Gli ebrei nell’Impero romano in età costantiniana
La presenza ebraica è attestata a Roma fin dal II secolo a.C., al tempo dell’ambasceria di Gerusalemme, inviata in età repubblicana da Giuda Maccabeo nell’Urbe per cercare un’alleanza in funzione antiellenistica (1 Mac 8), e prosegue con alterne vicende fino a oggi senza soluzione di continuità. In Italia la sinagoga più antica, a Ostia, risale alla seconda metà del I secolo d.C., e i ritrovamenti archeologici continuano a rivelare tracce di comunità ebraiche in particolare in Puglia, Calabria e Sicilia. Nell’Impero romano durante il IV secolo gli ebrei sono organizzati in numerose comunità tanto in Occidente – in Italia, nelle Gallie, in Africa, nell’Illirico – quanto e più in Oriente, oltre ad essere saldamente insediati in altre aree asiatiche come la Mesopotamia, la Persia e verosimilmente fino in India. Autorità riconosciuta da tutti gli ebrei e anche dal potere civile romano è il nasi o patriarca che, venuto meno il ruolo centrale di Gerusalemme dopo la distruzione del tempio nel 70 d.C., risiede a Tiberiade.
Entro l’intero arco temporale normalmente inteso per ‘età costantiniana’, comprendente i secoli IV-V, ci si concentra qui in particolare sulla condizione degli ebrei e dell’ebraismo nei decenni in cui Costantino I il Grande esercita un potere sempre più assoluto, prima in Occidente dal 312, poi anche in Oriente dal 324, fino al 337. Pur nella veste di primo imperatore cristiano, decisamente orientato a favorire i cristiani rispetto ai pagani, egli nei confronti degli ebrei da una parte assume un atteggiamento pragmaticamente equidistante – senza privarli delle garanzie secolari che ne tutelano la pacifica integrazione nell’Impero –, ma d’altra parte interviene in modo occasionale emanando alcune leggi su questioni particolari, interferisce nella decisione di modificare la data della Pasqua, mentre recepisce e corrobora i pregiudizi negativi che la polemica giudaico-cristiana gli offre1. Sotto quest’ultimo aspetto, se si intende per età costantiniana un’era caratterizzata da una convergenza fra trono e altare, tra autorità civile e papato cristiano, l’eredità di Costantino e il suo influsso sui rapporti tra popolo ebraico e cristianità travalicano largamente l’epoca romana e si estendono fino al secolo XX, quando il concilio Vaticano II (1962-1965) sancirà una svolta definitiva rispetto alle relazioni negative improntate al disegno delineato da Costantino in occasione del concilio di Nicea nel 325.
L’analisi delle principali caratteristiche culturali, religiose, sociali ed economiche dell’ebraismo richiede – come ha osservato tra gli altri Sergio Della Pergola – una pluralità interdisciplinare di approcci complementari. Nel mondo antico la stessa nozione di identità ebraica andava soggetta a fluttuazioni dipendenti sia dal pluralismo dottrinale dei vari ‘giudaismi’, sia dalla molteplicità delle situazioni nelle diverse regioni dell’Impero, dalle tensioni con le nascenti comunità giudeo-cristiane, da molti altri fattori che talora favorivano, talaltra ostacolavano l’assimilazione con la società maggioritaria circostante. Sotto l’unica denominazione di giudaismo si riscontra, secondo le premesse metodologiche di Gabriele Boccaccini, Jacob Neusner, William Scott Green, una pluriformità di sistemi di pensiero religioso, tra i quali si segnalano il misticismo, il giudaismo ellenistico, quello testimoniato a Qumran, quello sinagogale in area babilonese, quello rabbinico che finirà con l’affermarsi in seguito su tutti gli altri, mentre il nascente cristianesimo non sempre si distingue dalle correnti giudaiche che ne sono all’origine.
In questo contesto vario e articolato, gli ebrei mantengono un forte attaccamento alle prescrizioni della Torà (i primi cinque Libri della Bibbia), alle formulazioni giuridiche espresse nella redazione della Mishnà o Δευτέρωσις, praticando la circoncisione, osservando precetti tra cui principalmente il riposo del sabato e l’astensione da alimenti ritenuti impuri, godendo a tal fine di specifiche esenzioni (privilegia). In genere la loro condizione non è dissimile da quella degli altri popoli e gruppi che compongono il tessuto vario e cosmopolita dell’Impero, nel quale alla civiltà romana si affiancano senza discriminazioni – secondo la visione storiografica tacitiana – numerosissime espressioni culturali di genti diverse per lingua, tradizioni e credenze religiose. In sintesi si può ritenere che i
romani, nel loro immenso impero, ovunque trovarono delle colonie ebraiche che godevano di particolari privilegi, si adoperarono a conservare e a tutelare questi privilegi, non soltanto per un desiderio di non innovare là dove non se ne presentava la necessità, ma per l’opportunità di mantenersi fedele un popolo che, per la sua distribuzione, costituiva un elemento unificatore dell’impero e che, sin dagli inizi, si era mostrato tutt’altro che ostile alla dominazione e alle istituzioni romane2.
Questo atteggiamento in linea di massima favorevole tuttavia non esclude che possano verificarsi temporanei ed eccezionali casi di proibizione della circoncisione, di espulsioni di ebrei, o di tensioni, talora con conseguenze gravissime come nel caso delle rivolte antiromane scoppiate nel Vicino Oriente tra il 66 e il 135 d.C.; ma neppure questi estremi episodi sanguinosi intervengono a modificare nell’Impero la condizione giuridica ebraica3, che ancora per tutto il III secolo rimane contrassegnata da una sostanziale uniformità all’interno di una pluralità di situazioni geografiche, culturali e spirituali. In questo quadro si inseriscono durante i primi decenni del IV secolo gli orientamenti di Costantino in campo religioso, che assumono particolare significato per lo sviluppo dei rapporti tra pensiero ebraico e cristiano, e per i diversi gruppi sociali che a tali sistemi dottrinali fanno riferimento.
Nelle varie parti dell’Impero si riscontrano situazioni a volte assai diverse per storia e tradizioni: nell’Oriente aramaico palestinese e babilonese, in quello ellenistico, nell’Italia e in particolare a Roma, nelle regioni nordafricane o in quelle europee transalpine e transdanubiane4. Pur essendo difficile documentare con sufficiente precisione la situazione demografica ebraica nel mondo antico, si può ritenere che – prima delle guerre giudaiche del 70 e del 135 d.C. – la popolazione ebraica dell’Impero fosse composta da circa 4,5 milioni di persone, stima che dopo il 135, con la repressione della rivolta di Bar Kokhba, accompagnata da deportazioni di schiavi e da un crollo demografico, scende a circa un milione. Il fenomeno di questa ‘seconda diaspora’ e della conseguente assimilazione, dopo la prima diaspora succeduta alla distruzione di Gerusalemme nel 586 a.C., comporta un’emigrazione che dalla Giudea-Palestina si volge in direzione dell’Italia meridionale e delle regioni mediterranee nordafricane ed europee, oltre che verso lo Yemen e l’Etiopia, il Caucaso e le coste del Mar Nero5.
Nella Roma del I secolo doveva risiedere una comunità consistente, anche se la valutazione tradizionale di 40-60.000 individui non trova un preciso riscontro documentario; al di fuori di Roma, troviamo ebrei insediati soprattutto nelle regioni meridionali, come attestato da resti sinagogali a Bova Marina e nelle catacombe di Venosa; sempre a epoca romana isale la presenza ebraica nelle due isole maggiori del Mediterraneo, Sicilia e Sardegna6. Ma anche al nord in Italia dovevano esserci comunità a volte non piccole, se è vero che durante il suo episcopato sant’Ambrogio di Milano si mostra spesso attento e consapevole delle tradizioni ebraiche, e alla sua morte nel 397 il suo biografo Paolino riferisce che gli ebrei milanesi seguirono con vivo cordoglio le sue esequie.
Fuori dall’Italia, in età costantiniana la maggior parte delle comunità ebraiche risiede nella vastissima Praefectura Oriens, con capitale Costantinopoli, comprendente la Tracia, l’Asia Minore, la Siria, la Palestina e l’Africa nordorientale. In terra d’Israele, dopo le rivolte giudaiche sopra ricordate, la provincia romana di Iudaea, governata da un legatus Augusti pro praetore in qualità di rappresentante imperiale, viene riorganizzata come provincia Syria-Palestina, che dal 295 comprende anche alcuni territori dell’Arabia. La regione gode di uno sviluppo fiorente, ma a Gerusalemme – chiamata Colonia Aelia Capitolina – viene proibito agli ebrei di risiedere, pertanto essi si trasferiscono al nord, dove continuano a vedersi garantita ampia libertà di culto. L’autorità religiosa, con a capo un patriarca, dapprima installatasi a Iamnia (l’odierna Yavneh), finisce con l’insediarsi a Tiberiade in Galilea7. In questa regione si continua a parlare l’aramaico palestinese – o gerosolimitano –, e continuano a risiedervi, non senza tensioni con le autorità della sinagoga, anche consistenti gruppi di ebrei credenti in Gesù – nazareni, ebioniti –, detti poi giudeo-cristiani in contrapposizione agli etnico-cristiani di provenienza non ebraica.
Comunità ebraiche numerose e vivaci, dovute alle migrazioni sia della prima che della seconda diaspora, persistono in tutta l’area del Vicino e Medio Oriente: nell’Arabia, regione di nomadi e di commercio carovaniero, e nella Siria propriamente detta, dove alla fine del II secolo Settimio Severo aveva esteso il dominio romano con la fondazione delle province di Osroene (con capitale Edessa) e di Mesopotamia (con capitale Nisibi); qui si trova un fecondo campo d’incontro fra tradizioni greche e semite, in numerose città tra le quali Antiochia, Seleucia, Apamea, dove si sviluppano notevoli commerci. Nell’Adiabene, regione di confine tra l’Impero romano e quello persiano sasanide, con capitale Arbela, c’è una forte presenza ebraica; durante il regno di Shabur II (309-379) alcune satrapie persiane, comprendenti la regione tra la Turchia orientale e il lago di Van, per un quarantennio, dal 296 al 337, vengono a trovarsi sotto il dominio romano. Nella Babilonide si sviluppano le scuole talmudiche di Nehardea, Pumbadita e Babilonia, città quest’ultima dove dal V secolo si impone l’autorità dell’esilarca o resh galuta8.
Altre comunità ebraiche della diaspora orientale di antichissima origine sono quelle di lingua greca in Egitto, dove spicca Alessandria, celebre per la sua cultura ellenizzata aperta a nuovi fermenti, di cui era stato esponente Filone, e che si era espressa nella traduzione greca della Bibbia detta dei Settanta. Ma altre comunità avevano radici profonde sia in zone rurali come Leontopoli, sia in centri urbani, tra cui Ossirinco, e offriranno un fertile terreno per l’innesto di dottrine giudeo-cristiane, gnostiche e manichee. A sud, nella Nubia, che i romani chiamano Thebais Secunda, alla prima cataratta del Nilo sull’isola di Elefantina risiedeva un’altrettanto celebre comunità ebraica di antichissime origini. Più a ovest, nell’Africa settentrionale indicata genericamente come Lybia, le ricche città costiere tra le quali Cirene ospitano gli ebrei rimasti dopo la sanguinosa soppressione delle loro rivolte durante l’impero di Traiano (116-117).
Il territorio dell’attuale Turchia, denominato anche Anatolia, in epoca romana è indicato come Asia Minore, e nei primi tre secoli dell’Impero si trova suddiviso in quattro province: Asia, Bithynia et Pontus, Galatia, Lycia et Pamphylia. È un’area di grande importanza strategica e commerciale, molto progredita e urbanizzata, con prospere e vivaci città gelose delle proprie particolari tradizioni, in molte delle quali si trovano importanti comunità ebraiche: ad Afrodisia, Antiochia di Pisidia, Apamea, Efeso, Iconio, Sardis, Smirne, Tarso e in numerosi altri centri. La rete di relazioni tra queste comunità era stata fin dall’inizio il canale privilegiato utilizzato dall’apostolo Paolo di Tarso per l’annuncio evangelico nel I secolo.
Nella prefettura dell’Illirycum, con capitale Tessalonica – odierna Salonicco –, sono comprese in quest’epoca la Grecia e l’isola di Creta, e anche la regione balcanica a sud del Danubio: l’importante via Egnazia attraversa la prefettura collegando idealmente Roma con l’Oriente lungo l’asse di prolungamento della via Appia. Comunità ebraiche fin dai tempi più antichi si trovavano nelle principali città greche, a Filippi, Corinto, Tessalonica, e nelle loro sinagoghe Paolo iniziò la predicazione del Vangelo; una sinagoga è stata ritrovata anche a Stobi, oggi in Macedonia, lungo la strada principale tra il Danubio e il Mar Egeo. Nell’isola di Creta doveva trovarsi da diversi secoli una comunità, in quanto ebrei provenienti da Creta sono menzionati a Gerusalemme, secondo il racconto degli Atti degli Apostoli (At 2,11).
In Spagna e nella prefettura più occidentale delle Gallie, infine, ebrei sono segnalati ad Arles, Bordeaux, Lione, Vienne nei primi secoli dell’Impero. In Spagna, dove nel I secolo d.C. san Paolo intendeva recarsi – certo anche contando sul sostegno di comunità ebraiche colà già stanziate –, nel III secolo è attestata la presenza ebraica ad Abdera (Adra), e i sinodi cristiani, a partire da quello di Elvira nel 305 fino ai concili più tardi in epoca visigota, mostrano di preoccuparsi costantemente riguardo a una diffusione consistente dell’ebraismo nella società in via di cristianizzazione9. Ma in generale anche in Spagna, come nel resto dell’Impero, gli ebrei «prendono parte alla vita politica della città, godendo eguali diritti al pari di tutti gli altri abitanti», secondo quanto riferisce Yitzhak Baer a proposito della comunità di Magona nell’isola di Minorca10.
Gli ebrei nella società romana si pongono in relazione sia di inserimento dinamico e fecondo nelle attività culturali, civili ed economiche, sia di distinzione sotto alcuni aspetti peculiari della loro vita personale, familiare e comunitaria. Essi infatti sono portatori e custodi di antiche tradizioni specifiche sotto il punto di vista del diritto e della loro religione (superstitio Iudaica), e sono uniti nel seguire un particolare calendario di sabati e di festività che ne scandiscono il lavoro e il riposo11. Già Filone segnalava la fedeltà degli ebrei ai tradizionali πάτριοι νόμοι (leggi patrie), rispettati insieme alle leggi delle città nelle quali essi sono attivamente integrati, distinguendosi per la loro interazione continua con la società multiculturale della quale sono partecipi, tanto a Roma quanto nelle diaspore siriana, egiziana e asiana12. Pur non perseguendo un vero programma di intenso proselitismo per guadagnare nuovi adepti alle proprie comunità, essi godono della stima degli intellettuali, a motivo della dottrina sul monoteismo e dell’etica, che suscitano interesse dal punto di vista filosofico e attirano loro simpatie che possono favorire le conversioni:
Evidentemente la religione ebraica esercitava una profonda attrazione. Potremmo aggiungere che essa offriva l’appartenenza ad una comunità chiusa i cui membri si aiutavano reciprocamente ed era dotata di un modo di vita ben organizzato. Non è dunque sorprendente che riuscì ad ottenere conversioni13.
Un tratto costante che esprime la loro versatilità e duttilità culturale rispetto alle culture dell’ambiente circostante si manifesta negli usi linguistici, poiché, a seconda dell’area geografica e culturale nella quale vivono, le lingue da essi utilizzate variano dall’aramaico al greco al latino, quest’ultimo pare in percentuale minore rispetto alle prime due lingue. Nella società essi si collocano a tutti i livelli: troviamo ebrei tra i militari, le autorità civili, gli agricoltori, gli imprenditori, i commercianti, perfino tra mimi e gladiatori. Fin dal II/III secolo Settimio Severo, trovandosi in Oriente e in Egitto tra il 197 e il 211 – dopo aver verosimilmente constatato la forte presenza ebraica nelle città della regione – aveva loro concesso di conseguire cariche amministrative (honores adipisci) senza che dovessero venir meno ai loro obblighi religiosi14. Alle loro comunità, peraltro, viene riconosciuto il diritto di assemblea e la personalità legale, sinagoghe (synagogae, συναγωγαί, προσευχαί) e cimiteri ebraici sono tutelati, istituzioni comunitarie vengono favorite in campo educativo, assistenziale ed economico, sotto forma di scuole, archivi, biblioteche, ospedali, mercati e ricoveri. Al di là di espressioni satiriche da parte di autori latini, o di occasionali manifestazioni di ostilità nei loro confronti, neppure durante le persecuzioni anticristiane della fine del III secolo sotto Diocleziano sembra che essi abbiano dovuto sopportare vere e proprie persecuzioni, nonostante un controverso passo del Talmud di Gerusalemme metta in non buona luce l’imperatore (Talmud Palestinese, Terumot, 8,12)15.
Gli ebrei, con la Constitutio Antoniniana de civitate di Antonino Caracalla, nel 212 ricevono al pari di tutti gli abitanti liberi dell’Impero la cittadinanza romana, mentre continuano a godere dei diritti di cittadinanza locale e delle esenzioni specifiche riconosciute alla Natio Iudaica (etnia giudaica) in quanto seguaci di una religio licita (religione autorizzata). Ciò comporta tra l’altro il pubblico riconoscimento del proprio diritto privato in materia matrimoniale, patrimoniale e testamentaria, e la possibilità di appellarsi all’autorità giurisdizionale ebraica riconosciuta anche in ambito civile16. Il fondamento giuridico di questa particolare condizione può trovarsi sia nel riconoscimento romano dato alla Natio Iudaica in qualità di Stato indipendente fin dalla prima ambasceria maccabaica nel 161 a.C., sia nell’appartenenza alla confessione religiosa giudaica, diffusa in tutto l’Impero e riconosciuta come tale per consolidata tradizione, anche dopo la perdita dell’indipendenza nazionale in terra d’Israele.
Sulla base di questi principi generali si configurano i cosiddetti ‘privilegi’ concessi e ribaditi in più occasioni agli ebrei dall’autorità romana: la legge romana contemplava infatti casi di particolari esenzioni dalle prescrizioni generali, mediante eccezioni garantite da norme specifiche o privilegia. Ciò si applica agli ebrei, al fine di consentire loro l’adempimento di obblighi religiosi come la circoncisione, le riunioni cultuali e l’osservanza del sabato, e inoltre esentandoli dal compimento di atti di culto idolatrici doverosi per i romani, ma contrari al rigido monoteismo prescritto dalla Torà o legge mosaica. Di conseguenza gli ebrei vengono esentati dal servizio militare, pur potendo seguire tale carriera se lo vogliono; possono entrare nelle amministrazioni cittadine, pur essendo esentati dagli obblighi curiali; ed è loro consentito di contribuire al sostegno del patriarca in Palestina mediante il tributo dell’aurum coronarium e con altre decime a lui destinate. Molti di questi privilegia subiranno progressive restrizioni sotto gli imperatori cristiani succeduti a Costantino17, ma il fatto che in un’epoca imprecisata – comunque di non molto antecedente, o al più, in una redazione rivista, successiva a Costantino – sia stata composta da un anonimo giurista ebreo un’opera importante come la Collatio Legum Mosaicarum et Romanarum, che pone in parallelo la legge mosaica con il diritto romano, sta a confermare che nel IV secolo permane radicata in ambiente romano la convinzione che entrambi i sistemi giuridici meritino stima e rispetto ed esprimano un’intima armonia18.
Nel valutare l’opera di Costantino sotto il profilo giuridico, tenendo presenti le conclusioni di Pietro De Francisci e Manlio Sargenti, è necessario affrontare problemi delicati e complessi, e ciò non consente di trarre facilmente conclusioni sintetiche19. In genere si conviene che la sua azione nel campo del diritto ponga le premesse perché, accanto al concetto tradizionale romano di ius publicum, prenda avvio la costruzione di uno ius ecclesiasticum distinto da esso, che seguirà un percorso di sviluppo autonomo. Il fatto nuovo che determina questa duplicità di percorsi è rappresentato dal riconoscimento pubblico tributato alla Chiesa, con le sue istituzioni e le sue norme. La situazione giuridica durante il trentennio costantiniano sembra quindi riflettere questa ambiguità in un fluttuare di posizioni che pongono il diritto civile di fronte al cristianesimo ormai riconosciuto, con un suo peso crescente e una propria autonomia normativa. Mentre fin dal 313 comincia il processo di estensione ai cristiani di privilegi precedentemente riservati agli ebrei20, riguardo a questi ultimi Costantino come Imperator si astiene dall’introdurre mutamenti sistematici negli assetti socio-economici generali che garantiscono loro una prospera e pacifica integrazione nella società romana, come nota Alfredo M. Rabello a proposito degli ebrei palestinesi dopo il 324: «nella legislazione dunque Costantino si attiene all’imparzialità romana, e più che fare cambiamenti, rimise in vigore leggi esistenti»21. Tuttavia si osserva l’inizio di uno spostamento di accento che, da una condizione positiva in qualità di appartenenti a una religio licita e a una Natio Iudaica rispettata da cinque secoli, tende a far scivolare gli ebrei verso una scomoda situazione non più di genus alterum intermedio tra paganesimo (genus primum) e cristianesimo (tertium genus), ma a un livello più basso, al di sotto di entrambi.
Si prendano in considerazione le principali leggi costantiniane conservate nel Codex Theodosianus (Cod. Theod.) che si riferiscono agli ebrei: pur sussistendo a volte interrogativi circa la loro esatta datazione o la determinazione delle località della loro promulgazione, nella sostanza esse fanno conoscere aspetti della politica imperiale verso gli ebrei, confermando quanto Eusebio riferisce sullo stesso argomento nella sua Vita Constantini (v.C. IV 27). La documentazione attesta interventi legislativi datati quasi tutti tra il 329 e il 337, anche se forse proprio una delle leggi (Cod. Theod. XVI 8,1) potrebbe risalire già al 315: se non si accoglie quest’ultima ipotesi di datazione, risulta che l’interesse dell’imperatore a legiferare in materia di ebrei si manifesta soprattutto dopo il 324, quando egli ha esteso il potere anche sulla parte orientale dell’Impero, appunto là dove sono maggiormente presenti e influenti le comunità ebraiche. Le questioni trattate, prendendo spunto per lo più da casi particolari che esigono una risposta precisa, vanno dall’ingresso di ebrei nelle curie delle municipalità ai privilegi delle élite ebraiche, alla protezione degli ebrei convertiti e degli schiavi cristiani presso gli ebrei, alla proibizione di matrimoni misti tra ebrei e donne non ebree22.
A proposito della prima questione, un intervento legislativo cade nel dicembre del 321 quando Costantino, Augusto d’Occidente, con un rescritto ai decurioni di Colonia (Köln) nelle Gallie, consente a tutti i consigli municipali di nominare ebrei nelle curie, fatto salvo il diritto a essere esentati da tali cariche onerose riservato a due o tre autorità delle comunità ebraiche (Cod. Theod. XVI 8,3)23. Questa prescrizione di fatto modifica in senso peggiorativo la tradizione dei secoli I-III, secondo la quale gli ebrei erano tutti esentati dagli incarichi onerosi dei municipia, anche se non si escludeva che potessero ricevere titoli onorifici. Dieci anni più tardi, a Costantinopoli, l’imperatore ordina che tutte le autorità religiose ebraiche siano esentate da qualsiasi onere personale (munus corporale), che poteva implicare, oltre al servizio militare, anche altri servizi o corvées per le stazioni postali, il vettovagliamento, le funzioni giudiziarie e di tutela (Cod. Theod. XVI 8,4); sembra che tra gli oneri personali, così intesi, non siano inclusi però gli oneri patrimoniali24.
L’ebraismo considerava massimo delitto l’abbandono della fede mosaica dei padri, perciò puniva gli apostati con la pena di morte mediante lapidazione. Nel III secolo la condanna alla pena capitale, nell’ambito della comunità ebraica, poteva però essere inflitta solo dalla suprema autorità del patriarca ebreo riconosciuto anche dai romani, nella sfera di propria competenza25. A questo proposito, perciò, a livello locale potevano verificarsi casi di linciaggio e quindi conflitti con l’autorità civile. Costantino interviene più volte a protezione di ebrei convertiti, dapprima con una legge del 18 ottobre 315 (che però sembra meglio datare al 329), riguardante la repressione del crimine di violenze rivolte da ebrei contro correligionari apostati, e l’estensione anche ai convertiti all’ebraismo della punizione di tale crimine:
L’imperatore Costantino Augusto ad Evagrio. Vogliamo ingiungere agli ebrei, ai loro anziani ed ai patriarchi26 che, se taluno dopo questa legge ha osato portare offesa, come abbiamo saputo essere avvenuto ora, con sassi o con altro tipo di violenza a quello che sia fuggito dalla loro ferale setta [feralem sectam], subito deve essere dato alle fiamme e bruciato con tutti i suoi accoliti. Se, invero, un soggetto qualsiasi è entrato nella loro empia setta e si è unito alle loro assemblee incorrerà con quelli stessi nelle pene meritate. Data 15 giorni prima delle calende di novembre a Murgillo nell’anno del quarto consolato dell’imperatore Costantino e nel quarto di Licinio (Cod. Theod. XVI 8,1)27.
Si tratta di una legge emessa a seguito di un caso specifico di lapidazione di un apostata, fatto che potrebbe essersi verificato o in Africa settentrionale (se con de Bonfils si fa risalire la legge al 315) o in Oriente, come più probabile, nel 329. L’autorità imperiale giustamente non tollera che una pena capitale sia inflitta da altri che dal legittimo potere costituito, e interviene colpendo con la massima severità i colpevoli. Inoltre l’episodio dà occasione a Costantino per proibire esplicitamente ai tribunali rabbinici locali e in genere agli ebrei di usare violenza contro chi abbandona l’ebraismo, e si percepisce nel tenore della condanna una nota di disprezzo verso la comunità ebraica, definita «gruppo bestiale» (feralis secta) ed «empia setta».
Di alcuni anni posteriore è la legge indirizzata nel 336 in Costantinopoli al prefetto del pretorio Felice, nella quale l’imperatore si esprime in termini più generali in difesa di ebrei divenuti cristiani:
Non deve essere lecito agli ebrei molestare o colpire con qualche atto offensivo colui che sia divenuto da ebreo cristiano; l’illecito deve essere punito a seconda del reato commesso (Cod. Theod. XVI 8,5)28.
Possiamo rilevare qui, rispetto alla legge precedente del 329, una maggior precisione nel riferirsi ai casi di conversione dall’ebraismo al cristianesimo, che evidentemente si facevano più frequenti, in particolare in Oriente, dove rapporti o tensioni fra ebrei e cristiani potevano insorgere a motivo della più diffusa presenza di antiche comunità ebraiche. Si può percepire anche un intento esplicito a favore del proselitismo cristiano, a scapito delle comunità ebraiche, danneggiate da fenomeni di apostasia. Siamo ancora lontani dal quadro legislativo che si svilupperà più avanti nel secolo IV, con l’emergere di un orientamento insofferente alla presenza religiosa e sociale degli ebrei, ma par già di scorgere qui qualche segno che presagisce e quasi predispone a tali sviluppi.
La legislazione riguardante gli schiavi, il cui ruolo nella società romana era essenziale, è un altro campo che permette di cogliere alcuni aspetti della politica costantiniana sugli ebrei29. Gli schiavi potevano sia svolgere mansioni nelle case sia essere impiegati in agricoltura, o essere soltanto trattenuti per essere poi rivenduti al migliore offerente. Dato il rilievo sociale della schiavitù nel mondo antico, numerose sono le norme che trattano questo argomento sia in campo civile che nella giurisprudenza rabbinica, la quale prevede che lo schiavo non ebreo, che viva in una famiglia ebraica, sia circonciso oppure rivenduto entro un certo tempo, e il dibattito talmudico in materia è assai vivace e dettagliato (cfr. Talmud babilonese, Yebamot, 48B). Tali disposizioni rabbiniche in materia cercavano di contemperare da un lato le esigenze di favorire l’integrità dell’osservanza mosaica all’interno della famiglia e del proselitismo mediante l’integrazione degli schiavi nella comunità, dall’altra le necessità pratiche connesse con il commercio degli schiavi.
Costantino interviene ripetutamente a tutela di schiavi sia cristiani sia di altre religioni e nazionalità, per vietare che essi rimangano di proprietà di ebrei e che subiscano la circoncisione. Si tratta di leggi che hanno quindi serie conseguenze sia sul versante religioso, venendo a costituire un deterrente al proselitismo ebraico, sia nel campo economico, perché introducono limitazioni che possono influire nell’attività di commercio degli schiavi. Il primo atto legislativo, se l’ipotesi della correzione della data è esatta, risalirebbe al 329, con l’interdizione assoluta degli ebrei dalla facoltà di circoncidere e di possedere schiavi di altre religioni o etnie, in particolare se cristiani:
Se un ebreo ha deciso di comprare uno schiavo di altra setta o etnia, tale schiavo sarà immediatamente assegnato al fisco statale. Se poi avrà circonciso lo schiavo comprato, non solo sia punito con la perdita dello schiavo, ma sia anche colpito con sentenza capitale. Se poi un ebreo non avrà esitato a comprare schiavi della fede veneranda, tutto ciò che venga trovato presso di lui deve essergli sottratto, e non si ponga alcun indugio nel privarlo del possesso di uomini che sono cristiani (Cod. Theod. XVI 9,2)30.
Per comprendere il senso della proibizione della circoncisione e la severità della pena comminata ai trasgressori in queste circostanze, conviene collocare la legislazione costantiniana nel contesto di quella precedente, la quale già dai tempi di Adriano si era espressa in modo identico proibendo in generale qualsiasi forma di castrazione; solo più tardi Antonino Pio aveva concesso agli ebrei di circoncidere unicamente i loro figli, ma non gli schiavi (Dig. 48,8,11)31. Quindi Costantino in questo ambito non fa che introdurre una specifica menzione favorevole ai cristiani, all’interno di un quadro legislativo che egli si propone di confermare, rendendolo più esplicito e universale per tutto l’Impero, tanto in Occidente quanto in Oriente.
Qualora l’ipotesi di datare questa legge al 329 fosse, come pare, quella corretta32, ciò confermerebbe appunto quanto riferisce in termini abbastanza simili anche Eusebio nella Vita Constantini, dove, aggiungendo motivazioni antigiudaiche, afferma che Costantino
stabilì che nessun cristiano dovesse esser schiavo degli ebrei: non è giusto, infatti, che chi è stato riscattato dal Salvatore sia tenuto in schiavitù da chi si è macchiato dell’assassinio dei profeti e del Signore. La legge prevedeva che venisse liberato il cristiano che si fosse trovato in una situazione del genere e che l’ebreo fosse punito con una multa (v.C. IV 27)33.
Con un successivo intervento nel 335 sarà resa più ampia e liberale la disposizione precedente, stabilendo che lo schiavo cristiano o di altra religione, se è stato circonciso dopo esser stato acquistato da un ebreo, deve essere liberato (Cod. Theod. XVI 9,1). Le due leggi si propongono di tutelare schiavi non solo cristiani, ma anche seguaci di altre sette, diffuse specialmente in Oriente; le norme avrebbero indebolito il proselitismo ebraico e danneggiato economicamente gli ebrei dediti al commercio degli schiavi, a vantaggio sia dello Stato, che di tali schiavi sarebbe divenuto proprietario, sia dei fedeli e della Chiesa, con la completa liberazione dei medesimi, se cristiani.
A proposito di matrimoni misti tra ebrei e donne cristiane, l’unico testo legislativo è di datazione controversa, ma sembra più probabile risalga al 329 piuttosto che al 33934. Si tratta di una condanna delle unioni illegittime di ebrei con donne impiegate alle dipendenze imperiali che proibisce nozze tra ebrei e giovani cristiane, sotto pena di morte per gli ebrei:
Per quanto riguarda le donne, già impegnate in una nostra fabbrica, che gli ebrei condussero ad una unione vergognosa con loro [turpitudinis suae consortium, ovvero: un’unione matrimoniale non legittima secondo il concetto romano di ‘giuste nozze’], si dispone che siano restituite alla fabbrica e che, per il futuro, essi non debbano unire donne cristiane alle loro infamie. Se faranno questo, devono essere condannati a morte (Cod. Theod. XVI 8,6).
La misura antiebraica in questo caso sembra avere diversi aspetti: mentre favorisce le manifatture imperiali, danneggia economicamente quelle ebraiche e contemporaneamente impedisce il proselitismo giudaico sottolineandone la condanna con termini spregiativi quali turpitudo e infamia.
Si tratta di un provvedimento da collocare nel particolare contesto socio-economico palestinese di Scitopoli dal quale trae occasione, e da considerare quindi come una misura non generale, ma circoscritta a tempi e modalità assai precise, e comprensibile anche per il chiaro intento di protezionismo nei confronti delle fabbriche statali.
Conviene peraltro ricordare che già circa vent’anni prima, al concilio di Elvira in Spagna, erano state proibite le nozze fra ebrei e fanciulle cristiane35, e pertanto si può riconoscere nella legge di Costantino anche un’influenza della legislazione ecclesiastica su quella civile. Questo genere di norme si comprende meglio ricordando che nel mondo antico era a volte necessario intervenire a tutela della libertà e dignità delle donne, che erano spesso in condizione di inferiorità rispetto ai mariti, in particolare quando seguivano religioni differenti.
La fissazione del calendario è un atto di grande rilievo, nel quale l’autorità imperiale esercita il suo potere, dirimendo e sciogliendo preventivamente possibili tensioni popolari che insorgerebbero in caso di conflitto nel determinare le date delle feste. Costantino aveva già avuto modo di interessarsi, sia pure marginalmente, alle complesse questioni connesse con la fissazione della data della Pasqua, una prima volta in occasione del concilio di Arles nel 314. In tale circostanza, tuttavia, la questione dibattuta non riguardava se non le diocesi dell’Occidente, comprese nella parte d’Impero a quel tempo a lui sottoposta, dove la celebrazione si teneva concordemente di domenica. Dal 324 il problema si complica, poiché in Oriente i problemi relativi alla data della Pasqua sono resi più gravi dalla presenza di gruppi cristiani che, come gli ebrei, celebrano la Pasqua il 14 del mese ebraico di Nisan, e sono detti perciò ‘quartodecimani’; in quegli anni tali gruppi, che esigono che la Pasqua venga celebrata nella medesima data dei giudei, sono diffusi in Galazia, Frigia, Siria e Gerusalemme36. L’imperatore, presente al concilio niceno nel 325, preme perché sia raggiunta l’unanimità riguardo alle due questioni che giudica prioritarie: quella ariana e quella della data della Pasqua, alle quali dedicherà due lettere postconciliari.
Come egli stesso afferma nella seconda lettera dedicata alla Pasqua, dietro sua iniziativa il problema della data era stato proposto all’assemblea conciliare ed egli aveva esortato a trovare una soluzione unanime, distaccandosi decisamente da ogni precedente uso di celebrare la Pasqua concordemente con gli ebrei. Toccando la questione, Costantino stabilisce che non si segua più la tradizione ebraica, poiché tale consuetudine va rigettata, dal momento che gli ebrei «manus suas nefario scelere contaminarint, merito impuri homines caecitate mentis laborant [...] Nihil ergo nobis commune sit cum inimicissima Iudaeorum turba»37.
Conviene dunque che i cristiani si astengano «ab illa turpissima societate et conscientia» (da quella turpissima comunità e mentalità): «Quale retto pensiero potrebbero infatti avere costoro che, dopo l’assassinio del Signore, con la mente imprigionata dopo quel parricidio, non dalla ragione ma da una sfrenata passione sono guidati dovunque li spinge l’innata pazzia?»38.
L’epistola di Costantino venne inviata alle comunità cristiane di ogni provincia, come riferisce Eusebio di Cesarea nella Vita Constantini, e si può presumere che fosse destinata principalmente a quei vescovi che non erano potuti intervenire al concilio. Oltre alla lettera imperiale, anche la lettera sinodale scritta dal concilio di Nicea, inviata alle Chiese di Alessandria e dell’Egitto, riassume la decisione conciliare con queste parole:
Vi comunichiamo la buona notizia dell’unità che è stata raggiunta sulla festa di Pasqua. Tutti i fratelli dell’Oriente, che prima celebravano la Pasqua con i Giudei, d’ora in poi la celebreranno con i Romani, con noi e con tutti quelli che in ogni epoca l’hanno celebrata nello stesso tempo39.
Il ricorso alle argomentazioni della polemica antigiudaica da parte di Costantino può comprendersi nel particolare contesto orientale, nel quale erano insediate consistenti comunità ebraiche, le cui festività e riti, con il loro solenne fascino, esercitavano sui cristiani un influsso a volte notevole; inoltre l’insegnamento degli scrittori ecclesiastici del tempo era spesso caratterizzato da un forte sentimento antigiudaico: tutti motivi che l’imperatore sembra avere ben presenti e che utilizza ampiamente per attirare i consensi sulla celebrazione della Pasqua nell’unica data indicata dal concilio, come più succintamente riassume anche la lettera sinodale. Benché non disponiamo della documentazione conciliare che ci permetterebbe di sapere se l’imperatore abbia esposto i medesimi argomenti polemici antigiudaici anche durante la discussione conciliare, possiamo presumere che la sua epistola esprima proprio il contenuto di qualcuno dei suoi interventi al concilio in proposito. La questione della data della Pasqua, peraltro, non sarà interamente risolta nel IV secolo: ancora nel concilio di Antiochia del 341 è comminata la scomunica a chi celebra la Pasqua con i giudei.
Abbiamo osservato che Costantino, come Imperator, in genere non interferisce nella tutela dei diritti che regolano la vita delle comunità ebraiche, preferendo attenersi alla tradizione giuridica romana40. Solo si preoccupa, in conformità con il principio di libertà religiosa tradizionalmente introdotto nel 313, di limitare alcune attività o comportamenti ebraici proselitistici e, nella sua ottica, non rispettosi della libertà di culto di altri gruppi, e nel 335-336 si nota una più specifica volontà di tutelare in particolare i fedeli cristiani, segno di un’evoluzione maturata in tal senso negli ultimi anni di regno.
Dal tenore di alcune leggi, e secondo quanto riferisce anche Eusebio, pare invece che egli si comporti non così equanimemente nel rispettare la parità di onore tra ebrei e cristiani: in questi casi sembra prevalere in lui la qualità di christianus e di epískopos tõn ektòs, e vescovo di coloro che sono fuori (dalla Chiesa), cioè di un ispettore che si ritiene incaricato di una funzione autorevole nei riguardi di quanti sono al di fuori della sfera ecclesiastica, siano essi laici, pagani o seguaci di altri culti, come appunto è il caso, tra gli altri, degli ebrei41. D’altra parte, l’esaltazione di Costantino considerato come ‘isapostolo’ affiancato al collegio dei dodici apostoli, fino al punto di venir considerato quasi un nuovo Mosè e Messia, influisce verosimilmente sul suo modo di valutare i rapporti ebraico-cristiani e sul modo in cui gli ebrei si comportano nei confronti dell’imperatore. Quanto possa essere influente simile esaltazione della figura dell’imperatore, si può vedere anche, in un certo senso, in modo speculare, se consideriamo le opposte reazioni ebraiche, espresse nella scelta di molti ebrei orientali che, dopo il suo avvento al potere anche in Oriente nel 324, si convertono al cristianesimo, ritenendo l’imperatore un messia42. Egli stesso manifesta un comportamento coerente con la consapevolezza di avere un tale altissimo compito per il bene dell’Impero e della Chiesa, quando, nella sua lettera circolare premessa ai testi del concilio di Nicea, il cui contributo abbiamo sopra esposto, recepisce alcuni dei pregiudizi più radicalmente critici nei confronti degli ebrei: riprende infatti le tesi antigiudaiche più diffuse del parricidio e ‘deicidio’ giudaico, un’accusa che più tardi costituirà la base ideologica dell’antigiudaismo europeo e non solo.
La condanna morale dell’ebraismo va, in questa prospettiva, di pari passo con l’affermazione della verità del cristianesimo, come sottolinea ormai sempre più spesso un’influente e cospicua parte degli autori cristiani del III-IV secolo. Quanto più, infatti, si diffonde nell’Impero la fede cristiana, tanto più è percepita come una necessità la diminuzione di quella giudaica. Questo tratto caratteristico del pensiero costantiniano in tale ambito risente della dottrina formulata prima di lui da celebri padri della Chiesa, in Oriente come in Occidente, tra i quali Ippolito di Roma (morto nel 235) e Origene (183-253) in Alessandria d’Egitto. La Chiesa si arricchisce delle conversioni ebraiche, come è solennemente affermato in modo visivo nel maestoso mosaico paleocristiano della basilica romana di S. Sabina sull’Aventino, che raffigura due matrone romane quali componenti dell’unica cristianità, distinta in Ecclesia ex circumcisione (Chiesa proveniente dalla circoncisione) ed Ecclesia ex gentibus (Chiesa proveniente dai pagani). Questo celebre mosaico sembra esprimere con esattezza la concezione cristiana dell’epoca costantiniana, che considera gli ebrei in funzione dell’unica Chiesa nella quale essi devono confluire. Solamente in questa prospettiva essi assolvono a una funzione positiva, altrimenti l’ebraismo non ha più valore in se stesso: così si spiegano le critiche contro gli ebrei, le reiterate e stereotipate prese di posizione denigratorie contro di loro.
In parallelo con queste motivazioni teologiche altre ve ne sono, con esse convergenti, di tipo sociale. Le posizioni antigiudaiche degli autori cristiani dei primi secoli si accompagnano agli sforzi per favorire i buoni rapporti tra romanità e cristianesimo, e già a partire da Tertulliano era andata accentuandosi «la deresponsabilizzazione dei Romani da ogni possibile accusa di “deicidio”, facendone carico interamente agli ebrei»43. Secondo un tale procedimento, nel diritto e nel pensiero costantiniano si introducono nei loro confronti le sopra riferite espressioni oltraggiose di nefaria secta (gruppo criminale) (Cod. Theod. XVI 8,1), impuri homines (uomini sozzi), inimicissima turba (folla ostilissima), Domini interfectores et parricidae (assassini del Signore e parricidi) (PL 8,501-504).
Una terza, forte spinta a contenere e limitare l’espansione ebraica, sentita come concorrente, è dovuta all’influsso della Chiesa, che soprattutto durante e dopo il concilio niceno appare tra le cause dirette di questa svolta in progressiva crescita. Se è vero, infatti, che l’imperatore non manca di intervenire personalmente per indirizzare la politica ecclesiastica, è vero anche l’opposto, per cui su di lui in quanto christianus anche «la Chiesa incominciò a esercitare una forte influenza a proposito delle decisioni imperiali. Questo processo si sviluppò abbastanza gradualmente a partire da Costantino»44. Si pongono così, nei primi decenni del IV secolo, le basi di un passaggio da relazioni di discordia concors tra ebrei, pagani e cristiani a una nuova epoca segnata dall’antigiudaismo con radici cristiane: un’epoca alla quale porrà la parola fine, il 28 ottobre 1965, la dichiarazione del concilio Vaticano II Nostra Aetate (n. 4), cui papa Giovanni Paolo II nel 1986 apporrà un autorevole sigillo definendo gli ebrei «fratelli prediletti» dei cristiani45.
1 J. Juster, Les Juifs dans l’Empire Romain, leur condition juridique, économique et sociale, 2 voll., Paris 1914; B. Blumenkranz, Juifs et chrétiens, Patristique et Moyen-Age, London 1977; A.M. Rabello, The Legal Condition of the Jews in the Roman Empire, in ANRW, II 13, Berlin-New York 1980, pp. 662-762 (ora riprodotto anche in Id., Ebraismo e Diritto. Studi sul Diritto Ebraico e gli Ebrei nell’Impero Romano scelti e raccolti da F. Lucrezi, 2 voll., Salerno 2009, I, pp. 249-349); L. Cracco Ruggini, Pagani, ebrei e cristiani: odio sociologico e odio teologico nel mondo antico, in Gli ebrei nell’alto medioevo, Spoleto 1980, pp. 13-101; Id., Ebrei e Romani a confronto nell’Italia tardoantica, in Italia Judaica, I, Roma 1983, pp. 38-65; Judaism in late antiquity, ed. by J. Neusner, 2 voll., Leiden 1995; H.J. Leon, The Jews of Ancient Rome. Updated Edition with a New Introduction by C.A. Osiek, Peabody MS 1995; A.M. Rabello, The Jews in the Roman Empire: Legal Problems, from Herod to Justinian, Aldershot-Burlington (USA)-Singapore-Sydney 2000; Gli ebrei nell’impero romano. Saggi vari, a cura di A. Lewin, Firenze 2001; A. Scandagliato, N. Mulè, La Sinagoga e il bagno rituale degli ebrei di Siracusa, Firenze 2002; C. Colafemmina, Le testimonianze epigrafiche e archeologiche come fonte storica, in Materia giudaica, 9 (2004), pp. 37-52; G. de Bonfils, Gli ebrei dell’impero di Roma, Bari 2005; P. Veyne, Quand notre monde est devenu chrétien, Paris 2008 (trad. it. Quando l’Europa è diventata cristiana, Milano 2008); E. Baltrusch, Zwischen Recht, Politik und Religion. Konstantin und die Juden, in Konstantin del Grosse. Zwischen Sol und Christus, hrsg. von K. Ehling, G. Weber, Darmstadt-Mainz 2011, pp. 94-99; J. Mélèze Modrzejewski, Un peuple de philosophes, Paris 2011.
2 A. Milano, Storia degli ebrei in Italia, Torino 1963, p. 12.
3 T. Rajak, Was there a Roman Charter for the Jews?, in Journal of Roman Studies, 74 (1984), pp. 107-123.
4 Per una visione d’insieme sugli ebrei nell’Impero romano fino all’epoca giustinianea si veda A.M. Rabello, Giustiniano, Ebrei e Samaritani, I, Milano 1987, pp. 13 segg.
5 S. Della Pergola, La popolazione ebraica in Italia nel contesto ebraico globale, in Gli Ebrei in Italia, a cura di C. Vivanti, Torino 1997, II, pp. 895-936; Id., Riflessioni globali sulla demografia degli ebrei, in Zakhor, 7 (2004), pp. 105-139.
6 Cfr. D. Abulafia, Le comunità di Sicilia dagli arabi all’espulsione (1493), in Gli Ebrei in Italia, cit., p. 48; Id., Gli ebrei in Sardegna, ivi, p. 86; S. Cappelletti, La presa di Gerusalemme: influsso demografico sulla comunità giudaica di Roma, in Materia giudaica, 8/2 (2003), pp. 269-277; S. Castelli, Gli ebrei espulsi da Roma e inviati in Sardegna da Tiberio nel 19 E.V. nelle fonti storiche di età romana, in Materia giudaica, 14/1-2 (2009), pp. 67-80; C. Colafemmina, Una rilettura delle epigrafi ebraiche della Sardegna, ivi, pp. 81-99; S. Cappelletti, Giudei e giudaismo nella Roma del I secolo d.C., ivi, pp. 371-385.
7 A.M. Rabello, La situazione giuridica degli ebrei nell’impero romano, in Gli ebrei nell’impero romano. Saggi vari, cit., pp. 132-133.
8 Cfr. J. Juster, Les Juifs dans l’Empire Romain, cit., I, pp. 391 segg.; A.M. Rabello, The legal condition of the Jews, cit., pp. 713 segg. e anche pp. 673, 719, 729; per una discussione sull’effettiva autorità del patriarca ebreo di Babilonia, cfr. E.R. Goodenough, Jewish symbols in the Greco-Roman period, abridged ed. by J. Neusner, Princeton 1988, pp. 12-15.
9 Cfr. A.M. Rabello, Gli Ebrei nella Spagna Romana e ariana-visigotica, in Id., Ebraismo e Diritto, cit., II, pp. 9-15; Id., Le iscrizioni ebraiche nella spagna romana e visigotica, ivi, pp. 71-95.
10 Y. Baer, A history of the Jews in Christian Spain, Philadelphia 1961, p. 17.
11 A.M. Rabello, Il diritto e le feste degli ebrei, in Gli ebrei nell’impero romano. Saggi vari, cit., pp. 295-334.
12 S. Cappelletti, Giudei e giudaismo nella Roma del I secolo d.C., in Materia giudaica, 14/1-2 (2009), pp. 371-385.
13 W. Liebeschuetz, L’influenza del giudaismo sui non-ebrei nel periodo imperiale, in Gli ebrei nell’impero romano. Saggi vari, cit., p. 156.
14 G. de Bonfils, Gli ebrei dell’impero di Roma, cit., p. 39.
15 A.M. Rabello, Il diritto e le feste degli ebrei, cit., pp. 316-317; C. Achille, I giudei visti da alcuni intellettuali latini del II secolo d.C., in Materia giudaica, 8,2 (2003), pp. 279-296.
16 A.M. Rabello, La situazione giuridica degli ebrei nell’impero romano, cit., pp. 125-142.
17 Ivi, pp. 130-131.
18 Sono note le diverse datazioni proposte per la Collatio Legum Mosaicarum et Romanarum da Lellia Cracco Ruggini (secolo IV declinante) e da Alfredo Mordechai Rabello (nel periodo dioclezianeo e in ogni caso precostantiniano): L. Cracco Ruggini, Ebrei e Romani a confronto nell’Italia tardoantica, in Italia Judaica, II, Roma 1983, pp. 38-65; A.M. Rabello, La datazione della Collatio Legum Mosaicarum et Romanarum e il problema di una sua seconda redazione o del suo uso nel corso del quarto secolo, in “Humana sapit”. Études d’antiquité tardive offertes à Lellia Cracco Ruggini, éd. par J.-M. Carrié, R. Lizzi Testa, Turnhout 2002, pp. 411-422.
19 M. Sargenti, Costantino nella storia del diritto, in Costantino il Grande dall’antichità all’umanesimo, II, Macerata 1993, p. 881 e nota 12; si veda anche in generale A.M. Rabello, Giustiniano, Ebrei e Samaritani alla luce delle fonti storico-letterarie, ecclesiastiche e giuridiche, 2 voll., Milano 1987, in partic. I, pp. 13-44.
20 Les lois religieuses des empereurs romains de Constantine à Theodose II (312-438), I, Paris 2005, p. 56.
21 A.M. Rabello, Giustiniano, Ebrei e Samaritani, cit., p. 25.
22 Per una visione d’insieme sul Codice Teodosiano e sulle leggi costantiniane cfr. Les lois religieuses des empereurs romains de Constantine à Theodose II (312-438), 2 voll., Paris 2005-2009.
23 E. Baltrusch, Zwischen Recht, cit., pp. 98-99.
24 Les lois religieuses des empereurs romains, I, cit., pp. 372-375; A.M. Rabello, The Legal Condition of the Jews, I, cit., pp. 305-306.
25 A.M. Rabello, La situazione giuridica degli ebrei nell’impero romano, cit., p. 133.
26 Il termine ‘patriarchi’ al plurale lascia intendere che qui si tratti di autorità religiose locali.
27 Sulla pratica del linciaggio popolare degli apostati cfr. J. Juster, Les Juifs dans l’Empire Romain, cit., II, pp. 156-159; G. de Bonfils, Gli ebrei dell’impero di Roma, cit., pp. 135-139; Les lois religieuses des empereurs romains, I, cit., pp. 368-369; 486-488.
28 Les lois religieuses des empereurs romains, I, cit., pp. 376-377; G. de Bonfils, Gli ebrei dell’impero di Roma, cit., pp. 74-75.
29 Cfr. G. de Bonfils, Gli ebrei dell’impero di Roma, cit., pp. 59-84.
30 Les lois religieuses des empereurs romains, I, cit., pp. 420-421; G. de Bonfils, Gli ebrei dell’impero di Roma, cit., pp. 84-85 (la datazione qui accettata per la legge è all’anno 339).
31 A.M. Rabello, La situazione giuridica degli ebrei nell’impero romano, cit., pp. 129-130.
32 Cfr. il parere di R. Delmaire in Les lois religieuses des empereurs romains, II, cit., p. 484 nota 1.
33 Cfr. G. de Bonfils, Gli ebrei dell’impero di Roma, cit., p. 79; qui Eusebio sembra riassumere l’intera legislazione in proposito, riferendosi anche alla successiva legge del 335.
34 Les lois religieuses des empereurs romains, I, cit., pp. 376-379; G. de Bonfils, Gli ebrei dell’impero di Roma, cit., pp. 87-92.
35 A.M. Rabello, Il problema dei matrimoni fra Ebrei e Cristiani nella legislazione imperiale e in quella della Chiesa, in Ebraismo e Diritto, I, cit., pp. 425-428.
36 A. Di Berardino, L’imperatore Costantino e la celebrazione della Pasqua, in Costantino il Grande dall’antichità all’umanesimo, I, cit., p. 368.
37 «Hanno contaminato le loro mani con un delitto abominevole, meritando di patire l’accecamento della mente come uomini impuri […]. Perciò non ci sia nulla in comune tra noi e la folla ostilissima degli ebrei» (Ep. ad Ecclesiam post Concilium Nicaenum, PL 8,501).
38 Ep. ad Ecclesiam post Concilium Nicaenum, PL 8, 503-504. Cfr. P.F. Fumagalli, Antichità e Medio Evo: cristiani di fronte all’antigiudaismo, in Radici dell’antigiudaismo in ambiente cristiano, Città del Vaticano 2000, p. 238.
39 Si cita da: A. Di Berardino, L’imperatore Costantino e la celebrazione della Pasqua, pp. 373-374.
40 A.M. Rabello, Giustiniano, Ebrei e Samaritani, cit., p. 25.
41 A proposito delle varie possibili interpretazioni di epískopos tõn ektòs, cfr. F.P. Rizzo, Dalla christianitas eusebiana alla antipaganitas orosiana, in Costantino il Grande dall’antichità all’umanesimo, cit., pp. 843-844 e nota 33; si vedano anche S. Calderone, Letteratura costantiniana e «conversione» di Costantino, in Costantino il Grande dall’antichità all’umanesimo, cit., p. 248; G. Dagron, Empereur et prêtre: Étude sur le “césaropapism” byzantin, Paris 1996, p. 147, il quale sostiene che l’espressione abbia il significato di custode e guida nei confronti dei cittadini dell’Impero. Da citare è anche la posizione di G. Fowden, Empire to Commonwealth: Consequences of Monotheism in Late Antiquity, Princeton 1994, pp. 91-93, in cui l’autore sostiene che la descrizione di Eusebio non corrisponda al tentativo di una più marcata soppressione del politeismo fuori e dentro i confini dell’Impero.
42 Cfr. G. de Bonfils, Gli ebrei dell’impero di Roma, cit., p. 137.
43 L. Cracco Ruggini, Pagani, ebrei e cristiani: odio sociologico e odio teologico nel mondo antico, in Gli ebrei nell’alto medioevo, I, Spoleto 1980, p. 49.
44 G. Gardenal, L’antigiudaismo nella letteratura cristiana antica e medievale, Brescia 2001, pp. 17-69, in partic. 47.
45 Cfr. Fratelli prediletti. Chiesa e popolo ebraico. Documenti e fatti: 1965-2005, a cura di P.F. Fumagalli, Milano 2005, pp. 52-55; 100-103.