alla continuità di una tradizione risalente all’età romana e già consolidatasi in età tardoantica. Non è dunque un caso che nell’alto Medioevo, in vari centri dell’Italia meridionale, della Sicilia, dell’Egeo e del Mediterraneo occidentale, l’identificazione fra presenza ebraica e tintoria divenga assai comune e, in tali contesti, la sede delle fulloniche risulta sovente centrale nello spazio abitativo, non meno di quello della sinagoga. Esigenze della lavorazione, quali l’indispensabile presenza dell’acqua e possibilmente di ampi spazi vuoti – più facilmente attrezzabili e occupabili nei segmenti meno frequentati o periferici delle città – ha peraltro condotto in passato all’errata conclusione che gli ebrei si siano ritrovati a esercitare l’arte della tintoria o del vetro a causa della loro posizione marginale, tale da costringerli verso mestieri umili o dequalificanti. In realtà, tale rappresentazione dei rapporti occupazionali fra ebrei e cristiani è riferibile a un periodo ben posteriore: non prima del XII o del XIII secolo, infatti, l’Occidente cristiano inizia a deviare le attività ebraiche dai settori mercantili o direttamente produttivi – a beneficio delle nascenti gilde e arti formate esclusivamente da cristiani – verso il commercio minuto, particolarmente degli abiti usati, e quindi del prestito: ridisegnando così, ma solo da allora e non uniformemente, le figure lavorative ebraiche. Sfortunatamente non è di molto aiuto la pur abbondante documentazione della Genizah del Cairo, che illumina in maniera perlopiù indiretta la vita dell’ebraismo occidentale e in cui i rapporti mercantili e imprenditoriali fra il mondo ebraico nordafricano e orientale e quello dei territori europei sembrano realizzarsi, per qualche ragione, pressoché esclusivamente con controparti non ebraiche, ma cristiane.
La tradizione che indica la presenza di un ebreo, un musulmano, un bizantino e un latino alle origini della Scuola medica salernitana è senza dubbio un paradigma eziologico teso a evidenziare il tessuto multiculturale della società meridionale, entro cui diviene possibile il sorgere della più prestigiosa scuola medica dell’alto Medioevo.
Non infrequentemente, tuttavia, in tale tradizione sono stati riconosciuti elementi di concretezza, almeno nei tratti ispiratori della leggenda che, almeno per quanto riguarda il versante ebraico, si suole riferire alla figura tutt’altro che astratta di Shabbetai Donnolo da Oria. Medico, astronomo ed esegeta, Donnolo è il primo autore occidentale di testi medici scritti direttamente in lingua ebraica, fama dovuta a un breve testo redatto verso il 970, il Sefer ha-yaqar (Libro prezioso, anche noto come Sefer ha-mirqachot, Libro delle misture), in cui nella descrizione di vari composti farmacologici sono ampiamente impiegate glosse greche, latine e volgari, queste ultime fra le più antiche del lessico giudeo-italiano altomedievale. Opera principale di Donnolo è il Sefer chakmoni (Libro sapienziale), scritto fra il 946 e il 982, riguardante i rapporti micro-macrocosmici e la teoria della melotesia, in cui appare anche una breve autobiografia; dell’astronomico Sefer ha-mazzalot (Libro delle costellazioni) restano solo frammenti. Il primato di Donnolo nelle scienze riguarda anche il modo in cui anticipa una figura tipica della società bassomedievale, quella dell’archiatra ebreo, che in forza di una perizia e di un’erudizione non comune – dovuta perlopiù alla possibilità di accesso a fonti in lingue non a tutti note – è spesso al servizio dei principi e, all’occasione, del clero. Al tempo di Donnolo, comunque, in tutta l’Europa altomedievale – con la parziale esclusione di Spagna e Sicilia – il paradigma del sapere s’identifica ancora largamente con l’accesso alla cultura classica, ossia greca e latina, e semmai a quella ebraica; non ancora a quella araba che, infatti, lo stesso Donnolo disprezza e ostenta di non conoscere. Il peso e il permanere di tale retaggio nel mondo ebraico appare con particolare forza in un testo, il Sefer Yosefon (Libro di Giuseppe; anche Yosippon), redatto intorno al 953 e in cui si assiste a un’ardita sintesi fra la tradizione biblica, postbiblica e classica, sull’impianto delle Antichità giudaiche di Flavio Giuseppe: sintesi compiuta interamente in lingua ebraica e, ancora una volta, in Italia meridionale.