Gli esiti della legislazione “svuotacarceri”
Al 31 luglio 2015, i detenuti ristretti negli istituti penitenziari italiani erano 52.144, a fronte di una capienza regolamentare pari 49.655 posti. Solamente cinque anni fa il nostro Paese aveva raggiunto il record di 68.258 presenze, determinando, tra l’altro, la C. eur. dir. uomo a condannare l’Italia nella celebre vicenda Torreggiani. Le riforme implementate nell’ultimo triennio hanno indubbiamente contribuito a consolidare una situazione di minore affollamento ed anche il numero di ingressi dalla libertà nel primo semestre del 2015 evidenzia un netto calo rispetto al passato.
Le linee guida perseguite dal legislatore nel corso dell’ultimo lustro si sono articolate su tre fronti: il primo, volto a potenziare l’edilizia penitenziaria (cd. “piano carceri”); il secondo, satisfattivo delle esigenze deflattive anche attraverso il progressivo ricorso a forme di carcerazione “domestica” ed al potenziamento dei benefici penitenziari e delle alternative alla detenzione; l’ultimo, tendente a diminuire gli ingressi in carcere, attraverso la sconfessione della l. 5.12.2005, n. 251. In prospettiva diversificata, sul versante cautelare, è stata emanata la l. 16.4.2015, n. 47, che ha contribuito al superamento delle presunzioni di pericolosità poste alla base della cd. “cattura obbligatoria”.
Con il d.l. 1.7.2013, n. 78 è stato profondamente innovato l’art. 656 c.p.p., attraverso l’inserimento di tre nuovi commi (4-bis, 4-ter e 4-quater), in forza dei quali il pubblico ministero, sempre che il condannato non si trovi già in stato di custodia cautelare (art. 656, co. 9, lett. b), c.p.p.) ovvero sia in espiazione di pena per uno dei delitti indicati nell’art. 4 bis ord. penit., deve “pre-computare” la liberazione anticipata maturata sull’eventuale presofferto. Detto altrimenti, gli effetti della liberazione anticipata vengono “retrodatati” al momento dell’emissione dell’ordine di esecuzione: qualora, infatti, debbano essere computati dei periodi di custodia cautelare ovvero delle pene espiate sine titulo ai sensi dell’articolo 657 c.p.p., l’organo d’accusa deve trasmettere gli atti al mag. sorv., affinché provveda senza ritardo all’eventuale applicazione del beneficio penitenziario, con ordinanza emessa ai sensi dell’art. 69 bis ord. penit. All’esito di tale procedimento, il p.m. emetterà i provvedimenti rispettivamente contemplati dall’art. 656 co. 1, 5 o 101.
L’intervento normativo appare di sicura efficacia: anteriormente ad esso, invero, la pena sarebbe stata eseguita, spettando al condannato, ormai in vinculis, l’attivazione del procedimento finalizzato, in prima battuta, alla concessione della liberazione anticipata e, in caso di esito positivo, di quello per l’applicazione di misure alternative alla detenzione. L’interpolazione normativa pare quindi diretta ad evitare un iter particolarmente farraginoso, destinato a protrarre per mesi e mesi lo stato detentivo.
Il d.l. ha, inoltre, razionalizzato il testo dell’art. 656, co. 5, c.p.p., prevedendo espressamente l’operatività della sospensione dell’ordine di esecuzione anche per le pene non superiori a quattro anni di reclusione, nelle ipotesi di condannati ammissibili alla detenzione domiciliare cd. “umanitaria” (art. 47 ter, co. 1, ord. penit.). Indubbiamente condivisibile, soprattutto in ragione delle situazioni in cui tali persone versano, può peraltro essere non sempre agevole per il p.m. (analogamente a quanto accade in riferimento alla sospensione più favorevole prevista per le tossicodipendenze) conoscere le condizioni di tali condannati nel ristretto spazio temporale corrente tra l’irrevocabilità e l’esecuzione della sentenza di condanna.
Le modifiche maggiormente incisive riguardano, peraltro, la disciplina delle preclusioni alla sospensione dell’ordine di esecuzione, per effetto delle quali scompaiono dal catalogo di cui all’art. 656, co. 9, lett. a), c.p.p. le ipotesi di furto pluriaggravato (artt. 624 e 625 c.p.) e i delitti aggravati dalla condizione di clandestinità (già dichiarati illegittimi dalla Consulta con la sentenza 8.7.2010, n. 249). Ma la novità di maggior rilievo riguarda il ripudio delle scelte penitenziarie contenute nella l. n. 251/2005, con particolare riguardo alla disciplina deteriore riservata ai condannati recidivi reiterati. In tale prospettiva, nonostante lo spirito conservatore del Senato, ove si tendeva a “salvare” la legge ex Cirielli, la Camera dei deputati ha confermato la soppressione dell’art. 656, co. 9, lett. c), c.p.p., laddove inibiva a detti condannati la sospensione dell’ordine di esecuzione, anche nelle ipotesi in cui la pena fosse stata inferiore ai tre anni, precludendo, in un’ottica retributiva, la fruibilità ab initio delle misure alternative alla detenzione.
Anche in relazione al microsistema dei benefici penitenziari e delle misure alternative alla detenzione, la novella presenta tratti di indubbio interesse. Innanzi tutto, con riferimento ai condannati minorenni, il Senato ha aumentato la durata di ogni permesso premio da venti a trenta giorni, elevando contestualmente da sessanta a cento giorni la durata complessiva dei permessi per ogni anno di espiazione. Poi, relativamente ai condannati maggiorenni, il Senato ha innalzato da tre a quattro anni il limite di pena per i condannati all’arresto o alla reclusione entro il quale la concessione dei permessi premio è ammessa senza aver previamente scontato una frazione predeterminata della pena inflitta. Sempre con riferimento alle misure alternative alla detenzione, il d.l. ha inciso sulla disciplina della detenzione domiciliare “umanitaria” per i recidivi reiterati, abrogando il comma 1.1 dell’art. 47 ter ord. penit., introdotto dalla l. n. 251/2005, che ne limitava la fruibilità in relazione alle sole pene non superiori a tre anni di reclusione, frustrando, in ossequio ad una logica inspiegabilmente retributiva, i diritti fondamentali dell’individuo sottesi all’istituto. Nella medesima ottica si è mosso il d.l. nell’abrogazione di parte del secondo periodo del comma 1bis dell’art. 47 ter ord. penit. Anche in questa circostanza, il legislatore del 2005 aveva inibito la concessione della detenzione domiciliare cd. “generica” o “[infra]biennale” ai condannati recidivi reiterati.
L’opera “demolitoria” della l. n. 251/2005, proseguita attraverso l’abrogazione dell’art. 50-bis ord. penit., non si è tuttavia concretizzata nell’eliminazione degli artt. 30 quater ord. penit., relativo alla disciplina dei permessi premio per i recidivi) e 58 quater, co. 7-bis, ord. penit., il quale prevede che l’affidamento in prova al servizio sociale, la detenzione domiciliare e la semilibertà non possono essere concessi più di una volta al condannato recidivo reiterato.
2.1 Il d.l. n. 146/2013
Al fine «di ridurre con effetti immediati il sovraffollamento carcerario», altresì rafforzando «la tutela dei diritti delle persone detenute», il d.l. 23.12.2013, n. 146, conv. dalla l. 21.2.2014, n. 10, ha inciso in modo considerevole sulle dinamiche esecutive e penitenziarie, per assicurare quel sistema di rimedi preventivi e compensativi richiesti dalla C. eur. dir. uomo. Recependo le soluzioni elaborate dapprima nell’àmbito della Commissione Mista per lo studio dei problemi della Magistratura di Sorveglianza (cd. “Commissione Mista”), poi in seno alla Commissione di Studio in tema di Ordinamento penitenziario e misure alternative alla detenzione (cd. “Commissione Giostra”), il provvedimento legislativo evidenzia una duplice linea d’azione: da un lato, infatti, esso implementa rilevanti interventi deflattivi; in prospettiva diversificata, invece, tende a rafforzare la tutela dei diritti dei detenuti, come espressamente richiesto dai giudici di Strasburgo.
Il d.l. è, innanzi tutto, intervenuto sull’art. 73 d.P.R. 9.10.1990, n. 309, configurando a guisa di ipotesi autonoma, punita con una più lieve pena2, la fattispecie circostanziale contemplata dal comma 5. Attraverso tale modificazione il legislatore ha neutralizzato le limitazioni che la legge n. 251/2005 aveva apposto all’esercizio del potere discrezionale del giudice in caso di recidiva reiterata. In altri termini, nel prevedere un’autonoma ipotesi di reato, si è voluto escludere, per il futuro, che il fatto di “lieve entità” possa rientrare, al pari delle altre circostanze, nel giudizio di comparazione di cui all’art. 69 c.p., estremamente irrigidito dalla normativa emergenziale del 2005. Nondimeno, non va trascurato come, anche alla luce della novella, permanga un’ampia discrezionalità del giudice nella qualificazione di un reato in materia di stupefacenti come di “fatto di lieve entità”, che può, in concreto, determinare le più rilevanti conseguenze in tema di trattamento sanzionatorio.
Importanti, inoltre, le “ricadute” processuali: da un lato, il trattamento sanzionatorio delineato dal “nuovo” art. 73, co. 5, d.P.R. n. 309/1990, trasforma l’arresto da obbligatorio in facoltativo, attenuando il fenomeno delle cc.dd. porte girevoli. Dall’altro lato, la configurazione della fattispecie quale reato autonomo influirà certamente sulla individuazione dei termini di durata massima dell’eventuale custodia cautelare. Infine, gli effetti più evidenti della novella si avranno in materia di prescrizione, ridotta a sette anni e mezzo, laddove (nell’assetto previgente) l’irrilevanza delle circostanze attenuanti sulla durata dei termini prescrizionali rendeva di fatto imprescrittibili anche i reati di detenzione illecita o piccolo spaccio di stupefacente3.
Nelle more della conversione in legge del provvedimento d’urgenza, la Corte costituzionale (sent. 25.2.2014, n. 32)4 ha inoltre dichiarato l’illegittimità costituzionale, per violazione dell’art. 77 co. 2, Cost., degli artt. 4 bis e 4 vicies ter, d.l. 30.12.2005, n. 272, conv. dalla l. 21.2.2006, n. 49. La citata decisione ha prodotto la reviviscenza della legge Jervolino-Vassalli, che, con riferimento all’art. 73, co. 5, d.P.R. n. 309/1990, stabiliva, rispettivamente, la pena detentiva della reclusione da uno a sei anni (se il “fatto di lieve entità” ha per oggetto le cd. droghe pesanti) ovvero da sei mesi a quattro anni (se il “fatto di lieve entità” riguarda, invece, le cd. droghe leggere).
Sempre in riferimento alla normativa in àmbito di stupefacenti, nel tentativo di rilanciare l’affidamento cd. terapeutico (art. 94 d.P.R. n. 309/1990), il d.l. (art. 2, co. 1, lett. b) ha soppresso la preclusione della terza concessione della misura terapeutica al condannato nei cui confronti il beneficio fosse già stato concesso due volte. Detto limite, in particolare, è apparso inappropriato in ragione della peculiarità della condizione dei soggetti tossico od alcooldipendenti, i quali sono spesso esposti al rischio di ricadute. Tale intervento, oltre ad incentivare l’accesso dei detenuti tossicodipendenti all’affidamento in prova in casi particolari, consentirà anche la riproposizione di istanze da parte di chi, alla data del 24.12.2013, avesse già beneficiato per due volte della misura alternativa.
Anche i presupposti oggettivi dell’affidamento in prova “ordinario” (art. 47 ord. penit.) hanno subìto una decisa dilatazione, elevandosi a quattro anni di detenzione il limite di pena, anche residua, per la concessione della misura alternativa, nelle ipotesi in cui il condannato «abbia serbato, quantomeno nell’anno precedente alla presentazione della richiesta, trascorso in espiazione di pena, in esecuzione di una misura cautelare ovvero in libertà, un comportamento tale da consentire» una positiva prognosi rieducativa. Il maggior limite di pena, peraltro, riguarda esclusivamente i condannati detenuti in carcere, essendo rimasto invariato il limite di tre anni per la sospensione dell’ordine di esecuzione di cui all’art. 656, co. 5, c.p.p.
Condivisibile è la modificazione del farraginoso sistema delineato dall’art. 47, co. 4, ord. penit. (e dalle norme che ad esso operano rinvio: art. 50, co. 6, ord. penit; artt. 91, co. 4 e 94, co. 2, d.P.R. n. 309/1990). La novella (art. 3, co. 2, lett. d), d.l. n. 146/2013) ha, infatti, radicato nell’organo collegiale di sorveglianza la competenza a provvedere sull’istanza di affidamento in prova, affiancando ad essa un intervento “cautelare” del magistrato di sorveglianza, il quale, alle condizioni sopra descritte, può disporre la liberazione del condannato, ma anche l’applicazione provvisoria della misura (corredata dalle prescrizioni ad essa coessenziali).
Un’ulteriore innovazione di rilievo nella disciplina dell’affidamento in prova al servizio sociale, riguarda il regime delle deroghe temporanee alle prescrizioni, che l’art. 3 comma 1 lett. e del d.l. n. 146 del 2013, affida, nei casi di urgenza, al «direttore dell’ufficio di esecuzione penale esterna, che ne dà immediata comunicazione al magistrato di sorveglianza e ne riferisce nella relazione di cui al comma 10».
Sempre in un’ottica deflativa, il recente legislatore è intervenuto potenziando l’uso del cd. braccialetto elettronico, sia nel momento cautelare, configurandolo quale prescrizione coessenziale agli arresti domiciliari, sia in executivis, in relazione alla misura della detenzione domiciliare (art. 58 quinquies ord. penit.).
Nondimeno, l’innovazione di maggior rilievo destinata ad incidere sui flussi in uscita dal circuito carcerario, è stata l’istituzione della liberazione anticipata speciale, beneficio «a termine», in forza del quale, per un periodo di due anni dalla data di entrata in vigore del d.l., la detrazione di pena concedibile ai sensi dell’art. 54 ord. penit. è pari a settantacinque giorni (invece che a quarantacinque) per ogni singolo semestre di pena scontata.
Al fine di incrementarne l’impatto deflativo, la legge prevede che il periodo valutabile ai fini de quibus decorra dal 1° gennaio 2010, precisandosi che la maggiore detrazione di trenta giorni venga accordata solo a condizione che il condannato, successivamente alla concessione del beneficio, abbia continuato a dare prova di partecipazione all’opera di rieducazione.
Esclusi dall’operatività della novella sono i condannati per i delitti di cui all’art. 4-bis ord. penit.5, nonché coloro che siano stati ammessi all’affidamento in prova e alla detenzione domiciliare (relativamente ai periodi trascorsi, in tutto o in parte, in esecuzione di tali misure alternative), né ai condannati che siano stati ammessi all’esecuzione della pena presso il domicilio o che si trovino agli arresti domiciliari ex art. 656, co.10, c.p.p.
Sempre in un’ottica “decongestionante”, infine, è stata ampliata l’espulsione come misura alternativa al carcere (art. 16 d.lgs. 25.7.1998, n. 286), accompagnata dalla previsione di procedure maggiormente snelle in tema di identificazione dello straniero.
2.2 La l. 16.4.2015, n. 47
Metabolizzando la “lunga marcia” della Corte costituzionale (C. cost. 21.7.2010, n. 265; 12.5.2011, n. 164; 22.7.2011, n. 231; 3.5.2012, n. 110; 29.3.2013, n. 57; n. 213 del 2013; 18.7.2013, n. 232; 26.3.2015, n. 48) in punto di adeguatezza della custodia cautelare in carcere, il recente legislatore6 ha operato un restauro “conservativo” dell’art. 275, co. 3, c.p.p., mantenendo l’obbligatorietà della cattura («salvo che siano acquisiti elementi dai quali risulti che non sussistono esigenze cautelari») solo per le ipotesi in cui sussistono gravi indizi di colpevolezza in ordine ai delitti di associazione mafiosa, associazione sovversiva ed associazione con finalità di terrorismo anche internazionale o di eversione dell’ordine democratico. Al contrario, il regime della presunzione relativa di adeguatezza della custodia cautelare in carcere, ispirata al corollario del “minor sacrificio”, sarebbe operativa in relazione ai (residuali) delitti di cui all’art. 51, co. 3-bis e 3-quarter, c.p.p., nonché a quelli di omicidio, induzione alla prostituzione minorile, pornografia minorile (ad esclusione dell’ipotesi di cessione del materiale anche gratuita), turismo sessuale e alle fattispecie di violenza sessuale, atti sessuali con minorenne e violenza sessuale di gruppo (eccezion fatta per le ipotesi in cui ricorrano le circostanze attenuanti.
Sempre in un’ottica deflativa si leggono le modifiche all’art. 276, co. 1-ter, c.p.p. ed all’art. 284, co. 5-bis, c.p.p. laddove si prevede che il giudice, nel valutare la violazione alle prescrizioni del divieto di allontanarsi dal luogo della restrizione, ovvero le implicazioni di una accertata evasione debba tener conto se si tratti o meno di un fatto lieve.
Sotto il profilo motivazionale, una rilevante innovazione è ravvisabile nel “nuovo” art. 275, co. 3-bis, c.p.p., laddove impone al giudice, che ritenga di disporre la custodia cautelare in carcere, di «indicare le specifiche ragioni per cui ritiene inidonea, nel caso concreto, la misura degli arresti domiciliari con le procedure di controllo di cui all’art. 275 bis, comma 1» c.p.p.7. Se tale obbligo è inconciliabile con la presunzione assoluta di adeguatezza, parrebbe, al contrario, esigibile in riferimento a tutte le situazioni in cui la presunzione relativa incide sul quomodo della cautela, imponendosi al giudice un obbligo di motivazione più stringente sul canone dell’adeguatezza, quanto meno sotto il profilo dell’idoneità della misura meno afflittiva degli arresti domiciliari, “rinforzata” con le relative procedure di controllo8.
L’art. 26 del recente d.d.l. C 2798, recante «Princìpi e criteri direttivi per la riforma dell’ordinamento penitenziario» rappresenta un osservatorio privilegiato per esaminare i quarant’anni della legge fondamentale di ordinamento penitenziario e la sua attitudine a soddisfare le esigenze carcerarie del terzo millennio.
Analizziamone il primo criterio: «a) semplificazione delle procedure, anche con la previsione del contraddittorio differito ed eventuale, per le decisioni di competenza del magistrato e del tribunale di sorveglianza, fatta eccezione per quelle relative alla revoca delle misure alternative alla detenzione». Se il periodo 1975-1989 è stato caratterizzato dalla cartolarità del contraddittorio, il modello “partecipato” introdotto dal vigente codice di rito (art. 678 c.p.p.) si è progressivamente imposto grazie alla giurisprudenza costituzionale, lambendo taluni settori in precedenza non garantiti. Gli anni Novanta del millennio passato hanno registrato un’imponente opera interpretativa della Consulta, culminata con la celebre sentenza 11.2.1999, n. 26. L’annosa supplenza giurisdizionale, resasi necessaria a causa della prolungata inattività del legislatore, ha registrato l’applicazione del contraddittorio cartolare (artt. 69 e 14 ter ord. penit.) al settore dei reclami cd. generici, attraverso i quali dal 1975 ad oggi sono stati “giustiziati” i diritti soggettivi dei detenuti. Solamente a seguito del diktat imposto al nostro Paese dalla Corte di Strasburgo nella vicenda Torreggiani, il problema di un rimedio effettivo a tutela dei diritti dei detenuti si è posto in tutta la sua drammatica indifferibilità. Gli artt. 35 bis e 35 ter ord. penit. compendiano il duplice livello della tutela, preventiva e compensativa, elevando al massimo grado la tutela procedimentale. Nondimeno, già a far data dal 2000, la spinta propulsiva del “giusto” procedimento di sorveglianza si era progressivamente attenuata: “indultino” e procedimento in tema di liberazione anticipata avevano anticipato i segni di una controtendenza legislativa, caratterizzata dall’abbandono della giurisdizionalità “necessaria” a favore di quella “eventuale” e “posticipata” ed il d.l. n. 146/2013, attraverso l’inserimento dell’art. 678, co. 1-bis, c.p.p., ha espresso la scelta di riservare la procedura a maggiore tasso di giurisdizionalità alle materie per le quali si procede con le più garantite forme di cui all’art. 666 c.p.p. ed estendendo alle materie di competenza del mag. sorv. la più snella procedura camerale.
Quali, gli ulteriori spazi di semplificazione? A fronte del criterio di delega, gli unici procedimenti suscettibili di contrazione sembrerebbero essere quelli di concessione delle misure alternative alla detenzione, nonché di rinvio, obbligatorio e facoltativo, dell’esecuzione. Trattasi, però, di àmbiti in cui il contraddittorio “preventivo” costituisce una garanzia ineliminabile, anche in considerazione dell’apporto dei giudici “esperti”, il ruolo dei quali perderebbe di significato, se svincolato dal contatto diretto con l’interessato. Con riferimento, invece, alla competenza del mag. sorv., se sembra da escludere, in ragione della complessità dell’accertamento, l’operatività del procedimento de plano in riferimento ai procedimenti di riesame della pericolosità; di applicazione, esecuzione, trasformazione o revoca di misure di sicurezza; e di ricoveri ex art. 148 c.p., lo stesso non è a dirsi con riguardo alle dichiarazioni di abitualità o professionalità nel reato o di tendenza a delinquere, relativamente alle quali la discrezionalità del giudice potrebbe prescindere dal previo contraddittorio.
L’art. 26, lett. b), dello schema di delega legislativa impone la «revisione dei presupposti di accesso alle misure alternative, sia con riferimento ai presupposti soggettivi sia con riferimento ai limiti di pena, al fine di facilitare il ricorso alle stesse». Non è certamente questa la sede per ripercorrere la storia e lo snaturamento funzionale delle alternative alla detenzione: premesso, però, che ogni intervento sull’assetto delle alternative alla detenzione impone una previa armonizzazione con i princìpi contenuti nella legge delega 28.4.2014, n. 67, sembra comunque necessario disincagliare l’attuale sistema dalle secche di una prassi caratterizzata da una marcata “amministrativizzazione” trattamentale, non disgiunta da ipocrisia nella decodificazione degli elementi del trattamento stesso.
Quanto al primo profilo, è necessario che si pervenga all’affermazione del “diritto” alla rieducazione. Detto altrimenti, il passaggio alla misura alternativa non dovrà più essere considerato un evento eccezionale, bensì il naturale sviluppo dell’esecuzione penale, ispirato al principio di “progressività trattamentale”. Quale corollario del principio, inoltre, si pone la previsione che eventuali modificazioni in peius delle condizioni di accesso ai benefici o alle misure alternative alla detenzione non abbiano efficacia retroattiva. È purtroppo noto come, nella prassi, la concessione del permesso premio segua dinamiche eccessivamente burocratizzate, postulando la cd. chiusura della sintesi trattamentale operata dalla relativa équipe. Deriva da tanto che le carenze amministrative sono suscettibili di ricadere “a cascata” sui tempi (e quindi sull’effettività) della progressione trattamentale. Talvolta, poi, la mancata previsione del permesso premio nel programma di trattamento (ad es. nei casi di condannati per delitti di cui all’art. 4 bis, co. 1, ord. penit.) genera inquietanti non liquet giurisdizionali, inaccettabili con riguardo ad un assetto che postula la giurisdizionalizzazione delle dinamiche de libertate. In tale prospettiva, l’esperienza dei permessi premio, in quanto «parte integrante del programma di trattamento», assume una rilevanza fondamentale ed è necessario che la magistratura di sorveglianza vigili costantemente su tempistica ed instaurazione (anche ufficiosa) del relativo procedimento, al fine di garantire l’effettività della progressione trattamentale. Con riferimento al secondo profilo, i tre capisaldi del trattamento penitenziario, (religione, istruzione e lavoro) chiedono di essere attualizzati: il primo, soprattutto in ragione del multiculturalismo penitenziario; il secondo, alla luce dell’effettività del relativo diritto, spesso vanificata dai trasferimenti disposti dall’amministrazione penitenziaria ovvero da circolari dalla stessa emesse. Il lavoro, infine, alla luce di una crisi che colpisce da tempo anche la società dei liberi. Del resto, i numeri “parlano” da soli: le statistiche ministeriali evidenziano che al 31.12.2014, il 56% dei detenuti definitivi doveva espiare una pena residua inferiore ai tre anni di reclusione. Il dato evidenzia una sconfortante sottoutilizzazione delle alternative a disposizione della magistratura di sorveglianza, non certamente imputabile alla disciplina dettata dall’art. 4 bis ord. penit.
La lett. c) della bozza di delega impone l’«eliminazione di automatismi e di preclusioni che impediscono o rendono molto difficile, sia per i recidivi sia per gli autori di determinate categorie di reati, l’individualizzazione del trattamento rieducativo e revisione della disciplina di preclusione dei benefìci penitenziari per i condannati alla pena dell’ergastolo». Il sostantivo («eliminazione») non pare lasciare dubbi di sorta: il criterio di delega impone sia di proseguire nell’opera di “riabilitazione” dei recidivi reiterati, parzialmente realizzata dal d.l. 1.7.2013, n. 78, conv. l. 9.8.2013, n. 94, sia nel ripudio del cd. “doppio binario”.
Quanto al primo aspetto, è d’uopo rammentare che il d.l. n. 78/2013, chiaramente volto alla risoluzione delle ostatività introdotte dalla l. n. 251/2005, aveva abrogato tutte le disposizioni (art. 656, co. 9, lett. c, c.p.p.; artt. 30 quater, 47 ter, co. 1.1, e 1-bis, 50 bis, 58 quater, co. 7-bis, ord. penit.) che, a vario titolo, introducevano preclusioni ovvero stabilivano soglie espiative “maggiorate” a carico dei condannati recidivi reiterati. A seguito di una dialettica, anche aspra, tra i due rami del Parlamento, solo alcune delle innovazioni sono state metabolizzate dalla legge di conversione, mentre le altre non sono state recepite. Il riferimento corre agli artt. 30 quater e 58 quater, co. 7-bis, ord. penit., la cui vigenza, strenuamente difesa dal Senato (che votò per il ripristino integrale delle norme della l. n. 251/2005), fu condivisa anche dalla Camera dei deputati, diversificando “a monte” e “a valle” il trattamento rieducativo per i condannati recidivi reiterati. Con riferimento, invece, alla differenziazione per titolo di reato, il riferimento corre all’icona, al simbolo delle scelte carcerocentriche degli ultimi venticinque anni: l’art. 4 bis ord. penit., che continua a precludere le potenzialità trattamentali insite nella legge penitenziaria, attraverso un “patteggiamento” tra rieducazione e collaborazione. Se, nel primo decennio applicativo, il combinato disposto degli artt. 4 bis e 58 ter ord. penit. aveva forse contribuito a fronteggiare la criminalità organizzata in executivis, le successive interpolazioni della prima norma, volte ad utilizzare il “contenitore” penitenziario come espressione di emergenze contingenti ed eterogenee, da reprimere “buttando via la chiave”, hanno evidenziato un assetto che suscita svariate perplessità sul piano costituzionale, violando gli artt. 3, 25, co. 1, e 27, co. 3, Cost. Anche la prassi applicativa da tempo registra solo richieste di collaborazione cd. impossibile o inesigibile con il rischio di appesantire ancor più i ranghi (già ridotti) della magistratura di sorveglianza. È giunto il momento, insomma, che la politica abbandoni l’ipocrisia bipartisan che da troppo tempo caratterizza l’approccio al carcere e affronti con serenità l’idea che “doppio binario” e “pena” sono entità diverse e che non può negarsi il diritto alla rieducazione in nome di “verità” che il sistema dovrebbe acquisire senza ricatto. Del resto, anche in riferimento alla differenziazione esecutiva i numeri non mentono: alla data del 31.12.2014 solo il 12% dei detenuti definitivi stava scontando pene residue superiori ai dieci anni di reclusione, a fronte di un31,2% di condannati ad eguali pene inflitte. È quindi da ritenere che l’onda lunga delle condanne per fatti di criminalità organizzata sia lentamente scemata, sì da rendere plausibile ed opportuna una rimeditazione politicosistematica dell’art. 4 bis.
Ma è la lett. h) dello schema di delega («riconoscimento del diritto all’affettività delle persone detenute e delle condizioni generali per il suo esercizio») ad evidenziare il punctum dolens della legge penitenziaria. Al di là ed oltre l’imperativo rivolto al legislatore delegato, recentemente sottoposto al vaglio della Consulta (sentenza 19.12.2012, n. 301), il tema della tutela dei diritti del detenuto è ancora confinato in quella no-man’s land contesa dall’amministrazione penitenziaria e dalla giurisdizione rieducativa. Se gli artt. 35 bis e 35 ter ord. penit. hanno colmato un vuoto normativo durato quasi un quindicennio, sul piano culturale, invece, c’è ancora molta strada da percorrere: basti pensare che, proprio nel momento in cui il governo assisteva alla conversione in legge del d.l. n. 78/2013 e si preparava ad emanare il d.l. n. 146/2013, istitutivo, tra l’altro, del Garante nazionale dei diritti delle persone detenute o private della libertà personale il DAP interveniva con la circ. n. 3651/6101 del 7.11.2013 fortemente limitativa dell’attività dei Garanti.
1 Cfr. Lavarini, B., Ordine di esecuzione e meccanismi sospensivi, in Caprioli, F. Scomparin, L., Sovraffollamento carcerario e diritti dei detenuti, Torino, 2015, p. 48 ss.
2 V. Fiorentin, F., Decreto svuotacarceri (d.l. 23 dicembre 2013, n. 146), Milano, 2014, 33.
3 Così, ancora, Fiorentin, F., ult. op. cit., 35.
4 V. Della Bella, A.Viganò, F., Convertito il d.l. 146/2013 sull’emergenza carceri: il nodo dell’art. 73 co. 5 t.u. stup., in www.penalecontemporaneo.it, 24.2.2014; Id., Sulle ricadute della sentenza n. 32/2014 della Corte costituzionale sull’art. 73 t.u. stup., www.penalecontemporaneo.it, 27.2.2014.
5 Cfr., specialmente, Giostra, G., I delicati problemi applicativi di una norma che non c’è (a proposito di presunte ipotesi ostative alla liberazione anticipata speciale), in Dir. pen. cont., 2014, fasc. 34.
6 Sui tratti caratterizzanti la novella v., per tutti, Spangher, G., Brevi riflessioni sistematiche sulle misure cautelari dopo la l. n. 47 del 2015, in www.penalecontemporaneo.it., 6.7.2015.
7 Precisa il Dossier della Camera di Deputati, 29.4.2014. n. 17/2, 14, che «[n]onostante la norma non lo espliciti, tali motivi dovrebbero essere enunciati nelle motivazioni dell’ordinanza che dispone la misura cautelare carceraria (art. 292 c.p.p.)».
8 Testualmente, Pollera, M., La presunzione relativa di adeguatezza fra oneri probatori e obblighi motivazionali, in Cass. pen., 2014, 3835.