Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
L’America centrale e meridionale conquistate dagli Spagnoli subiscono profonde trasformazioni politiche, economiche, culturali ma anche ecologiche. Alla conquista politica e militare fa infatti seguito quella culturale e spirituale. Nel contempo tra Vecchio e Nuovo Mondo prende avvio un processo di scambio di specie animali e vegetali che trasforma economie e paesaggi. L’integrazione economica degli spazi che si affacciano sull’Atlantico dà vita a un’economia-mondo in continua espansione che, attraverso l’Oceano Pacifico si connette alle economie asiatiche.
Con il trionfo di Pizarro l’essenziale della conquista è ormai compiuto, anche se gli Spagnoli continueranno a estendere il territorio sotto il loro controllo sia in America centrale e settentrionale che in America meridionale.
Nel frattempo, il nuovo mondo coloniale creato dalla conquista definisce le sue strutture sociali, politiche ed economiche. In una prima fase l’istituzione fondamentale che regola i rapporti fra Spagnoli e indigeni è l’encomienda, in base a cui un certo numero di indigeni viene “affidato” a un colono, il quale, in teoria come contropartita della loro evangelizzazione, ne usufruisce come forza-lavoro. Si tratta in pratica di uno strumento di sfruttamento della popolazione indigena che come tale viene aspramente criticato da coloro che, come il domenicano Bartolomé de Las Casas, cercano di difendere i diritti degli indios. La corona castigliana e lo stesso Carlo V sono tutt’altro che insensibili ai problemi giuridici e morali sollevati dalla conquista e alla sorte delle popolazioni assoggettate, e vi è anche la preoccupazione di natura politica che gli encomenderos si trasformino in un’aristocrazia ereditaria in grado di sottrarsi al controllo della corona. Almeno inizialmente, tuttavia, anche a causa delle enormi distanze e delle difficoltà di comunicazione, la capacità d’intervento delle autorità centrali castigliane sul mondo coloniale è limitata.
Del resto la stessa conquista non era stata condotta direttamente dalla corona, che aveva stipulato accordi con un “imprenditore” privato che investe nell’impresa risorse proprie e, di conseguenza, si riserva gran parte dei benefici. Il primo organismo di controllo centrale è la Casa de la Contratacíon de Sevilla, istituita nel 1503, che nel 1521 viene affiancata da un Consejo real y supremo de las Indias, secondo il modello sinodale di governo caratteristico della monarchia asburgica. Il consiglio diventa il vero organo centrale di controllo su quello che, giuridicamente è un dominio del sovrano al pari dei regni iberici o italiani.
In base alle Nuove Leggi emanate nel 1542-1543, il re è il sovrano degli indios ed esercita la sua autorità attraverso la gerarchia dei capi indigeni. Questa soluzione giuridica riflette l’incertezza esistente fra gli stessi Spagnoli circa la legittimità della conquista. Vari teologi e giuristi, come Las Casas e Francisco de Vitoria, ritengono infatti che il paganesimo degli indigeni e la necessità di evangelizzarli non comporti di per sé il diritto di assoggettarli. In base al diritto naturale, l’ordinamento politico degli indigeni è legittimo.
L’America spagnola viene divisa in due vicereami, quello della Nuova Spagna, in America centrale, e quello del Perù. I poteri del viceré sono essenzialmente di natura militare. L’élite coloniale trova la sua espressione nelle Audiencias, organismi di natura sia politico-amministrativa che giudiziaria. A livello locale venivano nominati degli alcades e dei corregidores responsabili per la popolazione indigena.
L’evangelizzazione è la giustificazione ideologica più importante della conquista. Così come Ferdinando e Isabella – scrive il francescano de Mendieta – hanno estirpato il giudaismo e l’islam dalla Spagna, i loro “discendenti porteranno a termine in tutto il mondo la distruzione universale di queste sette e la conversione finale di tutti i popoli della terra che rientreranno finalmente nel seno della Chiesa”. Per realizzare questa missione nelle Americhe, in Africa e in Asia, il Re cattolico, come il suo collega portoghese, ha ricevuto dal pontefice il patronato reale, ovvero il pieno controllo sulle istituzioni ecclesiastiche al di fuori dell’Europa.
La conquista spirituale nelle Americhe, a differenza di quanto avviene in Asia, va di pari passo con la conquista politica e militare. La premessa dell’annuncio del Vangelo è quindi la distruzione dei templi e degli idoli degli indigeni e l’annientamento dei loro sacerdoti. A ciò seguono la predicazione e la conversione, spesso sbrigative, ad opera soprattutto del clero secolare – Francescani, Domenicani, Agostiniani – che sovente si oppongono alle violenze e gli abusi dei coloni spagnoli nei confronti degli indios. Questi ultimi tuttavia vengono esclusi, almeno fino alla fine del Cinquecento, dalle file del clero: “Sono stati creati” – scrive ancora Mendieta – “per essere scolari, non maestri, parrocchiani, non preti…”
Non sempre si tratta di allievi docili e diligenti. Le reazioni delle popolazioni indie alla “conquista spirituale” presentano infatti un ampio spettro che va dall’accoglienza entusiasta delle nuova fede, vista anche come strumento di integrazione nella società dei dominatori, a una resistenza attiva, passando attraverso ogni forma di meticciato e di sincretismo. Una conversione effettiva e autentica al cristianesimo si ha solo nell’ambito delle élite indigene educate in istituzioni prestigiose come il collegio Santa Cruz di Tlateolco, in Messico. Nelle campagne, sotto una sottile superficie di conformismo, rituali e simboli cristiani si affiancano, senza sostituirli a quelli indigeni. La scoperta della diffusa sopravvivenza clandestina di riti precristiani, scatena talvolta feroci reazioni repressive, come accade nella regione maya negli anni Sessanta del Cinquecento, con migliaia di indios interrogati e torturati. Nella regione andina in particolare, più difficilmente accessibile, le tradizioni religiose indigene resistono molto più a lungo.
Nell’ultima parte del Cinquecento l’entusiasmo missionario declina. Fino al 1570 praticamente tutti i vescovi sono di provenienza europea, e spesso si tratta di figure di notevole valore pastorale, sinceramente preoccupati della loro missione. In seguito la percentuale dei vescovi creoli, ovvero di origine iberica ma nati nelle Americhe, aumenta, ma questo comporta uno scadimento qualitativo nonché un atteggiamento di maggiore incomprensione se non di aperta ostilità nei confronti degli indigeni.
Lo shock microbico successivo all’arrivo degli Europei, primo responsabile del crollo demografico degli indigeni, non è, per fortuna, l’unico aspetto di quello che lo storico Alfred W. Crosby ha definito “lo scambio colombiano”, ovvero l’ibridazione degli ecosistemi del Vecchio e del Nuovo Mondo. Durante la loro lunga storia di reciproca estraneità, biologica oltre che culturale, America da una parte, Eurasia e Africa dall’altra, avevano visto evolversi faune e flore nettamente differenziate, a partire da cui le rispettive popolazioni avevano sviluppato sistemi agrari profondamente diversi. I cereali, sui quali si erano basate le rivoluzioni neolitiche con epicentro nel Medio Oriente e in Cina, ovvero il frumento, l’orzo, il miglio, il riso e altri, erano sconosciuti nelle Americhe. Al loro posto vengono utilizzati il mais, sugli altipiani messicani e lungo la costa dell’America meridionale, e la patata, a loro volta sconosciuti nel Vecchio Mondo.
L’ acclimatazione di queste piante nei nuovi ambienti non è sempre facile né rapida, per ragioni climatiche, ma anche culturali. I cerali euroasiatici troveranno un terreno e un clima adatti solo nell’America temperata e anche i tentativi degli Spagnoli di introdurre la coltivazione dell’ulivo e della vite, componenti essenziali delle loro abitudini alimentari, nelle zone tropicali incontreranno grandi difficoltà. Mais e patata conosceranno invece in Europa un successo tardivo ma travolgente. Rispetto ai cereali tradizionali infatti offrono il vantaggio di una maggiore resa per unità di superficie e, soprattutto per la patata, di una maggiore capacità di adattamento a climi rigidi e terreni montagnosi, qualità che compensano una certa povertà nutrizionale. L’America ha però anche altro da offrire, alimenti forse quantitativamente meno rilevanti nella dieta degli Europei, ma che modificano comunque in profondità gusti e abitudini alimentari. Basti pensare al pomodoro, al peperoncino, a diversi tipi di fagioli, al cacao e a quello pseudoalimento che è il tabacco.
Quanto alla fauna, la dotazione delle Americhe era piuttosto modesta, sia per quanto riguarda gli animali da lavoro che quelli da cui si potevano ottenere alimenti o materie prime. I grandi animali – bovini, ovini, suini, equini – erano completamente assenti, il che costituiva evidentemente un grosso limite per le economie precolombiane. Fin dalle prime fasi della colonizzazione dunque, queste specie vennero importate dall’Europa e conobbero una straordinaria diffusione, spesso ritornando anche allo stato selvatico. L’unica specie animale americana che ha una certa diffusione nel Vecchio Mondo è il tacchino.
Quando si parla di specie vegetali e animali del Vecchio Mondo importate nel Nuovo, occorre fare una distinzione fondamentale. In certi casi si tratta di prodotti destinati al consumo locale – cereali, eventualmente uva e olio, carne –, in altri di prodotti di origine vegetale o animale destinati a soddisfare la domanda dei consumatori del Vecchio Mondo. Le condizioni ambientali dell’America tropicale ed equatoriale, quella colonizzata inizialmente dagli Spagnoli e dai Portoghesi, se non sono sempre adatte alla coltivazione e all’allevamento delle specie vegetali e animali originarie dei climi mediterranei o temperati, si rivelano molto favorevoli a specie vegetali per le quali in Europa non esistevano condizioni climatiche propizie ma per i cui derivati vi era una fortissima domanda. Primo fra questi prodotti è la canna da zucchero, seguita nei secoli successivi dal caffè e dal cotone, poi dalla gomma…
La conquista dell’America tropicale da parte della canna da zucchero, soprattutto dopo la metà del secolo, è in fondo al trasferimento, su scala enormemente più vasta, del modello economico e sociale che Spagnoli e Portoghesi hanno sperimentato nelle isole atlantiche più prossime all’Europa. Nei Caraibi e in Brasile il clima è quello giusto ma, com’era accaduto nelle Canarie un secolo prima, il venir meno della potenziale manodopera indigena crea ai colonizzatori serie difficoltà. La soluzione è, ancora una volta la stessa, ovvero l’importazione di schiavi dall’Africa. Si crea così un sistema economico e sociale, la piantagione, che unisce elementi che potremmo dire moderni – la coltivazione su larga scala di prodotti destinati all’esportazione in mercati geograficamente lontani – a istituzioni apparentemente arcaiche, come appunto la schiavitù.
Se l’esportazione di zucchero lega, attraverso l’Atlantico, l’economia coloniale americana a quella europea, la tratta degli schiavi unisce tragicamente l’Atlantico africano dei Portoghesi a quello americano degli Spagnoli. Poiché la fonte di manodopera rientra nella sfera dei Portoghesi, per oltre un secolo sono costoro ad assicurare alle piantagioni americane in rapida espansione il rifornimento di questo essenziale fattore di produzione. Tra il 1519 e il 1600, oltre 250 mila africani vengono deportati nell’America tropicale, e forse altrettanti muoiono durante la cattura o la traversata in condizioni disumane. Ed è solo l’inizio di un dramma che durerà oltre tre secoli.
Il monopolio portoghese sulla tratta degli schiavi spiega, almeno in parte, il primato a lungo detenuto dal Brasile nella produzione di zucchero. Nel 1570 vi sono nella colonia portoghese una sessantina di engenhos da assucar, gli impianti per la macinazione della canna, concentrati nella regione di Bahia e Pernambuco. Nel 1585 il loro numero sale a 130 e nel 1629 ne vengono censiti 346.
Oltre alle piantagioni, l’altro pilastro dell’economia dell’America spagnola sono i metalli preziosi, oro y plata, che alla fine del Seicento rappresentano oltre l’80 percento del valore delle esportazioni verso l’Europa. La ricerca di metalli preziosi era stato uno dei moventi dei viaggi di scoperta – “con l’oro si possono anche mandare le anime in Paradiso”, scriveva Colombo – ma gli inizi erano stati deludenti.
Nelle isole dei Caraibi di metalli preziosi ce n’erano ben pochi. Tra il 1500 e il 1525 giungono comunque in Europa metalli preziosi (soprattutto oro) per un controvalore di 45 tonnellate d’argento, soprattutto grazie al saccheggio delle riserve auree dell’Impero azteco. Nei venticinque anni seguenti, il totale annuo sale a 125 tonnellate, grazie ancora una volta agli stock di metalli accumulati dalle popolazioni americane, ma anche all’avvio dello sfruttamento minerario.
La scoperta dei ricchissimi, anche se remoti, giacimenti d’argento del Cerro de Potosí, nel 1545, segna il punto di svolta. Nella seconda metà del Cinquecento raggiungono l’Europa, lungo i canali ufficiali o di contrabbando, oltre 250 quintali d’argento all’anno.
Questo fiume d’argento ha un impatto enorme sull’economia spagnola, europea e mondiale. Innanzitutto questa periodica iniezione di mezzi di pagamento contribuisce a sostenere il credito sempre vacillante della monarchia spagnola, impegnata quasi ininterrottamente in un dispendiosissimo sforzo bellico su più fronti contro la Francia, contro i ribelli olandesi, contro l’Inghilterra, i Turchi, i Barbareschi. Data l’importanza strategica di questa risorsa, gli Spagnoli dedicano grande attenzione alla sicurezza del trasporto dell’argento dal Perù all’Europa. Dal Perù l’argento raggiunge via mare l’istmo di Panama, che viene attraversato da carovane di muli, per poi raggiungere nuovamente via mare Cuba, da dove partono due volte all’anno imponenti convogli scortati dai galeoni.
L’afflusso di metalli preziosi non contribuisce tuttavia a rivitalizzare l’economia spagnola. L’argento americano infatti defluisce rapidamente dalla penisola e prende la strada del nord Europa, da dove la Spagna importa una quantità crescente di manufatti e di materie prime. In parte poi viene utilizzato per rimborsare i prestiti al sovrano dei banchieri, soprattutto genovesi. Una quota molto rilevante riprende poi il mare, diretta in Asia meridionale e orientale, per finanziare gli acquisti di spezie, seta, cotone e altre merci orientali dato che, al solito, la bilancia commerciale europea con l’Oriente è deficitaria. Stime prudenziali parlano di circa 150 tonnellate annue, il che significa che oltre la metà dell’argento americano prende la via dell’Asia.
Le Americhe dunque, destrutturate dalla conquista ispanica e, in misura minore portoghese, vengono ricostruite su basi demografiche, culturali ed economiche completamente diverse in funzione delle esigenze dell’Europa. A cavallo dell’Atlantico si crea, nel corso del Cinquecento, uno spazio economico le cui componenti – Europa, America tropicale ed equatoriale, costa occidentale dell’Africa –sono sempre più interdipendenti. Le loro rispettive strutture sociali, politiche ed economiche sono sostanzialmente plasmate da relazioni che intercorrono fra loro. Questo significa che dal Cinquecento in poi non è più possibile fare la storia di queste grandi aree o dei singoli stati che le compongono senza tener conto dei vincoli di dipendenza reciproci che li condizionano.
Immanuel Wallerstein e Fernand Braudel hanno definito questo tipo di entità storica come un’economia-mondo. Un’economia-mondo è uno spazio la cui unità non è di natura politica – in questo caso si parlerebbe di impero –, né di natura culturale, come nel caso di una civiltà, ma è definita dalla circolazione di beni e dai rapporti di potere. La complementarietà esistente fra le componenti dell’economia-mondo atlantica che si struttura nel Cinquecento poggia in realtà su profonde asimmetrie fra queste componenti. L’area centrale, nel corso del Cinquecento definita grosso modo dal triangolo Siviglia-Anversa-Genova, detta le condizioni e si riserva il controllo politico ed economico, grazie alla sua superiorità tecnica e organizzativa. Le regioni periferiche sono direttamente – come le Americhe – o indirettamente – come l’Europa orientale e la costa africana – sottoposte al potere degli Stati centrali e la loro economia e società rimodellate per fornire prodotti alimentari come grano, carne, zucchero; materie prime manifatturiere come legname, coloranti, metalli preziosi o meno, a basso costo, anche attraverso il ricorso a manodopera non libera, come appunto gli schiavi africani o i servi della gleba dell’Europa orientale. Tra centro e periferia vi sono aree intermedie, per esempio parte dell’Europa settentrionale o centrale o dell’Italia stessa, che talvolta sono antiche regioni centrali in declino, altre volte aree in ascesa, pronte a lanciar la loro sfida alle potenze egemoni centrali, come fanno appunto l’Inghilterra e l’Olanda nella seconda metà del Cinquecento nei confronti dell’impero degli Asburgo di Spagna.
L’economia-mondo non è l’economia mondiale e occorre distinguere fra la costruzione di uno spazio economico e politico atlantico, strettamente integrato, e una più generale anche se meno definibile tendenza alla moltiplicazione dei contatti economici, ma anche culturali e politici, a livello mondiale, ovvero quella che possiamo definire la tendenza alla mondializzazione della storia. L’intromissione dei Portoghesi e degli Spagnoli nei circuiti commerciali asiatici e il loro sforzo di propagazione del cristianesimo hanno certamente avuto conseguenze importanti per i due regni iberici, per l’Europa nel suo complesso e, in minor misura, per le civiltà e gli imperi asiatici con i quali Portoghesi e Spagnoli sono venuti a contatto. Tuttavia gli effetti non sono paragonabili, neppure lontanamente a quelli che ebbe l’incontro tra l’Europa e l’America. Nel Cinquecento, e in verità ancora nel Seicento, Europa, India ed Estremo Oriente, pur intensificando i loro contatti, non si può dire che costituissero un universo economico integrato, un sistema organico. In altre parole, gli sviluppi economici, sociali e culturali interni a ognuna di questa aree non sono influenzati in misura determinante dalle relazioni che intrattenevano.
Ciò non significa che queste relazioni, che come si è detto si intensificano straordinariamente, non siano importanti. Tra l’altro, alla metà del Cinquecento, gli Spagnoli realizzano, sia pure in modo un po’ diverso, quella che era stato il progetto originario di Colombo, ovvero raggiungere l’Oriente, la Cina e il Giappone, navigando verso Occidente. Nel 1564-1565 Miguel López de Legazpi e Andrés de Urdaneda individuano le rotte di andata e ritorno attraverso il Pacifico centrale fra la costa occidentale del Messico e l’Asia orientale. A questo punto le vie d’accesso alla Cina e alle sue ricchezze sono due, quella portoghese, dall’oceano Indiano attraverso lo stretto di Malacca, e quella spagnola, attraverso il Messico, l’oceano Pacifico e le Filippine.
Attraverso Manila, il loro insediamento nelle Filippine, gli Spagnoli contribuiscono direttamente a saziare la “fame d’argento” dell’Impero Ming, scambiando argento americano con prodotti cinesi come la seta e la porcellana. Ma i cosiddetti “galeoni di Acapulco”, dal nome del porto messicano di partenza, che assicurano i collegamenti con l’Asia, vi introducono anche specie vegetali americane – patata dolce, mais, arachidi – che avranno notevole diffusione in Oriente, contribuendo dunque a dare allo “scambio colombiano” – o, in questo caso “magellanico” – una dimensione veramente planetaria.