Gli imperialismi asiatici
Il termine imperialismo è stato usato in modo specifico per indicare una fase della storia contemporanea, in particolare gli ultimi decenni del 19° sec. e i primi del 20°, durante la quale le principali potenze tesero ad allargare i loro possedimenti e a estendere la loro influenza al di fuori dei confini storici, talvolta anche solo in termini prevalentemente economici, e molto frequentemente su territori coloniali situati in altri continenti. In certi casi, collegati con il sorgere degli Stati nazionali, ciò ha assunto anche un aspetto antropologico, prendendo l’aspetto di dominio esercitato da parte di certi gruppi linguistici o culturali sopra altre popolazioni. Spesso ciò determinò anche crisi internazionali per la tendenza degli Stati interessati a scontrarsi fra loro e a tutelare con la forza i loro interessi. In vari casi questo tipo di espansionismo si è realizzato ricalcando la traccia di formazioni imperiali esistite nella storia più antica, alle quali ci si è richiamati talvolta come a precedenti che lo legittimavano ideologicamente. D’altra parte i fattori geografici, che favorirono la creazione di grandi imperi nel periodo premoderno, hanno continuato a valere, almeno in qualche misura, come premessa di carattere geopolitico, anche nell’Ottocento e nel Novecento, suggerendo in molti casi una premessa «oggettiva» per certi momenti di storia recente. Le vicende dell’Estremo Oriente e dell’Asia sudorientale offrono numerosi esempi e spiragli attraverso i quali le diverse dinamiche che abbiamo accennato si sono materializzate, a partire dai processi di modernizzazione, messi in moto dall’adozione di modelli europei nella trasformazione degli Stati asiatici, o anche dal coinvolgimento dei Paesi di queste aree nella politica di potenza dell’imperialismo europeo. Sia il Giappone, dopo la restaurazione Meiji del 1868, sia la Cina, attraverso un percorso molto più accidentato e discontinuo, presero parte a questo sviluppo. Anche dopo la Seconda guerra mondiale, però, si assistette a dispute fra Paesi di nuova indipendenza; a proposito di tali Paesi si è parlato di imperialismo nonostante quelle pretese fossero da loro motivate dalla conformazione di antichi Stati regionali. In questo caso l’uso del termine ha assunto qualche volta un colorito polemico ed è finito per rientrare in valutazioni di parte sugli sviluppi della politica internazionale. Si possono fare in proposito vari esempi. Verso la metà dell’Ottocento l’impero cinese subì l’urto dell’imperialismo europeo e venne spogliato di una parte della sovranità sul suo territorio, mentre si frantumò nei decenni successivi il cd. sistema sinocentrico attraverso il quale esso esercitava una blanda forma di controllo, simboleggiata dal rituale del tributo, su diversi Paesi disposti lungo il suo confine meridionale oppure su popolazioni dell’Asia settentrionale o centrale. Giova anche ricordare che la monarchia cinese sotto la dinastia Qing aveva un carattere multinazionale, per il quale il Figlio del cielo si trovava in una posizione equidistante rispetto alle popolazioni soggette; questo era espresso simbolicamente in una serie di occasioni e sottolineato dal fatto che lingue ufficiali dello Stato, accanto al cinese, erano il mancese e il mongolo. Il processo di reazione all’espansione europea portò più tardi la tendenza al recupero dei territori perduti e alla nascita di una repubblica fondata sul principio del «nazionalismo» di Sun Zhongshan, fondamentalmente recepito nella Costituzione del 1912. In questo modo fra l’etnia Han, propriamente cinese, e le altre nasceva nel 20° sec. una diversità di posizione, spingendo alcuni a parlare di «imperialismo Han», oppure a mettere in evidenza una specie di contraddizione fra l’aspirazione della Repubblica cinese a recuperare l’estensione territoriale dell’impero Qing e le tendenze autonomistiche, che in certi casi sono affiorate nelle minoranze.
Dal punto di vista geopolitico è interessante, fra gli altri, il caso dell’Indocina e del Vietnam. In epoca premoderna il controllo cinese su questa regione, confinante con lo Yunnan, dove c’era il regno indipendente di Dian, fu stabilito nel 3° sec. a.C., perfezionandosi nel 111 a.C. quando la dinastiaHan annesse il regno di Nanyue e concluse la sottomissione degli Stati esistenti nel Fujian e nel Guangdong. Dopo la fine dei Tang nel 907 d.C., i vietnamiti si resero indipendenti e resistettero nel 13° sec. alle invasioni dei mongoli. I Ming ristabilirono la dominazione cinese, ma nel 1428 dovettero ritirarsi e il regno divenne tributario del Celeste impero. Nel 19° sec. il tributo fu inviato l’ultima volta nel 1853, ma, soggetto alla pressione della Francia, l’imperatore Tu-Duc della dinastia Nguyen (1802-1945) lo riportò in vita finendo per provocare la guerra tra la Francia e la Cina nel 1883, dovuta anche al desiderio di una parte dell’élite dirigente cinese di riaffermare il prestigio imperiale, con la conseguenza che i Qing persero definitivamente il vassallaggio. Alla fine della Seconda guerra mondiale gli eserciti di Jiang Jieshi occuparono il Nord del Paese nel 1945 e più tardi, anche per solidarietà ideologica, la Repubblica popolare cinese appoggiò la lotta anticoloniale del Vietminh, ma nel 1954, alla Conferenza di Ginevra sull’Indocina, Zhou Enlai favorì la divisione del Paese lungo il 17° parallelo, contro le aspirazioni dei comunisti vietnamiti e allo scopo di consolidare la posizione internazionale della RPC. Il conflitto sino-sovietico e la normalizzazione dei rapporti fra Mao e gli Stati Uniti (fra il 1972 e il 1978) portarono il governo di Hanoi ad avvicinarsi all’Unione Sovietica, spingendo la Cina all’infelice campagna militare lanciata contro il Vietnam nel 1979.
Nel caso del Giappone, in epoca premoderna esso svolse una politica espansionistica fuori delle quattro isole principali soltanto verso la Corea, nel periodo Yamato (sec. 4°-7° d.C.), e alla fine del 16° sec., quando Hideyoshi Toyotomi invase il regno vicino, con l’aspirazione, che però va ricondotta alla biografia del personaggio, di conquistare la Cina stessa. In ambedue i casi le cause sono molteplici. Nel primo esistevano più antichi rapporti fra i clan dell’arcipelago e quelli del vicino Paese, i quali spinsero il Sol Levante a inserirsi nelle rivalità tra i regni coreani e fra questi e la Cina. Nel secondo è verosimile che, oltre a ragioni interne, Hideyoshi fosse spinto dall’idea di frenare l’espansionismo degli imperi iberici, che avevano fatto arretrare l’attività dei mercanti-pirati giapponesi dalle acque del Mar Cinese meridionale, dove per circa un secolo avevano agito, spesso con il sostegno dei signori feudali del Sol Levante, e con beneficio per l’economia dell’arcipelago.
La tendenza a costruire un impero di tipo moderno si riaffacciò dopo la «restaurazione» del 1868. Essa prese inizialmente la direzione della Corea, definitivamente sottratta al vassallaggio verso la Cina con la guerra del 1894-95, e verso il Mar Cinese, dove il Giappone si appropriò di Taiwan e delle Pescadores nella stessa occasione. In seguito, mentre gradualmente ottenne alcune concessioni in Cina, con la guerra russo-giapponese conseguì il possesso del Liaodong e di una serie di privilegi in Manciuria, fra i quali la base militare di Port Arthur. Intanto costruì un protettorato sulla Corea, che annetté nel 1910, e si fece riconoscere una serie di interessi speciali sul continente attraverso trattati segreti con potenze europee fra il 1907 e il 1912. Le motivazioni di questo imperialismo hanno dato origine a una articolata polemica storiografica, nel corso della quale due impostazioni fondamentali si sono affacciate, sia pure con posizioni intermedie. Una ha insistito su una specie di vocazione imperiale, mossa da ragioni economiche e demografiche, che avrebbe trovato la sua premessa nell’idea della superiorità del popolo nipponico, fondata sul mito shinto della sua divina discendenza e nell’ideologia del cd. «panasiatismo». L’altra ha concentrato l’attenzione sul peso delle motivazioni strategiche. Il controllo sulla Corea avrebbe dovuto garantire che in questo territorio così vicino non si insediassero altre potenze, mentre l’interesse per la Manciuria ne sarebbe stato lo sviluppo logico e quello verso la Mongolia l’ulteriore estensione. In sostanza l’interesse del Giappone avrebbe avuto una complessa base, economica, culturale e politica, per quanto riguardava il corpo della Cina, ma un fondamento essenzialmente militare nelle regioni sulle quali si manifestava con maggior intensità, come la Corea, la Manciuria e la Mongolia interna. Tale schema restò sostanzialmente lo stesso fino alla fine degli anni Trenta, con poche varianti. La penetrazione in Cina, con le sue sfumature economiche, si accentuò durante la Prima guerra mondiale, mentre durante gli anni Venti l’accettazione delle regole dei «sistemi» di Versailles, e della Società delle Nazioni, e di Washington assicurarono all’impero i possedimenti tedeschi nel Pacifico, sotto forma di mandato, ma ne frenarono l’espansione sul continente. Negli anni Trenta, l’avvento graduale del militarismo, la rinascita della competizione strategica con l’URSS e una serie di ragioni economiche accompagnate alla rinascita del panasiatismo, diffuso nella classe militare, suscitarono la rinascita dell’espansionismo verso la Cina, che culminò nella guerra sino-giapponese nel 1937. In parallelo un’ala del nazionalismo giapponese, forte di sostenitori nella marina imperiale, propugnò l’espansione verso i mari del Sud ed entrambe le tendenze si combinarono nel portare alla guerra contro gli Stati Uniti nel 1941. Durante la guerra mondiale l’ideologia panasiatista si proiettò nella dottrina della «grande Asia orientale» e si manifestò nella conferenza dei Paesi asiatici «liberati» che si è tenuta nel 1943, proponendo un’alternativa ideologica alla Carta atlantica.
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