Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
La letteratura di guerra, nello specifico quella che tratta dei due grandi conflitti mondiali del Novecento, da una parte esalta l’eroismo e il sacrificio per la patria, dall’altra, più spesso, denuncia la disumanità, l’assurdità e l’orrore dei campi di battaglia. Mentre la prima guerra mondiale lascia, come la definisce Edith Stein, una “generazione perduta” e un senso generale di fallimento, l’indomani della seconda, anche in seguito alla lotta partigiana, è caratterizzato dal desiderio di rinascita e di ricostruzione, come emerge in molte delle opere ispirate da quest’ultimo conflitto.
Renato Serra
Esame di coscienza di un letterato
Crediamo pure, per un momento, che gli oppressi saranno vendicati e gli oppressori saranno abbassati; l’esito finale sarà tutta la giustizia e tutto il maggior bene possibile su questa terra. Ma non c’è bene che paghi la lagrima pianta invano, il lamento del ferito che è rimasto solo, il dolore del tormentato di cui nessuno ha avuto notizia, il sangue e lo strazio umano che non ha servito a niente. Il bene degli altri, di quelli che restano, non compensa il male, abbandonato senza rimedio nell’eternità. E poi, di qual bene si tratta? Anche gli esuli che aspettano come il compimento della profezia e l’avvento del cielo sulla terra, sanno che il sogno è vano. Forse il beneficio della guerra, come di tutte le cose, è in se stessa: un sacrificio che si fa, un dovere che si adempie. Si impara a soffrire, a resistere, a contentarsi di poco, a vivere più degnamente, con più seria fraternità, con più religiosa semplicità, individui e nazioni: finché non disimparino... Ma del resto è una perdita cieca, un dolore, uno sperpero, una distruzione enorme e inutile.
R. Serra, Esame di coscienza di un letterato, Palermo, Sellerio, 1994
Senza dubbio la prima guerra mondiale presenta caratteristiche particolari che ne marcano la specificità distinguendola in modo netto da tutti i precedenti e i successivi conflitti bellici. Buona parte di un’intera generazione viene falcidiata nei campi di battaglia dove per la prima volta sono sperimentate nuove devastanti armi e tecniche come, per esempio, i lanciafiamme, i gas chimici, i carri armati e i bombardamenti aerei; quelli che riescono a sopravvivere rimangono comunque segnati da danni fisici e psicologici permanenti, tra cui la cosiddetta shell shock syndrome (il trauma dovuto ai bombardamenti e allo scoppio delle granate) che impedisce loro il ritorno a una vita normale. La diffusione della mitragliatrice con cui anche un solo uomo può fermare un’intera brigata porta da una parte alla guerra d’attacco – retaggio delle teorie strategiche Ottocentesche di Carl von Clausewitz, riprese dal comandante francese Ferdinand Foch –, espressione dell’élan vital, lo spirito vitale, e consistente in interi battaglioni mandati allo sbaraglio nel tentativo di vincere il nemico con la sola forza del numero, producendo di fatto inutili carneficine, dall’altra dà vita alla logorante guerra di trincea, basata non tanto sulla conquista territoriale quanto sull’esaurimento delle risorse nemiche. A queste inedite condizioni di battaglia, che lasciano un segno indelebile a chi ne fa esperienza, si affiancano la nascita e il consolidamento della cosiddetta opinione pubblica e della conseguente propaganda necessaria a ogni stato per sostenere la guerra, fenomeni nuovi che caratterizzano poi tutto il secolo. Strettamente connesse alla prima guerra mondiale sono anche la rivoluzione bolscevica del 1917 in Russia e la grande pandemia di influenza che, portata dall’esercito americano, si propaga nell’Europa stremata dal conflitto mietendo, si stima, più di 20 milioni di morti.
La prima guerra mondiale viene salutata dalla maggior parte degli intellettuali italiani con toni entusiastici: essa, guidata dalla cultura, avrebbe temprato una nuova umanità, spazzato via il vecchio mondo e aperto le porte alla modernità. Nei versi poetici dei Canti della guerra latina, 1914-1918 (inclusi poi nelle Laudi nel 1934), Gabriele d’Annunzio esalta il disegno imperialista italiano e la sua potenza bellica. Nella prosa del Notturno (1921), scritto totalmente al buio dopo il ferimento di un occhio in guerra, appaiono, tra notazioni secche e suggestive, angoscianti visioni di morte (tra cui quella del compagno Giuseppe Miraglia, caduto in battaglia): alle eteree allucinazioni e agli interrogativi esistenziali dello scrittore sembra però affiancarsi, nella frantumazione elementare del linguaggio, una visione della guerra come ineluttabile “idealità del mondo” a cui l’umanità è destinata. Il futurismo, nel Manifesto (1909) redatto da Filippo Tommaso Marinetti, inneggia all’aggressività, alla violenza e alla guerra, celebrandone la funzione rinnovatrice e rigeneratrice: “Noi vogliamo glorificare la guerra – sola igiene del mondo – il militarismo, il patriottismo, il gesto distruttore dei liberatori, le belle idee per cui si muore e il disprezzo della donna”. Diversamente dai futuristi italiani, un altro futurista, il russo Vladimir Majakovskij, benché in un primo momento sostenitore della guerra, si converte ben presto all’antimilitarismo. Esemplari dell’atteggiamento del poeta sono i poemi A voi (Vam), letto nel 1915 al famoso cabaret “Il cane randagio” di San Pietroburgo e La guerra è dichiarata, del 1914 (“[…] Dal cielo lacerato contro gli aculei delle baionette / gocciolavano lacrime di stelle come farina in uno staccio / e la pietà, schiacciata dalle suole, strillava: / ‘Ah, lasciatemi, lasciatemi, lasciatemi!’”).
Del resto l’andamento del conflitto e l’esperienza diretta al fronte, rivelando l’estrema disumanità della guerra, capovolgono velocemente le aspettative e obbligano gli scrittori a un confronto con se stessi e con la condizione esistenziale dell’uomo. Il cesenate Renato Serra nell’ Esame di coscienza di un letterato (1915) rifiuta l’idea di guerra come rinnovamento, piuttosto vede nella partecipazione al conflitto bellico, secondo una prospettiva culturale ed esistenziale, un’occasione per riappropriarsi di un’autentica dimensione umana, una possibilità per gli intellettuali di uscire dalla loro posizione elitaria e trovare un contatto solidale con gli altri: “non c’è tempo per ricordare il passato o per pensare molto, – scrive – quando si è stretti gomito a gomito, e c’è tante cose da fare; anzi una sola, fra tutti. Andare insieme”. Dopo i primi combattimenti, come emerge dalle esigue pagine del suo Diario di trincea, lo scrittore, partito volontario nel 1915 e caduto in battaglia nel luglio dello stesso anno, si rende subito conto dell’atrocità della guerra e dello spaesamento di chi vi partecipa. Anche il giovane Carlo Emilio Gadda, ufficiale volontario degli alpini, vede nella guerra un’esperienza essenziale in grado di spezzare la solitudine dell’uomo e di riavvicinarlo ai grandi valori collettivi. Il patriottismo privo di retorica di Gadda, quale emerge da Giornale di guerra e di prigionia (diari scritti dal 1915 al 1919 e pubblicati nel 1950), ha le sue radici nei valori ideali di responsabilità e impegno che però si scontrano con la stupidità e l’inefficienza della macchina bellica. Appare la grande distanza tra le alte aspirazioni dello scrittore combattente e le situazioni concrete, i fatti quotidiani di guerra che egli osserva e analizza. Con un linguaggio aspro e secco Gadda tratteggia tutta la rabbia scaturita dalla squallida vita di trincea, dal contatto continuo con gli errori e la miseria dei soldati: la guerra rivela la contraddizione tra i valori individuali e quelli sociali che però lo scrittore, nel suo rigore, accetta. Un altro ufficiale volontario degli alpini, Piero Jahier, redattore anche di giornali di trincea, tra i quali “L’astico”, esalta invece lo spirito collettivo e l’autenticità del popolo in guerra. Il suo libro di memorie Con me e con gli Alpini (1919) è una sorta di celebrazione dello spirito di sacrificio e dell’umanità autentica del proletariato in armi; la ricerca di un contatto con la realtà piccolo-borghese e contadina rivela l’“ideologia alpina” di Jahier, basata sulla concretezza della vita e la spontaneità dei sentimenti degli alpini. Un anno sull’altipiano (1920) di Emilio Lussu, volontario come ufficiale di complemento, vuole essere nelle intenzioni dell’autore una testimonianza disinteressata e un realistico racconto autobiografico; mentre il soggetto di Jahier è la collettività del popolo in battaglia, l’opera di Lussu si rivela una schietta demistificazione della guerra e una lucida analisi dell’incompetenza e del cinismo dei quadri di comando. Gli ideali patriottici risorgimentali si infrangono di fronte alla cruda realtà bellica, dove le gerarchie sociali si riproducono identiche in quelle militari e a pagare il prezzo di tutto sono, alla fine, i contadini analfabeti, arruolati di forza e completamente estranei ai grandi miti interventisti. Nel corso delle battaglie di trincea e degli inutili assalti alle postazioni nemiche, Lussu vede a poco a poco morire tutti i suoi amici e compagni: gli ufficiali superiori, impreparati tatticamente e strategicamente, sembrano impegnati in rivalità interne piuttosto che concentrati sul conflitto da vincere col minor numero di perdite, mentre ordini assurdi e insensati sono causati da inefficienza e irresponsabilità che talvolta si confondono e sembrano indistinguibili dagli istinti sadici sfogati sulle truppe mandate allo sbaraglio.
Di grande valore umano e poetico sono i versi che Giuseppe Ungaretti compone durante la militanza come soldato semplice sul Carso; apparsi dapprima nel libretto Il porto sepolto, stampato a Udine nel 1916, sono in seguito inclusi in una delle cinque parti della raccolta L’allegria (1919). La guerra è ineluttabile e assoluta: nello scenario di estrema violenza e morte, dove la natura sembra indifferente al dolore, l’uomo si ritrova nudo nella sua fragilità, di fronte al proprio azzeramento, fino quasi a diventare oggetto tra gli oggetti (come questa pietra / del S. Michele / così fredda / così dura [...] è il mio pianto / che non si vede). Ma, proprio nella desolazione, egli riafferma paradossalmente e tragicamente la sua appartenenza al genere umano (Di che reggimento siete / fratelli [...] Nell’aria spasimante / involontaria rivolta / dell’uomo presente alla sua / fragilità / fratelli) e il valore della vita (Un’intera nottata / buttato vicino / a un compagno / massacrato [...] ho scritto / lettere piene d’amore / Non sono mai stato / tanto / attaccato alla vita). Di fronte alla tragedia della guerra solo con un linguaggio nuovo, concentrato e frantumato, la poesia può diventare scavo alla ricerca di un “nulla / d’inesauribile segreto”, un’illusione per farsi coraggio: l’uomo riafferma così, nella consapevolezza della sua condizione di naufrago (il titolo originario era infatti Allegria di naufraghi), la dignità tragica e la ragion d’esistere che gli sono proprie.
Per quanto riguarda la prosa, romanzo di grande successo è Niente di nuovo sul fronte occidentale (1929), del tedesco Erich Maria Remarque, che partecipa agli scontri contro i Francesi durante il conflitto. La guerra è vista in prima persona, con uno stile tra il diaristico e il giornalistico, attraverso gli occhi del protagonista Paolo Bäumer che, ancora studente, spinto dalla retorica del suo professore, si ritrova volontario a combattere nelle Fiandre. Obiettivo primario della vita al fronte non è tanto vincere, ma sopravvivere tra le infinite torture della trincea: la mancanza di sonno e di cibo, i pidocchi, i proiettili, il gas velenoso, i continui bombardamenti, la pazzia, i cinici ordini dei superiori, l’attesa passiva della morte. Paolo vede morire a uno a uno i suoi compagni, è costretto a uccidere un nemico per non essere ucciso, realizza, durante una visita ai familiari, la reciproca estraneità verso coloro che non hanno sperimentato le stesse esperienze traumatiche al fronte, infine “[cade] nell’ottobre 1918, in una giornata così calma e silenziosa su tutto il fronte che il bollettino del Comando Supremo si limitava a queste parole: Niente di nuovo sul fronte occidentale”. Quella di Paolo è l’esperienza emblematica di un’intera generazione ormai incapace di reinserirsi nel tessuto della società civile, una “generazione la quale” – anche se è sfuggita alle granate – “venne distrutta dalla guerra”: “Io sono giovane, ho vent’anni: ma della vita” – dice dopo un anno di guerra il protagonista – “non conosco altro che la disperazione, la morte, il terrore, e l’insensata superficialità congiunta con un abisso di sofferenze. Per anni e anni la nostra occupazione è stata di uccidere, è stata la nostra prima professione nella vita. Il nostro sapere della vita si limita alla morte. Che accadrà dopo? Che sarà di noi?”. Sempre in ambito tedesco ricordiamo anche la tragedia Hinkemann il mutilato (Hinkemann, 1923) di Ernst Toller, partito in guerra come volontario e poi convertitosi al pacifismo; il ciclo di romanzi di ArnoldZweig La Grande Guerra degli uomini bianchi (Der große Krieg der weißen Männer) – tra cui il caposaldo La questione del Sergente Grischa, 1927, dura rappresentazione della spietata burocrazia militare – e le asciutte cronache di Ludwig Renn, La guerra (Krieg, 1928) e Il dopoguerra (Nachkrieg, 1930).
Di stampo diverso la rappresentazione che del conflitto bellico dà un altro tedesco, Ernest Jünger. Nel romanzo Nelle tempeste d’acciaio (In Stahigewittern, 1920) la battaglia è elogiata come alta esperienza interiore e la guerra celebrata come rivolta dell’istinto contro le ristrettezze dell’ipocrisia borghese. Tuttavia “ciò che riscatta Junger” – sono parole del critico e scrittore Claudio Magris – “dallo stereotipato culto bellico è la cristallina precisione stilistica con la quale egli ritrae il caos della battaglia, il coraggio e la violenza, i gesti di chi riceve o dà la morte, che la sua penna fissa nell’eternità del loro istante assoluto”.
Al contrario di Jünger il francese Henri Barbusse, nel suo Il fuoco (Le feu, 1916), dà una violenta e incisiva rappresentazione della vita di trincea. Per gli uomini radunati da tutto il Paese la guerra consiste solo nel riuscire a non morire, mentre oasi di sollievo sono di tanto in tanto l’arrivo delle razioni, l’apparire di qualche bella ragazza e le brevi convalescenze all’ospedale militare. Come nel romanzo di Remarque, Barbusse rievoca la vita quotidiana dei soldati che, mentre attendono tra gli stenti e il fango l’improbabile fine del conflitto, trovano invece la morte; nel contesto francese si ricordi poi il Viaggio al termine della notte (Voyage au bout de la Nuit, 1932) di Louis-Ferdinand Céline, dove l’autore, nella spietata rappresentazione della società borghese di inizio Novecento, dà anche un crudo ritratto della disumana e sordida realtà della prima guerra mondiale vissuta in prima persona dal protagonista Bardamu.
L’irrazionalità della guerra, “tragedia dell’umanità”, è l’argomento di fondo del collage di documenti e dialoghi sulla guerra Gli ultimi giorni dell’umanità (Die letzten Tage der Manschheit, 1918-1919) dell’austriaco Karl Kraus, mentre le annotazioni sarcastiche di Tempo di miseria (Kleine Zeit, 1919) del connazionale Alfred Polgar sono rivolte al degrado morale delle retrovie. Di tutt’altro tono Le avventure del buon soldato Sc’vèik durante la guerra mondiale (Osudy dobrého vojáka Švejka za svetové války, 1920-1923), grande e divertente satira antimilitarista del boemo Jaroslav Hašek. Il soldato semplice austriaco Sc’vèik, buffo omino catapultato nell’assurdità della Grande Guerra, è l’uomo qualunque che, con disperazione ma anche con disinvoltura, tenta di sopravvivere alla violenza e all’assurdità del conflitto. Personaggio carnevalesco, popolare, primitivo, persino stupido, egli diventa però simbolo per così dire triste: il narratore ironico e pungente in terza persona, deformando comicamente la realtà, racconta di un’umanità senza più valori, solamente in cerca della propria salvezza quotidiana. L’apparente indolenza del protagonista si staglia sulle sofferenze che l’uomo patisce per colpa della propria ottusa meschinità, mentre la critica, ancora una volta, investe la borghesia benestante e ipocritamente benpensante di inizio secolo.
In ambito anglosassone si ricordi almeno il romanzo di Ernest Hemingway Addio alle armi (A farewell to arms, 1929) – storia di un soldato americano che, di stanza sul fronte italiano, si innamora di una crocerossina e diserta – dove il tema principale è la guerra che sconvolge e spesso interrompe la vita degli uomini; La fine della parata (Parade’s End, 1924-1928) di Ford Madox Ford (1873-1939), in cui, attraverso le vicende del protagonista Christopher Tietjens, è narrato il passaggio dalla tranquilla e ordinata Inghilterra edwardiana al caos della guerra; il famoso romanzo The Death of a Hero (Morte di un eroe, 1929) di Richard Aldington, grande rappresentazione del conflitto mondiale e satira della società contemporanea; infine, i cosiddetti “War Poets” (poeti di guerra) che, dopo la loro traumatica esperienza di combattenti, denunciano l’orrore e la bestialità della guerra: Wilfred Owen, Poesie (Poems, 1920); Siegfried Sassoon, poeta e autore della trilogia Le memorie di George Sherston (The complete memoirs of George Sherston, 1937), e Rupert Brooke, 1914 ed altre poesie (1914 and other poems, 1915).
Citiamo poi Il bosco degli impiccati (1922) in cui Liviu Rebreanu racconta, coniugando tensione sociale e indagine psicologica, il dramma di un ufficiale rumeno dell’esercito austro-ungarico costretto a combattere contro i propri connazionali, la testimonianza personale di Camil Petrescu – Ultima notte d’amore, prima notte di guerra (1930) – e il romanzo Scende la tenebra (1927) di Cezar Petrescu. Infine la Resistenza del popolo belga all’invasione tedesca è narrata da Émile Verhaerenne Il Belgio sanguinante (La Belgique sanglante, 1915), Le ali rosse della guerra (Les ailes rouges de la guerre, 1916) e Le fiamme alte (Les flammes hautes, 1917).
Anche le opere nate dall’esperienza del secondo conflitto mondiale (1939-1945) trattano molti dei temi presenti nella letteratura ispirata dalla Grande Guerra: la sofferenza, i disagi del fronte, la violenza disumana, la costante e incombente presenza della morte e, di contro, l’amore per la vita e il sentirsi parte della grande collettività del genere umano. Tuttavia mentre la prima guerra mondiale lascia, come la definisce Edith Stein, una generazione “perduta”, marchiata da un senso di fallimento e di incolmabile vuoto, l’indomani della seconda guerra mondiale, al contrario, è caratterizzato dal desiderio di rinascita e di ricostruzione. Come scrive Italo Calvino nella prefazione del 1964 al suo romanzo Il sentiero dei nidi di ragno (1946): “Chi aveva fatto il partigiano non si sentiva schiacciato, vinto, bruciato, ma ci sentivamo vincitori, spinti dalla carica propulsiva della battaglia appena conclusa, depositari di una sua eredità”.
In questo contesto si sviluppa in Italia il cosiddetto neorealismo: letteratura come impegno, cronaca diretta degli avvenimenti tanto più eloquenti quanto meno mediati dalla forma letteraria (ancora Calvino: “L’essere usciti da un’esperienza” – guerra, guerra civile – “che non aveva risparmiato nessuno, stabiliva un’immediatezza di comunicazione tra lo scrittore e il suo pubblico”); temi ricorrenti sono appunto la guerra, la lotta partigiana, la realtà del dopoguerra, gli scontri sociali, rappresentati con uno stile quanto più possibile vicino al parlato, spesso in romanzi di tipo diaristico. Rigorosamente entro i canoni neorealisti è, ad esempio, il romanzo di Renata Viganò, L’Agnese va a morire (1949), dove la rappresentazione della lotta partigiana assume i caratteri di una celebrazione elementare e schematica. Dopo la deportazione e la morte del marito, la protagonista Agnese uccide un tedesco e si unisce a una banda di partigiani che si oppongono ai “cattivi” tedeschi. L’unica motivazione per combattere è perché “è giusto così”, i partigiani sono i buoni che devono annientare l’invasore per non esserne annientati. Dopo la sconfitta del gruppo di partigiani di cui Agnese fa parte, la protagonista sarà uccisa durante un rastrellamento tedesco. Il citato Sentiero dei nidi di ragno di Calvino racconta le vicende di Pin, ragazzino cresciuto nei carrugi di una città della riviera ligure, che, dopo aver rubato la pistola a un tedesco, la nasconde in un luogo segreto chiamato fantasticamente “il sentiero dei nidi di ragno”; catturato, riesce a fuggire e, dopo una serie di avventure, si unisce a una banda di partigiani sbandati. In realtà gli episodi di guerra partigiana sono abbastanza marginali e lo sguardo del ragazzo, differente da quello degli adulti, apre gli eventi bellici a una dimensione avventurosa vicina al meraviglioso. L’abbassamento della Resistenza a una prospettiva mitico-fiabesca e la rappresentazione di un gruppo di partigiani politicamente inconsapevoli evitano, almeno in parte, la caduta in un facile populismo e in una altrettanto facile retorica, tuttavia presenti, per esempio, nel discorso del commissario Kim sulle ragioni della lotta armata, caratterizzato da un’estrema e ingenua fiducia nel proprio ruolo “predestinato” dalla storia.
Nel 1945 Elio Vittorini pubblica Uomini e no che, come dirà poi l’editore Valentino Bompiani, è “il primo commento di uno scrittore” dopo la liberazione. La celebrazione della Resistenza convive nel libro con un senso di incertezza sulla vita, sul presente e sull’avvenire: il protagonista Enne 2, partigiano a Milano e innamorato di una donna sposata, Berta, è una figura tormentata che cerca risposte sull’uomo, sulla sua umanità e non umanità, “sull’essere uomini e al tempo stesso no”. Il realismo sociale, psicologico e descrittivo della lotta tra fascisti e antifascisti è continuamente minato da una trasfigurazione della realtà secondo simboli e metafore: alla dimensione storica se ne affianca una esistenziale, di interrogazione sull’amore, la morte e il male. Benché le tematiche e certi modi stilistici leghino la produzione di Beppe Fenoglio al neorealismo, egli tuttavia se ne discosta per l’elaborazione che fa di tale materiale. Nei 12 racconti dei Ventitré giorni della città di Alba (1952) l’autore evita il tono celebrativo e retorico per dare della Resistenza una rappresentazione il più possibile vera in tutti i suoi aspetti, cosicché spesso la narrazione sfocia nel “picaresco” e nell’avventuroso. Ne Il partigiano Johnny (1968), l’influenza delle dirette esperienze autobiografiche di Fenoglio smitizza la Resistenza ma al tempo stesso la traspone su un piano assoluto, esperienza totale del mondo, quasi realtà “altra” che alla vita si sostituisce: “partigiano, come poeta, è parola assoluta”, è detto a un certo punto. La guerra delle formazioni partigiane da evento storico assume le connotazioni di evento esistenziale, rappresentazione dell’uomo che si confronta con la morte, la violenza e l’amore. Johnny partecipa alle azioni di una guerra che appare, tra gli eventi incalzanti, sempre più assurda, come assurde e prive di significato si rivelano le cose intorno, impregnate di insensatezza; emerge per Johnny l’impossibilità di un’interpretazione di quanto sta avvenendo e la mancanza di speranza per un qualche futuro. Sembrerebbe rimanere solo una testarda aspettazione della morte, quella del protagonista e dei suoi compagni, nel vuoto dell’esistere.
Per la memorialistica, tra le tante testimonianze, di grande valore è Il sergente nella neve (1953), diario di guerra del veneto Mario Rigoni Stern, che racconta la sua esperienza nel contingente italiano, formato perlopiù da alpini, durante la spedizione italiana in Russia. È una cronaca essenziale e asciutta senza tentativi di enfatizzare o manipolare gli eventi (forse questa è la ragione del grande successo del libro in Italia) da cui emerge, accanto all’assurdità della guerra, il tema della comune appartenenza dei soldati, non importa di quale esercito facciano parte, al genere umano: significativo, ad esempio, l’episodio in cui Rigoni entra in un’isba (una casa russa di campagna) e qui condivide il pasto con altri soldati russi, come lui fiaccati dalla fame e dal freddo. La raccolta di racconti Il dolore (La douleur, 1985) della francese Marguerite Duras è basata su un diario scritto nel 1945, che l’autrice pubblica a distanza di quarant’anni, dopo averlo ritrovato nella sua casa di campagna, affermando di non ricordarsi d’averlo mai scritto. Come Duras stessa sottolinea, alcuni dei pezzi contenuti nel libro sono letteratura, altri inventati, altri ancora veri fin nei più minimi particolari; tutti hanno alle spalle l’esperienza dell’autrice nella Resistenza francese tra il 1944 e il 1945, mentre attende il ritorno del marito deportato. “Se l’orrore nazista” – scrive – “viene considerato un destino tedesco, non un destino collettivo, l’uomo di [Bergen n.d.a. ] Belsen sarà ridotto a vittima di un conflitto locale. Una sola risposta per un tale crimine: trasformarlo nel crimine di tutti. Condividerlo. Come si condivide l’idea di eguaglianza, di fraternità. Per sopportarlo per tollerarne l’idea, condividere il crimine”. E in effetti questo tema percorre un po’ tutto il libro, in una visione dove, al di là delle apparenze e delle divisioni fra vittime e carnefici, la compresenza di male e bene, in diverse modalità e gradi, impedisce le facili distinzioni e l’accettazione di un senso univoco di persone e vicende. Notevole anche il diario di guerra Il quaderno nero (Le cahier noir, 1943), in cui lo scrittore francese François Mauriac, sotto lo pseudonimo di Forez, si scaglia violentemente contro l’occupazione tedesca.
Ricordiamo, dalla prospettiva dei soldati tedeschi, Alfred Andersch, uno dei fondatori del Gruppo 47, che nel romanzo autobiografico Le ciliegie della libertà (Die Kirschen der Freiheit, 1952) narra le sue esperienze di guerra sul fronte italiano e presenta la sua scelta di disertare, passando dalla Wermacht (l’esercito tedesco) all’esercito americano, come difesa e recupero della propria libertà morale. Lo stesso tema sarà ripreso nel 1974 con il romanzo Winterspelt, celebrazione dell’immaginario tradimento di un ufficiale tedesco grazie al quale, nel 1944, viene risolta l’offensiva tedesca delle Ardenne. Le conseguenze della guerra sulla popolazione, in questo caso quella inglese durante i bombardamenti tedeschi su Londra nel 1940-1941, sono invece rappresentate con efficacia nel romanzo Il demone d’amore e altre storie (The Demon Lover and Other Stories, 1945) dell’inglese Elizabeth Bowen. Il libro ha grande successo ed è celebrato dal “New Yorker” come “una completa e convincente spiegazione di cosa la guerra fece alla mente e allo spirito del popolo inglese”. Nel racconto che dà il titolo alla raccolta, Il demone d’amore, ad esempio, la protagonista Mrs Dover, confondendo la prima guerra mondiale con la seconda, pensa così incessantemente al suo amato, ormai morto da lungo tempo, che il lettore non riesce più a capire se egli sia deceduto sul serio o se si tratti di una visione causata dallo stato confusionale della donna in seguito ai traumi della guerra.
Citiamo poi lo slovacco Ladislav Mnačko che nel romanzo, in parte autobiografico, La morte si chiama Engelchen (Smrt si ríká Engelchen, 1959) rievoca una spedizione punitiva dei nazisti contro dei partigiani slovacchi durante la guerra; il croato Gustav Krklec con La prigione del tempo (1944); in Polonia Kazimierz Brandys che ne Il cavallo a dondolo (1946) ritrae il disorientamento della borghesia causato dalla guerra e ne La città indomita (1946) tratteggia l’eroismo degli abitanti di Varsavia sotto l’occupazione nazista. A un altro assedio, quello dei nazisti a Leningrado, sono dedicati il romanzo-cronachistico Quasi tre anni (1946), le raccolte di versi L’anima di Leningrado (1942) e Il meridiano di Pulkov (1943) dell’ucraina Vera Michailovna Inber; un’altra ucraina, Svetlana Aleksievic nell’interessante La guerra non ha un volto di donna (1983), prima censurato poi vincitore di numerosi riconoscimenti anche all’estero, racconta l’esperienza delle donne-soldato al fronte durante la seconda guerra mondiale. Le violenze della guerra e i maltrattamenti subiti dal popolo estone a opera dell’esercito russo sono invece il soggetto delle raccolte di liriche Il cigno della morte (1942) e Sul rogo (1945) della finlandese Aino Kallas; infine il connazionale Väinö Linna in Croci in Carelia (1954) racconta le imprese dei soldati finlandesi durante la seconda guerra mondiale.