Gli stranieri e la città
"Una stantia frequentata da molte genti d'ogni lingua e paese" e forse anche per questo "nobilissima et singolare": nel 1581 Francesco Sansovino definisce così la propria città, consapevole da un lato della ricchezza che questo comporta, dall'altro degli inevitabili problemi posti dalla coabitazione (1). Già all'inizio del secolo, del resto, a leggere le brevi annotazioni di Marin Sanudo circa i magistrati veneziani, pare che l'attenzione dei "giudici di forestier" fosse quasi interamente monopolizzata dai contrasti, non solo d'ordine finanziario, che sorgevano di continuo tra padroni di casa e affittuari (2). Sembra che i tre giovani sotto i 40 anni incaricati di dirimere le controversie tra cittadini e immigrati ne fossero letteralmente sommersi. Eletti con un mandato di 16 mesi, essi "sentavano" regolarmente a San Marco la mattina, per tre giorni alla settimana e, probabilmente, si trovavano a giudicare un gran numero di casi nei quali l'arrivo di altri inquilini, l'abbandono o la fuga improvvisa erano alla base delle contese o dello scioglimento di un contratto (3). Ma questi non erano che i piccoli rischi o le contropartite della politica veneziana nei confronti degli stranieri, della concessione di quella libertà che molti avevano celebrato, ma che era il frutto di una legislazione abile e appropriata ad un'ampia casistica. Perché gli stranieri avevano dovuto comunque contrarre forme diverse di sudditanza con una città che da almeno due secoli si presentava al resto del mondo come un punto naturale di intersezione: l'obbligo di assumere la cittadinanza veneziana, di rinnovare il "privilegio" ogni cinque anni, di recare doni alla chiesa di Stato, di possedere una casa non era che l'altra faccia della possibilità di contrarre matrimonii misti, di essere membri di una confraternita, di svolgere i propri traffici nella capitale, per quanti si dimostravano fedeli alla Serenissima (4). Tant'è che nel 1512, accanto alle 140 "casade di zentilhuomini" il celebre cronista ne conta 11 di "cittadini forestieri" (5), una percentuale altissima che non poteva che essere proporzionale ad una moltitudine di lavoratori e artigiani dal nome meno illustre che pure vi operavano quotidianamente.
L'istituzione di un'apposita magistratura (la "curia del forestier"), l'esistenza di sistemi di supervisione sugli affari, di intermediazione garantita nei casi più importanti da un "bonum et legalem hominem veneciarum", la sensibilità diplomatica, i provvedimenti giuridici non sono nuovi: ma non c'è dubbio che le iniziative intraprese dalla Serenissima, nei confronti dei molti non veneziani che transitano per la città lagunare, o che la abitano talvolta da più generazioni, per consentire una migliore organizzazione del loro vivere civile, sono ora, nei primi del Cinquecento, più numerose che negli anni precedenti. L'importanza dell'attività economica che costoro svolgono lavorando in loco e percorrendo i mari del Dominio è infatti ben nota alla Repubblica: chi la governa sa che presentare al mondo la sua capitale come centro d'attrazione, luogo di percorso obbligato e ponte di transito e di scambio vantaggioso, è non solo opportuno, ma necessario alla sua sopravvivenza; cosicché un capo berbero che voglia trattare col sultano turco - è di nuovo il Sanudo a notarlo - non ha altra scelta che passare per Venezia (6). E qui, nella necessità di ospitare chi viene da fuori, mercanti, turisti, diplomatici e potenti della terra, sudditi, alleati, o pellegrini di passaggio, la città costruisce la propria forza e la capacità di rinnovarsi. In definitiva è un orientamento politico fatto di comportamenti plurisecolari, basato sulla massima apertura nei confronti di chi intende venire e fermarsi nelle isole della laguna, magari farvi da tramite con paesi lontani, oppure emigrarvi da luoghi in cui si sente perseguitato, o solo limitato nello svolgimento delle proprie faccende. Ovviamente, in periodi di crisi le oscillazioni nei rapporti internazionali non possono essere indifferenti rispetto alle scelte da compiere. Accade allora che in determinate occasioni i provvedimenti protezionistici si rafforzino, o invece si allentino e si liberalizzi la facoltà di commerciare con altri forestieri (7). Non c'è dubbio che l'accettazione dei viaggiatori di passaggio, una disponibilità verso nuovi valori etici e i segni di una sostanziale tolleranza religiosa e civile in questa fase, nei primi decenni del XVI secolo, vanno di pari passo con l'ampiezza delle relazioni commerciali che occorre intrattenere, o in qualche modo rilanciare.
Lo confermano fonti molto diverse, come quelle di chi giunge a Venezia non certo da semplice turista. Ignazio di Loyola, per esempio, che - diretto in Terra Santa - capita una prima volta in laguna nel 1523 e una seconda nel 1535: ospite di un uomo "dotto e buono" vi si trattiene in attesa di nove compagni francesi e spagnoli e, pur accusato d'eresia e sottoposto a processo, vi può praticare quotidiane "conversazioni spirituali" (8). Ma è d'accordo anche il mantovano Francesco Stancaro, che nel 1547 afferma essere Venezia "il più tollerante degli Stati italiani verso gli Evangelici e il più indipendente di contro alla Curia romana". O lo spiritualista francese Guillaume Postel, che nel 1555 celebra l'insediamento realtino, predestinato a divenire la vera "Jerusalema ponentina [...> in vista della concordia universale" e di una cristiana "restitutio" (9).
Milanesi, Bergamaschi, Toscani, Lucchesi, Tedeschi, Dalmati, Greci, Slavi, Albanesi, Armeni, Turchi, Persiani... che vivono e lavorano a Venezia hanno anch'essi - come i cittadini originari - le loro confraternite e le loro istituzioni d'assistenza; hanno chiesto, magari in tempi lontani, alla "patria" che li accoglie una sede per le loro comunità, un punto di riferimento per il lavoro e un luogo nel quale ritrovarsi, svolgere riti religiosi, azioni di filantropia e di solidarietà nei confronti dei propri connazionali (10). Insomma, un'organizzazione comunitaria già da tempo identificabile anche fisicamente. E in generale l'hanno ottenuta.
Ma si direbbe che, negli anni che stiamo studiando, favorire la presenza degli stranieri in città significhi per il senato concedere nuovi spazi a questo fine: una maggiore e più facile acquisizione di terreni e di case e, nello stesso tempo, una dislocazione più circoscritta delle loro abitazioni all'interno di un tessuto già densamente edificato. Che le scelte effettuate in questa direzione rispondano ad una volontà da parte dei Veneziani di emarginare le popolazioni immigrate, o a procedimenti di autosegregazione, per affermazione di identità, esse finiscono spesso per giocare insieme a favore di una localizzazione in gran parte accentrata e riconoscibile, per alcune comunità in prossimità del mercato, per altre in aree portuali e di perimetro. Come per alcune corporazioni d'arti e mestieri, l'antica toponomastica registra i passaggi e le permanenze più significative, accanto alle diversità dei rapporti intrattenuti con i cittadini originari.
La presenza commerciale dei Lucchesi, per esempio, fuggiti dopo l'assalto pisano e la distruzione dei loro fondaci, era stata autorizzata dal maggior consiglio già nel 1308 e da quella data essa è regolamentata e sottoposta alla "corte della seta": essi avevano insediato la loro Scuola in contrada San Marcuola e la propria residenza soprattutto nei pressi di San Giovanni Grisostomo, dove appunto aveva trovato sede il tribunale, in una corte retrostante alla chiesa stessa (11). Ma nel 1376 essi inaugurano una cappella posta accanto alla chiesa dei Servi di Maria, anzi appoggiata ad uno dei muri perimetrali della stessa. Di piccole dimensioni (9 metri x 20) anche se molto alta, ad una sola navata, coperta a due spioventi, con capriate lignee simulate all'interno da volte a crociera, essa era stata interamente affrescata. Nel 1398, l'acquisto di un terreno, per edificare l'ospizio dei poveri e la nuova sede della Scuola, aveva comportato anche un intervento urbano di un certo rilievo: l'aggiunta di un ponte di collegamento con l'isola dei Servi e il sito precedente (12). Le norme d'assegnazione delle case ai confratelli poveri furono stabilite con apposita deliberazione il 26 agosto 1403. Qui, intorno alla corte del Volto Santo (che i Lucchesi adoravano in un'immagine scolpita in cedro del Libano, oltre che riprodotta sulla vera da pozzo) per almeno quattro secoli e senza cambiamenti radicali, continuò a svolgersi la vita quotidiana di questi mercanti, grandi importatori di tessuti di seta. Il luogo consente di mantenere a lungo l'identità nazionale.
Sul campo dei Frari, la Scuola dei Milanesi, costruita presumibilmente alla fine del Quattrocento, raccoglieva sotto la protezione di sant'Ambrogio, san Carlo Borromeo e san Giovanni Battista i non pochi Lombardi residenti a Venezia. Non lontana, istituita intorno al 1430, era la Scuola dei Fiorentini, luogo di riunione degli abitanti di quella città, nella quale era ospitata l'unica opera veneziana di Donatello, la scultura in legno dipinto di san Giovanni Battista. A San Marziale, nei pressi della Madonna dell'Orto, il campiello dei Trevisani segnala tuttora con un'iscrizione scolpita sulla facciata d'un edificio ("Hospitalis Divae Mariae Virginis Tarvisii") la presenza di un'istituzione antichissima (XIII secolo), legata all'ospedale di Treviso, destinata ad accogliere e curare, se ammalati, i poveri di quella città. La sua ubicazione dovette influire sulla riforma dei traghetti, se dal 12 ottobre 1581 le barche in arrivo da Treviso trovarono il loro approdo in fondamenta della Misericordia (13).
Analogamente, anche se con una storia di maggior complessità e articolazione spaziale, era accaduto per gli Albanesi: con l'autorizzazione del consiglio dei X del 22 ottobre 1442, la confraternita aveva stabilito la propria sede nel monastero di San Gallo, contrada di San Severo (e proprio a questo santo, oltre che a Nostra Signora di Scutari, aveva dedicato il suo altare) (14). Di questa presenza resta tuttora traccia nella toponomastica, anche se solo cinque anni dopo, il 21 febbraio 1447, la comunità già si era trasferita nella chiesa di San Maurizio. Ad un trentennio circa di distanza, dopo l'assedio di Scutari da parte di Solimano e di Maometto II a cui avevano opposta un'eroica resistenza, i profughi albanesi a Venezia erano ormai numerosissimi. Il 28 giugno 1479 una delibera del senato aveva infatti stabilito che è cosa "iusta e conveniente" dare a quei "povareti", costretti ad abbandonare il proprio paese, le "provisioni" che chiedono e sono ragionevoli, così che "apresso tutto el mondo el Stato nostro non possi iustamente esser caluniato" (15). Certo è che, dopo la grande immigrazione degli anni successivi, con decisione presa nel 1489, la Scuola acquista a basso prezzo le casette poste sul lato sinistro della stessa chiesa, le demolisce e nel 1497 dà inizio alla costruzione di una nuova sede, un fabbricato stretto e profondo, che si spinge dalla parte del rio e del vicino convento di Santo Stefano. Alla fabbrica, dotata di una sua corte con vera da pozzo e accessibile da tre porte, rispettivamente dalla calle, dal rio e dalla chiesa, si dovette lavorare alacremente tra il 1500 e il 1502. I1 completamento della travatura del coperto ("le roxe sopra li quadri") della sala superiore - il cosiddetto "albergo" - era probabilmente già stato effettuato all'inizio del secolo (16). Dietro alla Scuola propriamente detta, un grande scalone separava l'area riservata all'abitazione del parroco. Probabilmente già negli stessi anni il Carpaccio è all'opera con alcuni aiuti per dipingere il ciclo delle storie di Maria: non abbiamo notizie documentarie precise circa l'attribuzione d'incarico e lo svolgimento del lavoro. Ma il sopracitato riferimento alla messa in opera nel 1500 di un soffitto sopra ai dipinti, che non potevano non essere le sei tele generalmente attribuite a questo artista, ne suggerisce la cronologia (17). Il decoro della facciata dell'edificio, con i rilievi rappresentanti i santi protettori nella parte bassa e l'assedio di Scutari nella parte alta della stessa, sarà ultimato solo nel 1532.
Nel 1497, la Scuola aveva già più di 150 membri paganti. Era una comunità quella degli Albanesi, o degli Scutarini, come anche erano chiamati, che contava tra i suoi adepti un gran numero di soldati e di marinai fedeli alla Repubblica, oltre che una minoranza attiva nel piccolo commercio e nelle professioni di servizio (mercanti di lana, di coperte, d'olio, panettieri, cimadori, guardie di notte). Nella sua storia si intrecciano dissidi e rapporti di collaborazione con la città che la ospitava: significativa è la raccomandazione fatta in letto di morte al figlio Giovanni Castriota da chi pure con Venezia aveva intrattenuto rapporti difficili: "soli sint Veneti inter ceteros christianos principes (pace omnium dixerim) qui cum gravitate, prudentia et bonitas prestantia imprimis amandi observandique sint" (18).
Anche i Dalmati, o "Schiavoni", come erano comunemente chiamati in città, dediti prevalentemente al commercio della lana, si erano raccolti in associazione alla fine del XV secolo, con finalità umanitarie: soccorrere i poveri e gli ammalati, dare sepoltura ai defunti. Approvata la loro costituzione dal consiglio dei X il 19 maggio 1451, essi avevano fissato il loro luogo d'incontro nell'antico ospedale di Santa Caterina, nei pressi della chiesa di San Giovanni del Tempio (19): le spese sostenute per adattare l'antico edificio secondo lo schema abituale (una cappella al piano terra e un locale per le riunioni al piano superiore) risalgono al periodo 1451-1455. La veduta di Jacopo de' Barbari ne registra l'aspetto, prima di una lunga controversia con il vicino Priorato di Malta e prima delle modifiche che sappiamo essere state realizzate nel 1551 ad opera di Zuane Zon, proto all'Arsenale. Un corpo semplice, compatto, allungato, a due piani del tutto simile all'edificio di altre Scuole o corporazioni di mestiere. Da basso, una balaustra a colonnette di legno dorato divideva l'altare dedicato a san Giorgio dal resto della stanza, così da consentire lo svolgersi delle funzioni religiose secondo il rito orientale. La sala superiore doveva invece essere decorata con i nove teleri del Carpaccio, dipinti tra il 1502 e il 1507 (o il 1508) con le storie dei protettori della Scuola: san Giorgio, Gerolamo e Trifone. La confraternita disponeva inoltre di un ospizio per i poveri infermi in alcune case contigue, prospicienti calle dei Furlani (20).
Questi insediamenti appaiono dunque dispersi in modo relativamente omogeneo nei sestieri urbani marginali.
Eppure in città esiste una zona di immigrazione piu facilmente identificabile, quella compresa nel sestiere di Castello: la storiografia ha spesso sottolineato come i forestieri che giungono a Venezia e vi si trattengono, vi abitino in gran numero (21). Nell'isola di San Giuseppe, sull'omonimo campo "trovavansi 34 stanze antichissime" chiamate "ospitale dei pellegrini". Non lontano, nei dintorni di San Pietro, è la Scuola di San Nicolò a raccogliere i confratelli della nazione greca, che "come tutte le genti di quasi tutto il mondo si riuniscono nella vostra città", vi sbarcano, arrivando per mare, e lì sembrano entrare in "un'altra Bisanzio" (22).
Fin dal 1456 (l'anno della caduta di Costantinopoli) i Greci veneziani avevano avanzato, attraverso il cardinal Isidoro, metropolita di Kiev, la richiesta di costruire una chiesa per il loro rito. Ma allora il senato aveva concesso solo di usarne una già esistente, con la clausola di prestare obbedienza alla Chiesa romana. Nel 1498, essi ottengono bensì dal consiglio dei X il permesso di stabilirsi "al modo che hanno i Schiavoni et Albanesi et altre nationi" nella chiesa di San Biagio, in una contrada portuale - dunque confinante - con il grande cantiere di Stato. Ma già dal marzo 1470 erano stati autorizzati a tenervi i propri servizi religiosi secondo il rito ortodosso; il numero di membri aderenti doveva tuttavia essere rigorosamente limitato a 250. Eppure la "Magna multitudo Graecorum" giunta a Venezia nella seconda metà del Quattrocento (gli studiosi parlano di 4.000 persone, in una città che nel 1509 conterà 110.000 abitanti) (23) e l'accoglienza ricevuta sono ragioni che facilitano il loro inserimento in città. E che la capitale lagunare fosse allora un non comune polo d'attrazione, non solo per l'alto numero di "stradiotti" venuti dalle isole dell'Egeo, che recavano un servizio fondamentale alla Serenissima, ma anche per gli editori e gli stampatori che vi avevano aperto bottega, lo aveva segnalato solo due anni prima (1468) il cardinal Bessarione, nel momento in cui fece il celebre lascito dei propri codici alla Serenissima. Se prima dell'apertura dell'officina tipografica di Aldo Manuzio, nel 1494-1495, solo una dozzina di libri greci era stata edita in Italia, pochi anni più tardi gli scambi alimentati anche da quella donazione, oltre che dall'ellenismo culturale dello Studio di Padova, erano ormai consistenti. Le richieste presentate al senato tra la fine del Quattro e l'inizio del Cinquecento per ottenere privilegi di stampa dimostrano il grado di diffusione di queste imprese. Molti libri si stavano editando "nella lingua Hyeronymiana, seu Dalmatorum aut Illiriorum" - dirà più tardi il Postel -, confermando così che la pubblicazione di testi in greco era una delle attività capaci di attirare a Venezia mano d'opera specializzata (24).
Ma nel 1511 la Scuola e la nazione greca sono ancora insoddisfatte di non poter disporre di una propria chiesa e ne fanno nuovamente richiesta al consiglio dei X. Esse spiegano che, con la chiamata di tanti soldati "condutti [a Venezia con le loro famiglie> dall'eccellentie vostre per vostri militti et diffensori del vostro glorioso stato", il numero dei fedeli era enormemente aumentato. Allora, la comunità ellenica si proclama assillata dalla presenza concomitante di troppe genti, lingue, voci e servizi liturgici, la cui "confusion [...> passa quella de Babilonia". Con una petizione approvata poi dalla Santa Sede, chiede di poter costruire una Scuola, una chiesa autonoma e un cimitero (25). Non senza qualche contrasto, riferendosi esplicitamente alle soluzioni indicate dalla Serenissima nel caso di altre minoranze ("li eretici armeni et li infedeli judei, li quali quivi et altrove dove domina le Signorie vostre hanno sinagoghe e moschee"), il 30 aprile 1514 ottiene infine ciò che desidera. Il terreno viene trovato in contrada Sant'Antonin; acquistato al prezzo di 2.168 ducati, consente alla comunità di costruirvi una chiesa a proprie spese, per la quale scegliere un prete che offici il servizio religioso "iuxta ritum et morem vestrum". Poco a poco anche i toponimi (una calle, una fondamenta, un ponte) registrano la presenza massiccia della comunità ellenica ormai insediatasi nel sestiere (26).
Il primo servizio nel nuovo tempio ebbe luogo il 4 marzo 1527. Ma si trattava ancora di una sede provvisoria, perché la nuova chiesa, dedicata a san Giorgio, con la Scuola annessa, fu iniziata solo nel 1539. Finanziata imponendo una tassa a tutte le navi greche ancorate nel porto di Venezia, la sua importanza architettonica e la cura nella realizzazione sembrano corrispondere tanto al costo dei lavori (oltre 15.000 ducati), quanto al crescente numero di persone interessate. Essa fu realizzata ad opera di Sante Lombardo, che rimase proto dell'opera per nove anni, e continuata da Giovan Antonio Giovo (Chiona) da Lugano, che gli successe nella direzione dei lavori. Non ancora finita, fu inaugurata nel 1565 (come certifica un'iscrizione scolpita sul portale). La cupola fu voltata nel 1571 da un non meglio identificato maestro Andrea e terminata l'11 luglio 1573. Il campanile fu realizzato successivamente, nel 1587. All'interno, nell'arco sopra l'altare, nelle pareti, lungo le paraste, l'edificio è riccamente decorato con mosaici, parti affrescate e icone bizantine.
Per molti secoli il luogo sarà individuato come porto "sicuro" dalla nazione greca: fino alla caduta della Repubblica, la presenza di cittadini ellenici vi resta significativa, numericamente e per i mestieri praticati, tutti occasione per convogliare persone verso Venezia (27). Perché le mercanzie e le competenze comprate, vendute e importate in questi anni dai Greci residenti o di passaggio sono non solo numerose, ma abbastanza particolari (28). Comprendono anche oggetti rari come i manoscritti, le pitture, le immagini sacre e una forza lavoro davvero singolare. Accanto ai commercianti, ai soldati, ai marinai, ai capitani, agli armatori, ai sarti, agli orefici, agli operai, alle donne che svolgono lavori domestici nei grandi palazzi, molti sono infatti gli intellettuali e gli artisti che giungono a Rialto: i "madoneri", che offrono nelle botteghe del mercato le pitture portate da Costantinopoli, o riproducono le icone, con i colori e secondo le tecniche cretesi, sono tra questi (29).
Non doveva infatti essere un caso isolato quello del giovane Dominikos Theotokopulos, più noto come El Greco, che solo qualche anno dopo (tra il 1568 e il 1570), si trasferisce nella città cosmopolita e si nutre delle tecniche e dei colori delle botteghe veneziane (30). In quegli anni egli non è che uno fra i tanti pittori di icone formatosi nell'isola di Creta, devoto traduttore dei modelli della tradizione bizantina, che vive vendendo i prodotti propri o degli amici ed effettuando scambi di disegni con un noto cartografo di Candia, Giorgio Sideras, detto Calapodas.
"Oltre à gli altri popoli che ci concorrevano con grande utile del pubblico e del privato, i Tedeschi [è di nuovo Francesco Sansovino che lo afferma negli anni Ottanta del XVI secolo> spezialmente ci portavano ori, argenti, rami e altre robe". Ma già cent'anni prima (1476) una delibera ducale li segnalava come interlocutori di riguardo. "Acitote inter ceteras nationes nos maxime diligere et charos habere Germanos" (31). Sono meno numerosi dei Greci: intorno al 1580, un padre gesuita ne segnala al nunzio pontificio Alberto Bolognetti circa 900 residenti a Venezia, compresi "quelli del fondaco" (32). Per la Repubblica, essi sono però particolarmente preziosi per la qualità delle merci importate e per l'area geografica coperta dalle loro transazioni. "Manchando questo trafego de marchadantia a Venetia se pol reputar manchar il lacte e il nutrimento ad un putino. E per questo vedo chiaramente la ruina di la citade Veneta, perché manchando il trafego mancheranno li denari, de li qual è proceduta la gloria e la riputazione Veneta", scrive nei suoi Diarii Girolamo Priuli, nel 1501, preoccupato dalla situazione economica generale e dall'improvviso calo di importazioni dal Nord verificatosi con lo sfruttamento da parte dei Portoghesi della rotta per l'India (33). Ospiti da trattare con particolare attenzione, dunque. Così nel 1504 sono Leonard Vilt e compagni ad essere autorizzati alla fondazione di una Scuola in onore della Madonna del Rosario. Questa stabilisce la propria sede nella chiesa di San Bartolomeo, a pochi metri di distanza dal ponte realtino e dalla celebre casa della nazione germanica. Nella quale già era contemplata la presenza di un sacerdote addetto al culto per la comunità che vi alloggiava; a costui fu consentito di officiare secondo il rito tedesco in una cappella vicinissima: una calletta vi portava direttamente dalla porta laterale del fondaco. Da oltre due secoli, gli Alemanni vivevano infatti in un edificio "riservato", cresciuto su se stesso incorporando le case dei Polani nei pressi del Canal Grande, nel quale accatastavano le proprie merci e svolgevano i propri traffici. Ed erano soprattutto "i mercanti più grossi et meglio accomodati", ovvero i loro corrispondenti, che nel fontego avevano fatto base. "Collegiatamente vivendo tutti in commune et mangiando nel medesimo luogo e hora de il che torna molto commodo a' negotii loro [...> vivevano assai peggio di tutti gl'altri, teneano libri heretici, mangiavano carne a voglia loro, ragionavano come a loro piaceva delle cose della religione et se qualcuno vi capitava il qual mostrasse o in mangiare o in parlare" un comportamento difforme, lo deridevano.
In quella sede godevano insomma gli Alemanni di un'autonomia vigilata, si comportavano secondo le proprie abitudini, che i Veneziani potevano guardare sì con un misto di curiosità e sospetto, ma sulle quali di fatto evitavano di interferire. Chiusi lì dentro per la maggior parte dell'anno, talvolta vi organizzavano anche feste, spettacoli, pubblici balli mascherati, occasioni di incontro...
Ma la casa fu completamente distrutta da un incendio in una sola notte dell'inverno 1505. A certificarne l'importanza, la risposta della Repubblica, con il decreto del senato del 19 giugno 1505, fu allora immediata: occorre ripristinare "presto e belissimo" il fondaco dei Tedeschi. Mai si è vista nella storia veneziana un'analoga rapidità nel prendere decisioni e nel realizzare un'opera pubblica così costosa ed evidentemente ritenuta così importante. Ci fu un concorso per il progetto, almeno tre partecipanti, ma il nome dell'architetto resta sconosciuto. Le storie dell'architettura hanno formulato più ipotesi, per un complesso la cui forma "perfetta" era sicuramente inusuale a Venezia. Probabilmente è frutto della mano di più artefici (l'opera è stata descritta in altro volume di questa Storia (34)); certo è che l'impianto tipologico è chiaramente identificabile nel suo rapporto con le vie d'acqua e di terra e nella sua chiusura verso il tessuto edilizio circostante. Parziale ripensamento del manufatto preesistente o di altri fondaci - veneziani e non - sparsi lungo le coste del Mediterraneo, esso fu adottato con ogni probabilità come modello distributivo per le realizzazioni più tarde: i rifacimenti nel vicino fondaco dei Persiani, le trasformazioni di palazzo Pesaro a San Stae per accogliervi il fondaco dei Turchi.
Si trattava comunque di una straordinaria macchina economica, fisicamente concentrata, che dava lavoro ad una moltitudine di gente. Per i passaggi di merci bisognava fare ricorso ad intermediari veneziani (messeri o sensali) con i quali scoppiavano non di rado conflitti, per i vantaggi che la loro posizione comportava, o gli abusi che essa consentiva. Intorno al fondaco si muoveva una folla di mercanti, funzionari, dipendenti minori ("caradori", "incantadori", "portatori", "pesadori", "bolladori", "legadori", "barcaioli") alcuni dei quali potevano anche essere di nazionalità tedesca; ciascuno aveva propri compiti (contemplati tutti nel relativo "capitolare").
Oltre a commerciare facendo riferimento a questa solida base organizzativa, i Tedeschi immigrati a Venezia gestivano per i loro connazionali di passaggio alberghi e osterie; promuovevano inoltre confraternite di devozione divenute spesso un utilissimo punto di incontro per i membri anche di altre colonie straniere tra loro e con i cittadini che li ospitavano.
Talvolta, infatti, anche se la cosa era più rara, e sicuramente meno significativa dal punto di vista della sua polarizzazione nella trama insediativa, distinzioni occupazionali coincidevano e rinforzavano quelle nazionali. Accadeva allora che, accanto ad un albergo per i pellegrini tedeschi, evidentemente assai numerosi, fossero istituite Scuole minori per i calzolai tedeschi, o per i panettieri lombardi e germanici insieme. Nel primo caso, un edificio trecentesco a San Samuele, "aumentato con altri stabili" da un certo Enrico alemanno nel 1340, fu ulteriormente ampliato nel 1482 per accogliere, per non più di tre giorni, i calzolai tedeschi di passaggio in Italia. Nel secondo, anche i prestinai della stessa nazione, venuti a Venezia per cuocere i biscotti utilizzati dalle milizie, nel 1433 costituirono una propria associazione nella chiesa di Santo Stefano, non lontano dalla prima; inoltre acquisirono un "ospizio" e la "casa dei Tedeschi" per i poveri iscritti all'Arte dei panificatori, sita nella calle omonima (35). E ancora: in campo della Lana, nella contrada di San Simeon profeta, era sita una "casa con terreno vacuo, di ragion dell'ospitale dei Tedeschi" dove gli Alemanni, già proprietari di alcuni stabili, esercitavano l'Arte dei tessitori di lana (36). Una moltitudine di gente, dunque, e di attività di diverso peso sociale ed economico.
E ben noto ad esempio che anche l'Arte della stampa ha fatto il suo ingresso a Venezia proprio "grazie all'opera, alla cura e all'ingegno" di un tedesco, mastro Giovanni da Spira (37). Il riconoscimento del collegio è del 1469, nel momento in cui gli veniva accordato il necessario privilegio. E negli anni immediatamente successivi, a confermare il peso degli stretti rapporti che si vanno stabilendo tra la Germania e Venezia per la produzione di libri, la venuta di immigrati illustri è pressoché continua. Alla fine del 1470 vi giunse un francese, Nicolas Jenson, che aveva carpito a Magonza i segreti di quell'attività; nel 1471 arrivarono Cristoforo Valdarfer di Ratisbona, Franz Renner di Heilbronn e poi, due anni dopo, come suo socio, il ricco mercante di libri Nicolò di Francoforte, e Adam di Ambergau; e dopo ancora giunsero anche un cittadino di Strasburgo, un prussiano, un altro tedesco...
Nel 1473 gli stampatori a Venezia erano ormai circa una dozzina, generalmente di nazionalità germanica. Non tutti vivevano riuniti nel celebre fondaco. Alcuni abitavano nei pressi di San Paternian o nella contrada di San Zulian e avevano aperto banchi di esposizione e di vendita lungo le Mercerie (38). Sappiamo che Nicolas Jenson e Giovanni da Colonia, due tra i più attivi, erano soliti incontrarsi nella Scuola di San Girolamo (39). Teutonici furono peraltro i primi tentativi di descrizione della forma urbana e di riproduzione della stessa su tavole xilografiche, o su rame, o acciaio (in vedute riproducibili). Gli studiosi parlano della diffusione di una vera e propria tipologia d'immagine, prodotta dai cartografi tedeschi a Venezia, segno dell'importanza dei fitti rapporti di scambio culturale esistenti in questo periodo (40).
E che nel fondaco realtino giungessero gli scritti di Lutero, o i quadri e le incisioni degli artisti del Nord, o che vi si facesse opera di proselitismo, non stupisce nessuno. Quando Albrecht Dürer fu incaricato di dipingere la Madonna del Rosario, gratificato peraltro dal doge con un lauto onorario per questo, egli era visto con sospetto dalle corporazioni dei pittori locali, ma sicuramente guardato con ammirazione da artisti quali Jacopo de' Barbari, Giulio Campagnola, Giovanni Bellini, Lorenzo Lotto, Giorgione, il giovane Tiziano. Il protezionismo dominante si scontra inevitabilmente con i tentativi di fare di Venezia un centro europeo di scambio culturale, oltre che economico (41). È una delle necessarie contraddizioni di una città cosmopolita, in cui spesso gli interessi individuali contrastano. Chi si occupa di storia del gusto ne trova conferma perfino nelle collezioni private. Soggetti artistici diversi, un'attenzione nuova per il genere di paesaggio, le colline, alcune fabbriche, il fogliame sono alla base del rivolgimento che intorno al 1506 vede impegnati i giovani pittori veneziani intorno a modelli "ponentini" (o occidentali) divenuti accessibili grazie al mercato (42).
La presenza documentata di mercanti armeni a Venezia risale al XII secolo: furono il doge Sebastiano Ziani e suo figlio Giacomo a consentire la costruzione e poi a dare precise disposizioni testamentarie in favore di un ospizio posto nell'antica parrocchia di San Zulian, che ospitasse per tre giorni e offrisse una cena ai pellegrini armeni di passaggio in laguna (43). L'ospizio, sistemato in un gruppo di case contigue, fu particolarmente attivo dal 1496 e fino al 1600 (quando passò sotto la giurisdizione dei procuratori de citra).
Da tempi molto lontani dovevano essersi insediate a Venezia, come in altre città italiane, anche delle comunità monastiche aventi la stessa origine: nel 1346 certi "frati armeni di San Giovanni Battista" sono menzionati in un testamento come destinatari, tra altri, del patrimonio di Zannino di Scala; un gruppo di loro, presumibilmente diverso, situato a Castello, aderisce nel 1356 all'unione delle Chiese armene secondo la regola di sant'Agostino e le costituzioni dei Domenicani e, come tale, è espressamente nominato nella bolla di Innocenzo IV. Più o meno negli stessi anni, doveva esistere inoltre una casa riservata ai membri di quella nazione nella contrada di San Girolamo.
Dal 1434, poi, in una chiesetta, in calle della Lanterna, un sacerdote officiava secondo il loro rito. Da loro stessi la strada finì per prendere il nome. Il piccolo oratorio, ampliato e rinnovato a più riprese, nel 1496, tra il 1510 e il 1520, nel 1689, e sottoposto anche a un minuzioso recente restauro, resta l'unica chiesa armena in Italia di origine medioevale (44).
A Venezia, gli Armeni disponevano anche di un cimitero (citato in un testamento del 1341) presso i Benedettini dell'isola di San Giorgio Maggiore. Nel 1675, reclamandone ancora il diritto, la comunità dichiara che la sua costituzione risale a oltre 400 anni prima. Ritrovata, in occasione di alcuni restauri effettuativi nel dopoguerra, una pietra tombale del 1570, con iscrizione, costituisce una testimonianza materiale del fatto che fino a quella data almeno l'attrezzatura era funzionante (45). Decisamente successive (secoli XVII e XVIII) sono invece le tombe armene poste nella chiesa di Santa Croce. A Santa Maria della Celestia poi erano conservate le reliquie dei Diecimila Martiri dell'Ararat: una vicenda questa che non avrebbe potuto essere conosciuta e popolare in città, se non grazie all'immigrazione armena, ma che poi è divenuta anche - come dimostra la celebre tela del Carpaccio - un fortunato tema iconografico.
Sappiamo inoltre che in ruga Giuffa dovevano risiedere alcune famiglie armene, venute dalla città di Juffa, dopo la sua distruzione ad opera del re persiano Shah-Abbas il Grande (46).
Insomma, una presenza dispersa in modo relativamente omogeneo nel tessuto cittadino, con luoghi di aggregazione legati soprattutto a funzioni religiose e assistenziali.
Trattandosi di cristiani, gli Armeni potevano risiedere nelle diverse contrade assai più liberamente di altri popoli, affittando o addirittura comperando l'alloggio in cui abitavano (47). E a Venezia essi si organizzano, lavorano, promuovono iniziative. Una delle più significative è certo la fondazione di una stamperia che, già nel 1512, pubblica il primo libro in lingua armena.
L'impresa non può essere dovuta solo ad un caso fortuito: la scelta della città lagunare da parte di un ignoto stampatore - un certo Hakob, che nel frontespizio si autodefinisce "meghapart", cioè peccatore (48) - doveva essere legata al ruolo di Venezia nello sviluppo dell'arte tipografica e all'opportunità di trovarvi consigli, aiuti, capacità tecniche eccezionali (49). Certo è che, a partire da quella data, una ventina di tipografi finiscono per insediarsi in laguna e per svolgervi un'intensa attività editoriale in armeno, ben prima che la tradizione sia suggellata dall'inaugurazione, nel 1789, nell'isola di San Lazzaro, della celebre tipografia "poliglotta" dei Padri Mechitaristi.
Per secoli il ruolo che rivestono gli stranieri della nazione turca a Venezia resta completamente diverso da quello dei mercanti del Nord. Dopo la caduta di Costantinopoli, la ricerca di un nuovo equilibrio nella dislocazione degli insediamenti mercantili lungo l'Adriatico e in Oriente richiede tempo, ma in città la pressione ottomana è sentita come un pericolo. È ben noto che si erano alternate fasi di ostilità e di relazioni pacifiche tra i due popoli, ma l'interesse comune, ribadito spesso dalle magistrature turche e da quelle veneziane, rimaneva quello della coesistenza. Tuttavia, almeno fino a Lepanto, il commercio tra la città lagunare e il mondo turco era stato esercitato prevalentemente da Veneziani. Le autorità turche, tolleranti nei loro confronti, lo avevano incoraggiato, disposte ad accoglierne il libero insediamento soprattutto a Costantinopoli, pur di trarre profitto dai dazi doganali (50).
"Li Turchi non sono mercanti" si dice nel 1534; arrivando così a spiegare il fatto che fino alla metà del Cinquecento non si trovi in città una loro colonia confrontabile con quelle veneziane ad Alessandria, ad Aleppo, a Damasco, a Beirut, in Levante. Presenze sporadiche sono bensì registrate nella contrada di San Giovanni e Paolo o altrove nel sestiere di Cannaregio, nelle osterie o nelle case di donne povere e di malaffare (51); eppure l'importazione della farina, delle spezie, della seta e dei tessuti preziosi doveva essere di una certa consistenza, se conflitti tra i membri delle due nazioni davano spesso adito a rimostranze, processi, vendette nei confronti dei "sudditi turcheschi e delle mercantie loro" (52). Certo, per commerciare a Venezia dovevano servirsi di sensali, cittadini originari e iscritti all'Arte (53). Ma un anonimo viaggiatore francese nel 1480 racconta ammirato di aver visto girare liberamente per la città un ambasciatore turco accompagnato dai suoi uomini: ed era vestito sontuosamente di velluto rosso a fiori (54). La curiosità degli occidentali nei riguardi di questi stranieri, sentiti sempre come "speciali", si alimentava quotidianamente di pregiudizi e interpretazioni circa le loro diverse abitudini e ritmi di vita, come dello stupore per gli oggetti, per le stoffe, per i tappeti che essi portavano con sé (55). Ma all'inizio della guerra di Cipro i Turchi furono provvisoriamente concentrati nella casa del bailo Marc'Antonio Barbaro a Cannaregio. Lì, dopo la vittoria delle Curzolari "stettero rinchiusi per quattro giorni per il dubbio che avevano d'essere lapidati dai putti, facendo mille segni di mestitia col rotolarsi per terra, battersi il petto, pelarsi li mostacchi, e graffiarsi il viso e le carni" (56). Tornarono poi ad essere ospitati liberamente da privati, ma per essi, più che per altri stranieri, il senato a lungo, e più volte, pone il problema di predisporre una residenza coatta, "un loro redutto et albergo particolar" che consenta un più adeguato controllo.
A trovare una soluzione al problema si giunge però solo molto tardi. Nel 1574, il consiglio dei X aveva chiesto di farli rientrare in abitazioni e magazzini propri, per i danni che derivavano a tutti dalla convivenza con i cristiani. È di quell'anno la petizione di un tal Francesco de Dimitri Lettino, detto Fraia (o Francia) presumibilmente di origine greca, che chiede alla Signoria di poter aprire un posto privato e speciale per i mercanti ottomani, cosa di cui già godono altri popoli e nazioni. Egli sottolinea che non è bene che i Turchi abitino dovunque in città, perché essi possono compiere delitti sui ragazzi, violentare le donne cristiane, essere essi stessi vittime di attacchi e furti. Chiede, come contropartita dell'offerta che sta facendo allo Stato, che tutti i Turchi siano obbligati a risiedere nel nuovo fondaco e che la conduzione ("aprir, serrar et custodir ditto loco") gli sia affidata, insieme con il diritto perpetuo di trasmetterla ai propri eredi. Agli altri servizi "per i loro costumi sì del mangiar come del dormir" avrebbero provveduto i Turchi stessi. La sua proposta fu in linea di massima approvata dal senato nel 1575 e ai sette savi sopra Rialto furono date istruzioni affinché trovassero un'adeguata sistemazione (57). A quell'epoca, anche il dragomanno Michele Membrè forniva suggerimenti sul modo in cui costoro dovevano essere "serati et custoditi".
Nel 1581, il senato informa il bailo di Costantinopoli circa i tentativi e le contrattazioni che erano state via via effettuate a questo proposito in città. Ma l'operazione giunse a conclusione solo nel 1621: molte erano state le indecisioni, troppe volte allo Stato erano state offerte proprietà degradate e del tutto inutilizzabili. Nel 1579 era stato il figlio del Lettino, Giorgio, che, volendo veder realizzato il progetto del genitore, aveva deciso di rompere gli indugi e di affittare lui stesso l'osteria all'insegna dell'Angelo, di proprietà Vendramin, nella contrada di San Matteo di Rialto (58). Solo pochi mesi dopo, a quella localizzazione si preferì la casa dei Gabriel a San Giovanni Grisostomo, un'isola chiudibile sui quattro lati. Ma la sistemazione non fu mai effettuata e l'osteria dell'Angelo, stretta e inadatta, continuò ad ospitare gli Albanesi e i Bosniaci con loro le droghe, le spezie, i cordami, i panni lana, gli zambellotti, i tappeti per i quali erano state fissate apposite tariffe (59). Ma altri asiatici si trovarono ben presto nuovamente sparsi per la città, con il rischio di scandali e di una promiscuità che nessuno poteva davvero desiderare. Da parte di alcuni, l'auspicata erezione di un fondaco destinato ai Turchi è denunciata come rischiosa, probabile luogo d'incontro "de viziosi e sentina di sporchezzi" e magari perfino... primo passo verso la costruzione di una moschea (60).
Eppure alla morte del Lettino, l'opera del nonno fu ripresa dal nipote Giovanni Battista che, da un lato, aveva visto aumentare bruscamente l'affitto dell'osteria di cui era titolare - si era passati da 145 a 400 ducati -, dall'altro si era improvvisamente trovato ad avere un nuovo interlocutore favorevole. Proprietario del gran palazzo sul Canal Grande che sembrava prestarsi all'uopo, così come avevano suggerito i cinque savi alla mercanzia nel 1608, era infatti il neo-eletto doge Antonio Priuli, il quale era allora presumibilmente interessato a vendere l'immobile. In effetti, trent'anni prima, ai savi il senato aveva dato incarico di fissare una normativa per il nuovo fondaco, ma di non rinunciare a cercare un sito migliore; nel frattempo aveva anche continuato a dibattere dell'opportunità di trovare una sede permanente. E il palazzo dei duchi di Ferrara, che per secoli aveva visto avvicendarsi più o meno illustri ospiti, dovette allora apparire al governo della Repubblica come una delle sedi più adatte. Era ormai divenuto di proprietà del doge; l'opportunità di utilizzarlo si presenta concretamente. Ma non è semplice portarne a termine l'acquisizione, né imporre le modifiche necessarie. Tanto che ancora nel 1618 c'è chi, per obbligare la collettività a prendere una decisione, propone di procedere alla costruzione di una nuova fabbrica. L'osteria non era certo sufficiente ad accogliere tutti i mercanti turchi che ormai frequentavano la città in gran numero; molti di loro continuavano a vivere altrove. Le lamentele erano continue: cattive azioni, delitti efferati, condotta contraria a ogni morale, scandali, cattivo esempio nei confronti della vera religione, danni recati alla vicina chiesa di San Matteo (61). Sta di fatto che il 27 marzo 1621 il collegio approva la raccomandazione dei savi alla mercanzia, che gli era stata trasmessa solo una settimana prima. E l'approva insieme con le istruzioni dettagliate per realizzare quelle modifiche alla distribuzione interna ritenute indispensabili a consentirne il nuovo uso. Il provvedimento è accompagnato dalla ripartizione delle spese tra il Lettino, lo Stato e il Priuli in persona, sotto forma di prestiti (62). Norme per il funzionamento e decisioni di riforma dell'immobile, chiusura delle aperture verso l'esterno, innalzamento di un muro verso il Canale, spostamento di finestre e nuove inferriate, separazioni interne furono immediatamente predisposte, tenendo conto il più possibile di abitudini e riti religiosi, oltre che delle provenienze nazionali (63). Era la conclusione di un iter lungo e faticoso, venuta a mettere un punto fermo dopo un periodo plurisecolare di difficoltà, ma anche di fertile scambio di prodotti, conoscenze tecniche e cultura artistica. Così, con piccoli aggiustamenti successivi, con un giro di traffici enormemente diminuito, il fondaco funziona ancora fino al 1797. Trasgredendo l'ordine di prendervi dimora, molti erano stati bensì i Turchi che s'erano insediati fuori dal recinto, soprattutto in casa dei sensali. Avevano costituito un pericolo per la cittadinanza e una straordinaria ragione d'attrazione. Tra Quattro e Cinquecento, tessitori, tintori, stampatori veneziani avevano tratto infiniti stimoli da quei contatti, avevano imparato a reimpiegare materie nuove (sete, velluti, broccati), trame, colori, motivi floreali; le famiglie patrizie avevano addobbato i loro palazzi, i pittori arricchito le loro tele.
La nascita del Ghetto - scelta radicale di concentrazione coatta della popolazione ebraica in un solo quartiere cittadino - risale al 29 marzo 1516 (64). Il decreto istitutivo del senato fa seguito alla proposta di Zaccaria Dolfin il quale, intervenendo tre giorni prima in consiglio, in qualità di "savio", aveva sostenuto l'opportunità di rimuovere i Giudei "e corpore civitatis" (65). Egli perora la causa di una residenza in area chiusa e separata: la scelta cade su una zona posta all'interno del tessuto urbano, ma periferica. Un quartiere marginale, la cui urbanizzazione era stata completata in tempi abbastanza recenti - tra il 1459 e il 1465 i fratelli da Brolo, che vi avevano investito nella costruzione di case d'affitto, dettano in un testamento le loro volontà su di esso - e che tuttavia aveva mantenuto ancora i caratteri di un isolotto erboso. Lì, nel 1516, si prevedono due interventi edilizi che, potenziando i caratteri del sito prescelto e modificandone parzialmente il rapporto con l'intera città, ne garantiscono la segregazione fisica: la costruzione di un alto muro lungo i lati del Ghetto Nuovo prospicienti i canali e la chiusura delle porte d'acqua delle abitazioni.
Prima di quella data, gli Ebrei veneziani non risiedevano in una zona specifica: "sono in questa terra molti in diverse caxe et contrade" segnalava Marin Sanudo. Ma - come spesso altrove in Europa - vivevano tendenzialmente raggruppati. Una sorta di aggregazione volontaria, nelle contrade di San Baldo, Sant'Agostin, Santa Maria Mater Domini, San Cassiano e San Polo, era facilmente comprensibile: abitare a ridosso del centro mercantile della città era certo conveniente per chi svolgeva soprattutto attività di scambio e di usura. E questo era accaduto in età medioevale nella maggior parte delle città europee grandi e piccole, a Rothenburg come a Siviglia, ad Amsterdam come a Padova.
Qui, la localizzazione si giustificava anche con l'acquisto, effettuato subito dopo la crisi cambraica, di alcune botteghe e volte proprio nell'isola di Rialto; e ne risultava rafforzata. Ma qualche difficoltà già era sorta negli anni precedenti tra proprietari di case e inquilini: da un lato c'era chi aveva trovato conveniente speculare sulla penuria di alloggi, dovuta anche ad un'ondata migratoria eccezionale; dall'altro c'era chi esitava ad accettare come "normale" l'assimilazione di forestieri con abitudini spesso molto lontane dalle proprie. Un gran numero di stranieri di diversa provenienza, attirati da ragioni economiche e sospinti dall'insicurezza e dai conflitti bellici che attraversavano l'Europa intera poteva costituire ragione di inquietudine (66). È lo stesso cronista a notare che dopo l'editto di espulsione degli Ebrei emanato dai re cattolici di Spagna nel 1492 e la loro conversione forzata in Portogallo nel 1497, tra i centri del Mediterraneo, Venezia era stato uno dei privilegiati dalla diaspora ebraica. Una classe mercantile senza frontiere, legata ai Sefarditi che già vi erano insediati e ai nuovi cristiani di origine valenzana, vi fu accolta sì, ma da parte di alcuni con una certa diffidenza: "Se dice etiam che molto se dubita de li judei e marrani che non sian scazati, perché il populo non li volle in la terra per niente" (67).
Ciò che la Repubblica non aveva mai messo in discussione era il diritto delle minoranze alla sepoltura, tanto che dal lontano 1396 l'università degli Ebrei aveva ottenuto a questo fine un terreno al Lido, confinante con il convento di San Nicolò. Accanto agli orti e alle vigne, vi aveva per secoli trasportato i propri morti, li aveva interrati secondo il proprio rito e ricordati nelle pietre tombali secondo le loro diverse nazionalità. L'area aveva mantenuto nei secoli titolo e giurisdizione particolari; vi si svolgevano attività d'assistenza, culturali e religiose legate al rito funebre; vi si disponevano sepolcri con stemmi di famiglia e figure bibliche, raffinate lapidi scolpite con un frontone triangolare, o un arco circoscritto da pilastrini, o timpani ricurvi; sarcofagi in cui le iscrizioni poetiche in lingua veneta, ebraica, spagnola o portoghese sono la testimonianza di una commistione etnica che non sarà mai assimilata del tutto. Tracce sovrapposte di una lunghissima permanenza organizzata: accanto ai pochi documenti relativi ai passaggi giuridici e agli obblighi finanziari dei proprietari e dei concessionari, sono per noi l'unica fonte d'informazione circa la forma e la crescita di un'attrezzatura urbana tra le più importanti. Sovraintendenti alla conduzione del cimitero sono, come in altre città italiane, i membri della fraterna Gemilut Hasadim o della Misericordia. Coltivato tutto a orto e frutteto, proprio come i terreni confinanti dei fratelli cassinesi, vi è una casa ad un solo piano di muro e legname e coperto di tegole, due camere e cucina, attrezzata con armadi e scansie. La fraterna affitta a sua volta casa e terreno ad un contadino, insieme con una tettoia su colonne di marmo, un capanno di tavole, un pozzo. Insomma un luogo attrezzato, da rendere opportunamente produttivo, sul quale i titolari della concessione si riservano diritti di passaggio e d'uso transitorio o, a mano a mano che ciò sarà necessario, di ampliamento dell'area di sepoltura, con l'eliminazione eventuale di alberi e arbusti. Essi restano responsabili anche dei lavori di manutenzione da effettuare sulle fondamenta dell'isola, quando i provveditori alle fortezze ne verifichino lo stato rovinoso (68).
Invece, l'ipotesi di dislocare gli Ebrei di Venezia in una contrada di residenza obbligata, per esempio un'isola suburbana come la Giudecca, era già stata formulata l'anno prima (1515) del decreto istitutivo del Ghetto da un attivo procuratore della chiesa domenicana dei Santi Giovanni e Paolo, Giorgio Emo. Un'ipotesi alternativa, formulata da due banchieri della nazione giudaica, di stabilirsi piuttosto nell'isola di Murano, era stata presa in considerazione, ma poi accantonata dal governo della Repubblica, per le obiezioni sollevate dalla comunità ebraica.
In un caso e nell'altro, ciò che viene messo in gioco con la proposta dello spostamento è la marginalità spaziale (la scelta di un'area periferica), necessario adeguamento ad una marginalità sociale, che non può non essere obiettivo di strategia urbana in un grande centro economico in cui molti gruppi etnici coesistono. Ma l'area in definitiva prescelta, e accettata suo malgrado da Anselmo dal Banco, quella del Ghetto Nuovo, nel sestiere di Cannaregio, ha in più, a suo favore, anche delle ragioni distributivo-tipologiche: è "come un castello" e consente di "far ponti levadori et serar di muro", permette di aprire una sola porta d'accesso, e quindi anche di chiuderla, e alle barche del consiglio dei X di girarvi intorno e sorvegliare nottetempo.
Insomma, il complesso di case e magazzini, organizzati intorno ad una "corte", è un nucleo ben identificato, si presta ad un uso collettivo, ad una vita comunitaria, alla sorveglianza da parte dei magistrati ed è inserito in un sistema periferico di servizio all'intera città e ai suoi due gangli nodali. Ritenuto "capacissimo" dal senato, il luogo era considerato invece "non bastante" dal banchiere, il quale non poteva non essere a conoscenza della stima dei possibili aspiranti, valutati in circa 700 persone (69).
Uno degli atti preliminari e insieme fondativi della vicenda che stiamo seguendo è costituito dalla convocazione dei proprietari delle case dell'area. Non tutte facili le trattative con i titolari degli immobili (i da Brolo di almeno tre nuclei familiari e, forse, qualche altro), convocati per garantire loro il risarcimento stabilito nel decreto istitutivo. I meno consenzienti erano quelli che, risiedendovi personalmente, vi avevano investito molto denaro; ma accettano poi tutti la prospettiva dell'aumento (a carico degli Ebrei) di un terzo dell'affitto finora praticato e l'esenzione dello stesso dal pagamento delle decime (70). Sta di fatto che, tra la primavera e l'estate, il quartiere risulta svuotato dai cristiani, un certo numero di Ebrei lascia la città ed entro la fine di luglio del 1516 i nuovi abitanti (non ci è dato sapere esattamente quanti) risultano insediati. Ci furono accordi diretti con i proprietari e qualche intervento di assegnazione di case e botteghe da parte della magistratura preposta, gli ufficiali al cattaver.
Gli "accrescimenti", cioè il frazionamento interno degli edifici, in modo da ricavarne un numero maggiore di alloggi, e le sopraelevazioni iniziano immediatamente; corrispondono entrambi ad un processo di rinnovamento dell'area che è documentato in modo preciso già nel 1521, nelle dichiarazioni dei proprietari cristiani circa le rendite percepite. Il ritmo di crescita è evidente: quelli che erano sette alloggi sono diventati sedici in un tempo rapidissimo, mediante suddivisioni interne, uso dei piani terra e delle soffitte, aggiunta di baracche di tavole accostate ai muri principali. Il processo di densificazione e di stratificazione sociale muove da sotto e da sopra: in basso gli alloggi più modesti e di più piccole dimensioni, ai piani superiori le case più spaziose. Nonostante che la partenza di molti fosse allora motivata proprio con l'insufficiente capienza abitativa, in tre o quattro anni le strutture essenziali della vita comunitaria sembrano essere organizzate: il servizio di approvvigionamento idrico è garantito grazie ai tre antichi pozzi del campo e ad una vendita a domicilio di secchi d'acqua; la realizzazione a spese degli utenti di una "scoazera" viene ben presto deliberata - ci informa il Sanudo - per evitare che i nuovi arrivati buttino le immondizie in canale (71); sono predisposti il forno, alcuni posti di beccheria, una rivendita di vino kasher, un'osteria autorizzata ad accogliere gli Ebrei viandanti. Poco sappiamo dei luoghi di culto, che forse però già esistevano prima del 1527.
Entro i primi trent'anni del secolo, la committenza ebraica di trasformazioni edilizie pare essere attiva e riconoscibile. L'attività intrapresa nell'area è il presupposto di controversie e contrasti continui. Non solo "accrescimenti", ma "miglioramenti" sono quelli che i nuovi locatari effettuano per soddisfare alle proprie esigenze, in una zona che pare trasformarsi presto in un cantiere permanente. Un confronto tra lo stato patrimoniale di Giacomo da Brolo nel 1514 e quello di suo figlio sette anni dopo mette in evidenza l'aumento della rendita d'affitto.
Una prima espansione in Ghetto Vecchio, nell'area contigua a quella finora occupata da Ebrei tedeschi e italiani, risale probabilmente agli anni '30; è precedente cioè all'ampliamento legalmente riconosciuto dal collegio nel 1541. A questa data, con il pragmatismo che sembra contraddistinguere ogni scelta di strategia urbana della Repubblica, si era chiesto ai cinque savi alla mercanzia di recarsi in sopralluogo a Cannaregio, di considerare attentamente l'area limitrofa al campo del Ghetto Nuovo e di riferire sulle "condizioni" proposte, di avanzare un'ipotesi circa lo spazio di terreno ritenuto assolutamente indispensabile ad ospitare i "viandanti", perché fossero invogliati a venirvi con le loro merci. E l'indicazione dei savi era stata quella di una fascia di terreno, non molto edificata, con qualche orto e vecchie case di tavole, compresa tra il rio degli Agudi e quello di Cannaregio, in cui si sarebbe dovuto tirare un muro di conveniente altezza, con un'unica apertura verso l'esterno. La rimozione della prima porta e la conseguente accessibilità permanente del ponte degli Agudi avrebbe permesso il libero passaggio tra i due Ghetti, resi comunicanti, anche se separati (72).
Questo decreto, in cui si disponeva di alloggiare una nuova ondata di immigrati i Levantini -, prende atto della situazione: non può non riconoscere che il primo recinto doveva ormai ritenersi "stretto". Stretto certamente non solo in termini di abitazioni, tanto più che un certo numero di mercanti che vi avevano sviluppato i loro interessi commerciali in Levante, già vi risiedevano, almeno per periodi, se non sempre in modo continuativo. Nel documento degli inquisitori, che riprende l'autorizzazione del senato, si menzionano le merci di Romània, il cui traffico con i Turchi costantinopolitani era ormai concentrato tutto nelle mani dei Levantini, e si insiste sull'"utilità" che istallandovisi in modo più stabile essi avrebbero portato alla Serenissima. Vi si nota che il Ghetto Nuovo non consentiva "esercitio alcuno": il che significa che l'acquisizione del Ghetto Vecchio, cioè di un nuovo pezzo di città riservato ad altri Ebrei provenienti da paesi diversi, non era intesa solo come ampliamento residenziale. Le nuove case avrebbero dovuto consentire anche una separazione più netta tra gruppi etnici diversi.
Nella prima metà del XVI secolo, le attività lavorative e i servizi presenti a Venezia all'interno e all'esterno dell'isola degli Ebrei si erano andati modificando gradualmente e sensibilmente. Valutarne la distribuzione consente anche di capire le dinamiche stabilitesi tra un quartiere residenziale, destinato ad una parte soltanto della popolazione, soggetto a vincoli particolari, che via via diviene un'area attrezzata, e il resto della città.
Nei capitoli della condotta del 1558, del resto, s'era fatta più articolata che in precedenza l'autorizzazione ai Tedeschi a praticare le arti della "strazzaria", del far "velami e scuffie", nonché a tenere tre banchi di pegno sotto il controllo di uno scrivano, per il quale doveva essere predisposto in Ghetto Nuovo un apposito cancello, o ridotto di tavole (73). Le prime sono attività che certamente vi si svolgevano anche in passato, senza che se ne parlasse in termini altrettanto espliciti dal punto di vista della localizzazione; i secondi erano importanti perché implicavano un rapporto diretto con il pubblico, e con il pubblico cristiano in particolare. Non era una novità: ma da allora essi dovevano essere rigorosamente ubicati a piano terra, per una più comoda accessibilità da parte degli utenti; dovevano disporre di casotti o luoghi di deposito per immagazzinarvi gli oggetti lasciati in pegno; le tariffe affisse ben visibili su appositi tabelloni, tradotte in volgare, avrebbero permesso ai "poveri" di esercitare un controllo sui loro diritti (74). Come per i Tedeschi, i Persiani, i Turchi che accedono al fondaco, per i quali l'elenco delle imposte dovute deve essere esposto in sede in duplice lingua, la preoccupazione di una città cosmopolita è quella di rendere comprensibili ai fruitori le norme che li riguardano.
L'incisione di Giovanni Merlo (1696), una delle poche vedute di Venezia nelle quali il Ghetto è perfettamente identificabile e compare con il suo toponimo, sia pure sommaria, indica tuttavia un carattere tipologico. Con tutta probabilità, disegnando un porticato omogeneo corrente tutt'intorno, al livello della piazza, l'autore non intende rappresentare una facciata precisa, ma il fatto che sotto ai piani d'abitazioni esista una serie di botteghe e di locali aperti al pubblico, di frequentazione collettiva. E il fatto che il precedente (1567) disegno di Tommaso da Salò alluda schematicamente, ma in modo del tutto analogo, ad un piano terra tutto su colonne, non può essere che una conferma. Il consolidamento e il primo ampliamento del Ghetto su se stesso prima e poi verso l'esterno, con la costituzione del Ghetto Vecchio e del Nuovissimo, ha comportato un processo di cristallizzazione di pratiche e comportamenti. Ha corrisposto sì ad una segregazione nei luoghi, ma una segregazione in qualche modo accettata (se non perseguita) da Veneziani ed Ebrei.
Tant'è che alla fine del XVI secolo, il senato non può che ribadire che Ebrei tedeschi, italiani, levantini "viandanti", levantini "abitanti", ponentini, spagnoli sono tutti altrettanto importanti per il pubblico servizio, visto che praticano la mercatura nei luoghi dello Stato (75). Ma è chiaro che essi vi svolgono il commercio in modi differenti, godono privilegi non omogenei, pagano agli uffici del dazio, dell'insida, della messetteria percentuali concordate singolarmente, su merci specificate in appositi elenchi; usano di fatto diversamente lo spazio loro riservato (76).
È la delibera del senato mare del 1589 che, nel ribadire la straordinaria importanza per l'incremento dei traffici commerciali di "aprire la strada" a tutti coloro che desideravano venire a Venezia, ratifica definitivamente la permanenza dei Giudei in città. I1 provvedimento conferma alcune clausole fondamentali per la sicurezza, la stabilità, e la libertà dei nuovi immigrati.
La differenziazione per parti (funzionale e d'aspetto) raggiunta dalla città lagunare tra Medioevo e Rinascimento, e poi mantenutavi a lungo, non è in questo caso che l'esito di una volontà antica e più volte riconfermata di accogliervi gente di paesi lontani, che parlava lingue diverse, praticava altre religioni, viveva secondo costumi differenti, e aveva soprattutto un ruolo importante nell'attività economica cittadina.
È un'operazione allora, quella dell'istituzione del "Ghetto degli Ebrei", del tutto congruente con la complessiva strategia urbana esaminata in altro capitolo di questo volume, tesa - come abbiamo visto - ad una sorta di "specializzazione per zone" all'interno della compagine insulare e alla necessità di un adeguamento vigile e oculato ad esigenze differenti, a mano a mano che si manifestano. La rimozione da Rialto dei Giudei, che sono "servi nostri", corrisponde infatti all'allontanamento dal centro cittadino di arti utili e sporche, necessarie e pericolose, come quelle dei conciapelli, dei lavoratori del cuoio, degli sminuzzatori di carne, degli artigiani del fuoco... Non c'è dubbio d'altra parte che i Veneziani "hanno bisogno di loro", come sottolinea il Sanudo, cogliendo uno dei termini fondamentali della politica economica della Repubblica e dell'atteggiamento tenuto in quei primi anni del XVI secolo nei confronti di tutti gli stranieri, quelli considerati più o meno pericolosi.
Le scelte di rinnovamento urbano hanno toccato, dunque, le sedi delle istituzioni e l'area centrale della città, hanno segnato pesantemente le isole comprese tra San Marco e Rialto e il cordone ombelicale delle Mercerie e del ponte ligneo che le unisce (77), ma hanno coinvolto, aggiornato, completato in modo tutt'altro che marginale anche le contrade cittadine periferiche.
1. Francesco Sansovino, Venetia città nobilissima et singolare [con le aggiunte di Giustiniano Martinioni>, I, Venetia 1693, p. 368.
2. Marin Sanudo, De origine, situ et magistratibus urbis Venetae, ovvero La città di Venetia (1493-1530), a cura di Angela Caracciolo Aricò, Milano 1980, p. 257.
3. Roberto Cessi, La "Curia forinsecorum" e la sua prima costituzione, "Nuovo Archivio Veneto", n. ser., 28, 1914, pp. 202-207.
4. Giorgio Fedalto, Le minoranze straniere a Venezia tra politica e legislazione, in Venezia, centro di mediazione tra Oriente e Occidente (sec. XV-XVI): aspetti e problemi, a cura di Hans Georg Beck - Manoussos Manoussacas - Agostino Pertusi, Firenze 1977, pp. 151-152 (pp. 143-162); con riferimento anche ai provvedimenti circa privilegi di cittadinanza vedi, per esempio, A.S.V., Provveditori di comun, 21 agosto 1552, b. 46.
5. M. Sanudo, De origine, p. 176.
6. Marino Sanuto, I diarii, I-LVIII, a cura di Federico Stefani et al., Venezia 1879-1903: VI, col. 26.
7. Gino Luzzatto, Storia economica di Venezia dall'IX al XVI secolo, Venezia 1961, pp. 165-166, 190-207.
8. Vita del padre Ignatio de Loyola, a cura di Pietro Ribadeneira, Venetia 1586, citato in AA.VV., Venezia e la Spagna, Milano 1988, p. 73.
9. Aldo Stella, Giurisdizionalismo veneziano e tolleranza religiosa, in AA.VV., Venezia e la Germania, Milano 1986, p. 141 (pp. 141-158).
10. Come nota a proposito della presenza ebraica F. Sansovino, Venetia, p. 368; cf. anche G. Fedalto, Le minoranze, pp. 151-152.
11. Salvatore Bongi, Della mercatura dei Lucchesi nei secoli XIII e XIV, Lucca 1859; Onorato Mola, L'arte serica a Lucca. La nazione lucchese a Venezia, Venezia 1980.
12. Michele Rosi, La scuola dei Lucchesi a Venezia (sec. XIV-XIX), Lucca 1901.
13. Franca Semi, Gli "Ospizi" di Venezia, Venezia 1983, p. 187; Alberto S. De Kiriaki, Beneficienza di ricovero a Venezia, Venezia 1900, p. 153; Giuseppe Tassini, Curiosità veneziane, Venezia 1915, p. 669.
14. Vedi la Mariegola della Scuola, A.S.V., Provveditori di comun, R.U., cc. 33 ss.
15. Ivi, Senato Mar, 28 giugno 1479, reg. 11, c. 34.
16. Le Scuole di Venezia, a cura di Terisio Pignatti, Milano 1981, pp. 92-96.
17. Gustav Ludwig, Vittore Carpaccio. I: La Scuola degli albanesi in Venezia, "Archivio di Storia dell'Arte", 3, 1897, pp. 405-431.
18. G. Fedalto, Le minoranze.
19. Le Scuole di Venezia, pp. 106-118.
20. G. Tassini, Curiosità veneziane, p. 591; F. Semi, Gli "Ospizi", p. 111.
21. Paris, Bibliothèque Nationale, Ms. fr. nr. 5599.
22. Marion Leathers Kuntz, L'orientalismo di Guglielmo Postello e Venezia, in Venezia e l'Oriente, a cura di Lionello Lanciotti, Firenze 1987, p. 213 (pp. 207-227).
23. Julius Karl von Beloch, La popolazione di Venezia nei secoli XVI e XVII, "Nuovo Archivio Veneto", n. ser., 3, 1903, p. 1 (pp. 5-49).
24. Deno Geanakoplos, La colonia greca di Venezia e il suo significato per il Rinascimento, in Venezia e l'Oriente fra tardo Medio Evo e Rinascimento, a cura di Agostino Pertusi, Firenze 1966, p. 186 (pp. 183-203).
25. A.S.V., Senato Mar, 30 aprile 1514, reg. 2, c. 154v, e reg. 5, c. 144; le bolle pontificie di Leone X sono del 9 maggio e del 3 giugno 1514.
26. Venezia, Biblioteca Nazionale Marciana, ms. it. cl. VII. 526 (= 8196).
27. Ennio Concina, Venezia nell'età moderna, Venezia 1989, pp. 80-81; Nicola Ivanoff, San Giorgio dei Greci, il IV centenario di una chiesa insigne, "Le Tre Venezie", 15, 1940, pp. 13-17.
28. Giorgio Fedalto, Stranieri a Venezia e a Padova, in AA.VV., Storia della cultura veneta, 3/I, Dal primo Quattrocento al Concilio ddi. Trento, Vicenza 1980, pp. 499-535.
29. Sergio Bettini, La pittura di icone cretesi-veneziane e i "Madoneri", Padova 1933.
30. Alfonso E. Perez Sanchez, La vicenda di El Greco: un "legame" di eccezione tra Venezia e la Spagna, in AA.VV., Venezia e la Spagna, Milano 1988, p. 79 (pp. 79-102).
31. Statuto universitatis iuristarum Patavini gymnasii, Patavii 1550, f. 4, citato in G. Fedalto, Stranieri, pp. 514-515.
32. Dello stato et forma delle cose ecclesiastiche nel dominio dei signori Venetiani, relazione del nunzio Alberto Bolognetti pubblicata in Aldo Stella, Chiesa e Stato nelle relazioni dei nunzi pontifici a Venezia. Ricerche sul giurisdizionalismo veneziano dal XVI al XVIII secolo, Città del Vaticano 1965, p. 278.
33. Girolamo Priuli, I diarii, in R.I.S.2, XXIV, 3, vol. IV, a cura di Roberto Cessi, 1938-1941, 11 luglio 1501.
34. Donatella Calabi, Magazzini, fondaci, dogane, nel volume Il Mare di quest'opera, pp. 789-817.
35. G. Tassini, Curiosità veneziane, p. 153; F. Semi, Gli "Ospizi", p. 166.
36. F. Semi, Gli "Ospizi", p. 244.
37. A.S.V., Collegio, Notatorio, 18 settembre 1469, reg. XIX, c. 55.
38. Martin Lowry, The World of Aldus Manutius, Oxford 1979 (trad. it. Il mondo di Aldo Manuzio, Roma 1984), p. 8.
39. Id., The Social World of Nicolas Jenson and John of Cologne, "La Bibliofilia", 83, 1981, nr. 3, pp. 194-218.
40. Marino Zorzi, Stampatori tedeschi a Venezia, in AA.VV., Venezia e la Germania, Milano 1986, p. 115 (pp. 115-140); Giandomenico Romanelli, Venezia e la produzione dei cartografi tedeschi, ibid., pp. 73-90.
41. André Chastel, Venezia e la pittura del Nord, ibid., p. 100 (pp. 93-114).
42. Albrecht Dürer, Lettres, a cura di Pierre Vaisse, Paris 1964; intere collezioni di opere nordiche nelle case aristocratiche veneziane sono menzionate da Jacopo Morelli (Notizia di opere di disegno della prima metà del secolo XVI [...> scritta da un anonimo di quel tempo pubblicata e illustrata da D. Jacopo Morelli, Bassano 1800) con riferimento all'elenco incompleto redatto da Marcantonio Michiel (1515-1541).
43. Giorgio Gianighian, La chiesa di Santa Croce e l'ospizio degli armeni a Venezia, in Gli armeni in Italia, a cura di Boghos Levon Zekiyan, Roma 1990, pp. 50-52; Id., L'"Ospizio della nation armena" a San Zulian, Venezia, in Atti del Terzo Simposio Internazionale di Arte Armena, Venezia - San Lazzaro 1984, pp. 211-225; Alberto Rizzi, Rapporto da San Lazzaro degli Armeni, "Istituto Veneto di Scienze Lettere ed Arti", 135, 1977, pp. 323-337.
44. Boghos Levon Zekiyan, Il monachesimo mechitarista a San Lazzaro e la rinascita armena del Settecento, in La chiesa di Venezia nel Settecento, a cura di Bruno Bertoli, Venezia 1993, pp. 221-248.
45. Gaianè Casnati, Itinerari armeni di Venezia, in Gli armeni in Italia, a cura di Boghos Levon Zekiyan, Roma 1990, p. 56 (pp. 56-57).
46. G. Fedalto, Stranieri, p. 524; Aleramo Hermet - Paola Cogni Ratti di Desio, La Venezia degli Armeni, Milano 1993, pp. 90-94.
47. Ibid., pp. 37-48.
48. Baykar Sivazliyan, La nascita dei libri a stampa armeni nel cuore della Serenissima, in Gli armeni in Italia, a cura di Boghos Levon Zekiyan, Roma 1990, p. 94 (pp. 94-99).
49. Sirarpie Der-Nersessian, Aldo Manuzio 1449-1949 (in occasione del quinto centenario della nascita), "Paznavep", nr. 108, 1950, p. 22; Id., Due antiche edizioni armene in Venezia, in Armeni, Ebrei, Greci, stampatori a Venezia, a cura di Scilla Abbiati, Venezia-San Lazzaro 1989, pp. 39-48.
50. Ugo Tucci, Tra Venezia e mondo turco: i mercanti, in AA.VV., Venezia e i Turchi, Milano 1985, pp. 38, 51-55 (pp. 38-55).
51. Venezia, Museo Correr, ms. P.D. 740, c. II.
52. Eugenio Alberti, Relazioni degli Ambasciatori Veneti al Senato, ser. III, Stati ottomani, Venezia 1840-1855.
53. Giorgio Vercellin, Mercanti turchi e sensali a Venezia, "Studi Veneziani", n. ser., 4, 1980, pp. 45-78.
54. Béatrix Rava, Venise dans la littérature française depuis les origines jusqu'à la mort de Henri IV, Paris 1916, pp. 69-70.
55. Luigi Bassano, I costumi e i modi particolari della vita de' Turchi, Venetia 1545.
56. Rocco Benedetti, Ragguaglio dell'Alleanze, Solennità e Feste fatte in Venezia per la felice Vittoria, Venetia 1571.
57. Paolo Preto, Venezia e i Turchi, Firenze 1975, pp. 130-134. Per la supplica del Lettino, vedi A.S.V., Collegio, Notatorio, 11 marzo 1621, filze, b. 237 (sotto: 28 ottobre 1574), e ibid., 4 agosto 1579, b. 70; V Savi alla mercanzia, b. 187, n. ser., fasc. 1.
58. Ivi, Senato, Secreta, Materie miste, 2 maggio 1579, b. 55, fasc. 2, cc. 17-18: un gruppo di mercanti d'Anatolia si lamentano di essere obbligati a trasferirsi nell'osteria Vendramin.
59. Nel 1587 si rende necessario aumentare da uno a due il numero dei dragomanni addetti ai loro negozi, cf. P. Preto, Venezia e i Turchi, p. 130.
60. Ibid., p. 132.
61. Copia delle delibere dei savi alla mercanzia è raccolta in Venezia, Museo Correr, ms. P.D. 740.
62. Jürgen Schulz, The Fondaco dei Turchi (dattiloscritto non pubblicato), luglio 1990, p. 25.
63. Agostino Sagredo - Federico Berchet, Il Fondaco dei Turchi a Venezia. Studi storici e artistici, Milano 1860.
64. A.S.V., Senato Terra, 29 marzo 1516, reg. 19, cc. 78-95v. Per le origini del Ghetto, toponimo, caratteri dell'area, destinazioni d'uso presenti, decisioni e successive modifiche, nonché riferimenti documentari e bibliografia aggiornata, vedi Ennio Concina - Ugo Camerino - Donatella Calabi, La città degli Ebrei, Venezia 1991, e in particolare i due saggi, Ennio Concina, Parva Jerusalem, pp. 11-50, e Donatella Calabi, Il ghetto e la città, pp. 203-300.
65. M. Sanuto, I diarii, XXII, 26 marzo 1516, coll.
72-73.
66. Pier Cesare Ioly Zorattini, Ebrei sefarditi a Venezia, in AA.VV., Venezia e la Spagna, Milano 1988, p. 103 (pp. 103-120).
67. M. Sanuto, I diarii, I, giugno 1497, col. 646, e marzo 1496, col. 32.
68. Charles Malagola, Le lido de Venise à travers l'histoire, Venezia 1909, p. 32; A.S.V., San Nicolò, cart. 5, proc. 17, cc. 1, 3, 5, 13-14, 16v-22 (24 febbraio 1578, 29 gennaio 1622 [m.v. 1621>, 7 ottobre 1631, 23 settembre 1640, 20 aprile 1641); ivi, Inquisitori agli Ebrei, 1589-1658, c. 372v.
69. M. Sanuto, I diarii, XXII, 5 aprile 1516, coll. 108-109.
70. Ibid., 20 marzo 1516, col. 86.
71. Ibid., XXIV, 14 marzo 1517, col. 45.
72. A.S.V., Collegio, Notatorio, 8 luglio 1541, reg. 24, c. 118; 20 luglio 1541, reg. 24, c. 120; Inquisitori agli Ebrei, 2 giugno 1541, b. 19, c. 121; V Savi alla mercanzia, ser. II, 5 giugno 1541, b. 62.
73. Nella condotta del 1566 si parla poi di cinque banchi; A.S.V., Senato Terra, 19 febbraio 1567 (m.v. 1566), reg. 46, cc. 7-13. In altre successive si autorizza l'apertura di nuovi banchi.
74. Lo precisa la condotta del 1580; cf. ibid., 19 agosto 1580, reg. 53, cc. 42-49; Savi alle decime, 1582, b. 171, D.D.; 1661, Ghetto Nuovo, b. 426.
75. Bernard Blumenkranz, Les Juifs dans le commerce maritime de Venise 1592-1609, "Revue des Études Juives", ser. III, 2, 1961, pp. 143-151; David Jacoby, Venetian Jews in the Eastern Mediterranean, in Gli Ebrei e Venezia, a cura di Gaetano Cozzi, Milano 1987, pp. 29-58.
76. A.S.V., V Savi alla mercanzia, ser. II, 27 luglio 1589 (in pregadi), b. 62; 6 ottobre 1589 (in pregadi); b. 63, fasc. 168.
77. Donatella Calabi, Un nouvel espace public, in Venise 1500, a cura di Philippe Braunstein, Paris 1993, pp. 72-94.